Trieste è una città nota per essere un centro culturale vivo, frizzante, traboccante di idee. Ne sono certamente riprova i suoi teatri: è molto difficile trovare in Italia una simile concentrazione di centri drammaturgici di alto livello, che nel capoluogo giuliano sono ben cinque. Ognuno con la propria identità e con una programmazione di alto livello che ben si compenetra e convive con quelle degli altri quattro.
Il grande evento Barcolana è da anni un’occasione per puntare i riflettori anche su questa eccellenza triestina grazie alla Notte Blu: una maratona di spettacoli in cui ognuno dei cinque teatri maggiori -Rossetti, Verdi, Miela, Sloveno e La Contrada- mette in scena una breve rappresentazione su un tema comune. Che -facendo da apripista alla regata velica famosa nel mondo- non poteva che essere il mare. Una sorta di staffetta che dalle 17 fino a fine serata porta gli spettatori da un palco all’altro, da uno stile all’altro. Abbiamo seguito per voi tre dei cinque spettacoli: Rossetti, Verdi e Miela.

Lo Stabile del Friuli Venezia Giulia ha avuto in serbo per quest’edizione “Nel mare di Trieste”, un’esperienza audiovisiva dal doppio itinerario: attraverso gli storici stabilimenti balneari triestini -nelle parole di grandi scrittori che li hanno vissuti- e nel blu caratteristico degli ambienti del Rossetti. Si è iniziato in Sala Assicurazioni Generali, dove i due “lettori” Romina Colbasso e Andrea Germani hanno accolto gli spettatori con un divertente siparietto: forti della foto proiettata in sala rappresentante i cartelli “Uomini” e “Donne” del triestinissimo Pedocin (l’unico stabilimento in Europa ad essere tuttora diviso per genere) hanno fatto spostare il pubblico in modo da dividere anche in platea i maschi -a destra- dalle femmine -a sinistra. Mentre sullo sfondo venivano proiettate foto d’epoca dei “bagni” tergestini è stato poi possibile ascoltare le letture di “Storia di mare, parole e ricordi vissuti in dialetto, e vestiti con la lingua italiana” di Pino Roveredo e de “L’oasi di felicità” di Mauro Covacich: il primo rievoca proprio l’ormai mitico Pedocin e il modo in cui il tempo lì dentro sembri essersi fermato ormai da decenni, mentre il secondo ricoda con affetto la Pineta di Barcola e come -negli anni settanta come oggi- le sue sezioni fossero il riflesso delle classi e divisioni sociali.

Il pubblico è stato poi diviso in due gruppi, per poter visitare a turno gli altri due ambienti destinati alle letture: nel foyer del teatro è stato possibile ascoltare “Un lago salato” di Gillo Dorfles (con la voce di Ester Galazzi) e “La mia grande libertà” di Borish Pahor, recitato da Maria Grazia Plos. I due testi sono uniti dal non focalizzarsi su un unico stabilimento ma piuttosto nel ripercorrere la giovinezza dell’autore attraverso i diversi “bagni” che hanno segnato le sue amicizie e le sue esperienze adolescenziali. dalla Diga a Grignano, a Sistiana per Dorfles; dal Pedocin al canale di Ponterosso, al Cedas per Pahor.
L’altra tappa è stata in Sala Bartoli, con “Parlare del mare” di Claudio Magris, letto da Riccando Maranzana, dove vengono nuovamente rievocati gli scogli di Barcola e della sua Pineta. Anche qui -come per le altre letture- è stato possibile ammirare sullo sfondo la proiezione di foto d’epoca, gentilmente concesse dalla Fototeca del Comune di Trieste. Complessivamente lo spettacolo dello Stabile ha avuto i contorni di una buona “operazione nostaglia”, immergendoci in un’atmosfera d’altri tempi e facendoci più volte sorridere nel sentire come anche grandi autori di diverse epoche abbiano vissuto ciò che chi abita nel capoluogo giuliano vede e vive tuttora, ogni giorno di ogni estate. L’unica piccola nota negativa è il non aver avuto letture dal vivo nel foyer e in Sala Bartoli: ascoltare delle voci registrate -pur ottime, e non poteva essere altrimenti appartenendo agli attori della Compagnia dello Stabile- toglie indubbiamente immersione all’esperienza.

Successivamente ci si è avvicinati alle Rive e al mare dirigendosi al Verdi. Quella in serbo per noi non è stata una rappresentazione, quanto una conferenza che aveva proprio il Lirico come protagonista. Un presentatore d’eccezione -il sovrintendente Stefano Pace- ci ha infatti immerso nella storia del Verdi, dagli anni della sua progettazione fino alla gestione attuale, passando per tutti i restauri e le modifiche sia esteriori che alle sale interne. Un “viaggio” estremamente interessante e istruttivo, che ha permesso di capire quanto lavoro e quante difficoltà ci possano essere dietro a un edificio che -vedendo ogni giorno fermo e immutabile- diamo per scontato. Senza pensare alle vite che hanno permesso al Lirico di essere com’è e ciò che è adesso: dai vari architetti coinvolti nella sua progettazione e costruzione, agli screzi che hanno portato alla staffetta tra di loro, all’impegno profuso da chi ha sostenuto economicamente l’impresa e che -a teatro terminato e inaugurato- è stato comunque costretto al fallimento.

Di estremo fascino è stato inoltre l’allargare il discorso al lato sociale, descrivendo ciò che il Verdi (ma più in generale il teatro) è stato in epoche passate. Oggigiorno siamo infatti abituati a permearlo di un’alone di sacralità, serietà e livello culturale superiore, ma nel passato non era così: il teatro era prima di tutto un luogo di incontro e scambio culturale, dove spesso la rappresentazione in scena passava in secondo piano: era un louogo in cui apparire, in cui farsi vedere per mostarre che in società si contava qualcosa. Erano inoltre normali e concesse cose che oggi ci sembrerebbero scandalose: dal poter portare animali, al poter mangiare nei palchetti (che venivano affittati per stagioni intere alle famiglie e spesso erano una specie di estensione della propria casa, prevedendo due stanzini in cui nel primo si poteva cucinare il pasto con cui godersi poi lo spettacolo.

Come è ormai consuetudine sin dalla prima edizione, a chiudere la staffetta è stato il Miela con quella che è con ogni probabilità la punta di diamante della sua programmazione: il Pupkin Kabarett con tutta la sua ironia. A differenza degli spettacoli maggiormente monografici delle edizioni scorse (come quello su Jack London nel 2017), per questo 2018 il Pupkin è tornato al consueto format di monologhi e sketch intervallati da parentesi musicali, stavolta però tutti incentrati sul mare e sulla Barcolana. Si è passati dalla visione distopica di una Trieste futura governata da Mitja Gialuz (presidente di Barcolana, n.d.s.), alla “vecia sioreta” che a più di novant’anni continua a correre dietro agli uomini e ripensa con nostalgia al “folpon” del marito morto, alla coppia annoiata e apatica che mentre pesca si lamenta del caos provocato dalla Barcolana e di come Trieste sia cambiata, in pieno spirito “no se pol” tergestino. Un Pupkin in grande forma che fa divertire e ridere senza sosta la platea e che quindi chiude nel migliore dei modi una serata affascinante e diversa dal solito, a sottolineare come Trieste ancora oggi si possa definire una delle capitali della cultura in Italia e -perché no- anche oltre confine.

©Luca Valenta / Instart

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