Silas & Saski: Saskia Maxwell (Voce, flauto traverso, chitarra) Silas Neptune (tastiere) Adam Field (batteria)

“La musica è molto spirituale: ha il potere di unire le persone. La musica è magia: la voce armoniosa della creazione, un’eco del mondo invisibile, porta un messaggio di bellezza, amore e pace. Dobbiamo lavorare con convinzione e umiltà, cercando la bellezza, la semplicità e la verità. La musica è magia; la musica è molto spirituale.”

Con queste parole, lette in italiano e all’apparenza farneticanti, Saskia Maxwell ha cercato di spiegare, in una sorta di ingenuo delirio New Age, il senso della musica che suona in trio con il suo compagno, Silas figlio di Ed Wynnie e il giovane batterista, Adam Field.

La scaletta ha presentato brani in gran parte inediti e di prossima pubblicazione nell’album dall’evocativo titolo “Harmony of the Spheres”.

Saskia ha continuato rivolgendosi al pubblico in un buon italiano, parlando di spiritualità della musica, di magia e di suoni che si relazionano armoniosamente alla bellezza della creazione. “La musica può aprirci la mente e curare le nostre ferite spirituali” ha detto, aggiungendo, con fare vagamente circense, che il concerto è un modo di stare uniti e di condividere le emozioni più profonde facendosi cullare dalle melodie mistico-meditative che possiamo trovare tra petali e corolle incantate.

Possono sembrare parole scontate da tarda Età dell’acquario, ma sono sempre meglio di quelle di chi nel nostro miserabile paese si gloria per i successi della nostra industria delle armi, per aver aumentato il respingimento dei migranti o quelle di chi pensa che i problemi italiani si possano risolvere reintroducendo obbligatoriamente il carrello dei formaggi nei ristoranti.

Confrontate con quegli sproloqui, le flautate parole di Saskia sembrano di alata saggezza; di certo sono sempre meglio i fiori dei cannoni che sono accettabili solamente se rollati con le cartine Rizla.

C’è ancora una gran bella differenza tra il ballare al rombo del cannone o lasciarsi cullare da una melodia portata dalla vocina di una fatina, forse un po’ sciroccata, ma almeno innocua e sincera.

Una vecchia serie seminale della tv americana, durata per decenni, cominciava invariabilmente con la medesima tag-line:

“C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra luce e oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi Ai confini della realtà (The Twilight Zone).”

Proprio su quella linea di confine all’orizzonte degli eventi sembrava trovarsi il Capitol la sera del concerto con tanta gente variopinta, di tutte le età, pronta a godersi la musica, le “Good Vibes” e le suggestioni più o meno alcoliche del bar di fianco al palco in piena, inesausta attività; come se fuori di lì non stesse succedendo niente, come se a Pordenone ci fosse un’amministrazione democratica, come se non ci fosse la probabilità di una nuova devastante Guerra mondiale con la base di Aviano obiettivo strategico, come se non ci fosse un genocidio in corso, come se la catastrofe climatica fosse solo una remota possibilità, come se…

Come si dice “Bella gente per bella musica” in un luogo accogliente che è diventato il salotto buono dei suoni alternativi di Pordenone con tanto di soffici divanetti che permettono anche ai più viziati rocker di godersi in santa pace e comodità i concerti; naturalmente per i più scatenati c’è sempre lo spazio sotto il palco che garantisce un contatto con i musicisti molto raro in altri contesti.

Tanto puntuali da essere perfino in anticipo, iniziano Silas & Saski, il figlio di tanto padre e la sua morosa flautista balcanica.

Aiutata da immagini incantate che scorrono sullo schermo, la voce di Saskia incanta come quella di una sirena mentre il glissando e i crescendo preparano l’atmosfera.

Il flauto traverso di certo arricchisce le sensazioni bucoliche, tra farfalle variopinte e sintetici uccelli; la sua vocina è sottile, molto acuta fino ad essere fastidiosamente stridula, ma ha anche alcune suggestioni e perfino incanti.

Il solco è quello tracciato dal padre, uno space rock con inserti elettronici di morbida psichedelia, ma anche Silas ha i propri gusti che lo indirizzano verso suoni più aspri e molto spesso orientaleggianti. La voce di Saski rende paradossalmente il sound nel complesso meno ipnotico e per certi versi più banale con armonizzazioni ingenue e quasi infantili. Lo stupore di fronte alla bellezza della natura, alle sue suggestioni, l’incanto delle stagioni, dei fiori e degli esseri che popolano il cielo dei nostri sogni garantisce di certo emozioni soffici e sottili.

La batteria acustica di Field è di gran lunga preferibile alla drum machine presente sul disco, non sfodera doti da grande virtuoso, ma dietro le pelli ci sa decisamente fare.

Le composizioni si susseguono in una dilatata, piacevolissima teoria di suoni ed atmosfere che hanno solide basi nel Krautrock e nella Kosmische Musik, perchè le “porte della percezione” sono sempre state lassù in Germania e da allora si inventa ben poco, il brodo di coltura è quello e la lunga germinazione ha fruttato in questo giovane trio uno Psych prog floreale che la voce di Saskia rende ancora più dolciastro fin quasi ad essere stucchevole, ma nonostante tutto di un certo fascino.

Nella Biography del proprio sito Saskia afferma di cantare in molte lingue incluso italiano, turco, kurdo, georgiano e di apprezzare grandemente la cultura folklorica e tradizionale di tutto il mondo.

Se l’esempio di tanto interesse e amore è la “canzone dell’amore” che la performer ha composto e cantato nella nostra lingua durante il concerto di Pordenone, vuol dire che non ci siamo proprio. Se la musica era la solita ballad lisergico elettronica il testo era assolutamente dimenticabile con rime cuore, sole, amore decisamente dimenticabili. Apprezzabili solamente i riferimenti pacifisti e contro ogni guerra, tutto il resto sembrava tratto dalle canzoni di Ilona Staller per i suoi “cicciolini” in versione stordita che una generazione di italiani ridotti a ipovedenti per usura, ricorda bene.

Non sono mancati nemmeno atmosfere robotiche e ritmi orientali di hit per un’isola che non c’è, tutta immaginata tra palmizi di plastica e spiagge di cartapesta in una foschia rosa di zucchero filato.

In alcuni brani, per l’occasione Saskia ha indossato una complicata maschera di carnevale veneziana talmente pacchiana e kitsch da sembrare un’opera d’arte; con i capelli finalmente sciolti, ha fatto anche la ruota con la gonna come una vera e propria zingara.

A volte ha imbracciato una chitarra dodici corde di preziosa liuteria ma nessuno è sembrato accorgersi della differenza. Mentre il suo compagno ha continuato imperturbabile a forgiare suoni onirici con le sue tastiere acide tra mandala cangianti e caleidoscopi d’emozioni e di luce per un sogno che non finisce mai.

Se non si fosse ancora capito, il set di Silas & Saski è stato piacevole e la sua relativa brevità l’ha reso del tutto digeribile. La vocina di Saskia alla lunga si è trasformata in una sorta di miagolio piuttosto fastidioso. Ogni bel gioco dura poco e, infatti, alla fine se ne sono andati, meno male.

Scaletta approssimativa: Moonsong, Dreamer, Un amore, un cuore, Milky Window, Melting Shadow, Shakti.

Ozric Tentacles: Ed Wynne (Chitarra, tastiere) Vinny Shilito (basso) Saskia Maxwell (flauto traverso, tastiere) Silas Neptune (tastiere) Adam Field (batteria)

Dopo una breve pausa il viaggio interstellare è ripreso a partire dalle tracce dell’ultima fatica discografica della band “Lotus Unfolding” che dal vivo suona anche meglio che in digitale con accenni più ruvidi e rockeggianti soprattutto perchè il basso elettrico di Shilito regala un sound più tridimensionale e profondo della ritmica da tastiera che pur straordinariamente efficace risulta sempre un po’ fredda e sintetica.

Sono i vecchi successi a trascinare il pubblico e nonostante tutto quello che abbiamo malignato più sopra è fuori di dubbio che la difficile alchimia tra tarda psichedelia ed elettronica danzereccia, vagamente acida e ipnotica che li ha sempre distinti e caratterizzati, funziona e convince oggi più che mai.

Le tastiere pulsavano alla giusta temperatura in un infinito mantra, fatto di lunghissimi assolo chitarristici che non sembravano andare da nessuna parte, ma che si lasciavano seguire con grande semplicità e piacere, senza mai smettere di divertire. Erano variazioni minime sulla medesima corda ripetute quasi in loop, ma chi se ne importa, godiamo finchè possiamo “che il soffrir non manca mai” come diceva un vecchio adagio.

La line up non era granchè cambiata, rispetto al primo set, ma la differenza si sentiva eccome. La direzione di Ed Wynne, patriarca di una grande famiglia in musica che comprendeva originariamente anche suo fratello Roly e sua moglie Brandi e che oggi si avvale del figlio e della sua compagna, rendeva il sound davvero immaginifico e, anche se gli arrangiamenti e le trovate elettronico-ritmiche sono le medesime da 40 anni, è sempre un gran bel sentire.

Il progetto musicale di Ed Wynne ha sempre avuto il grande fascino di chi arriva controtempo o in altri termini sempre fuori tempo massimo o troppo in anticipo per essere contemporaneo.

Per chi scrive essere anacronistici è il massimo dei meriti soprattutto per un artista che non dovrebbe mai farsi trascinare dalla corrente del Mainstream senza opporre una strenua resistenza.

Gli Ozric Tentacles sono venuti troppo tardi per l’autentica ondata psichedelica dei Sixties, troppo presto per il revival di fine anni ’90, troppo tardi per la musica cosmica originale, troppo presto per la trance; troppo tardi per il Prog rock, troppo presto per l’alternative post-rock; il giochino dei generi potrebbe andare avanti a lungo, ma è decisamente fine a se stesso.

Ed Wynne ha avuto la grande intuizione e la perseveranza di seguire il proprio sogno in musica senza badare troppo alle mode, seguendo l’esempio di un suo grande punto di riferimento e vero sciamano di quel particolare genere musicale che era Daevid Allen con i suoi Gong.

Non è un caso se Gli Ozric Tentacles hanno iniziato una fruttuosa collaborazione con l’ultima incarnazione di quel gruppo seminale della musica d’immaginazione o se nel gruppo ha militato per alcuni anni Harry Waters, figlio di Roger Waters dei Pink Floyd.

Torna sul palco la dolce Saskia della quale non si sentiva la mancanza, ribadisce con le note flautate del suo labiofono che dobbiamo volerci bene come un sol corpo, che i fiori sono belli e che la nostra vita lo può essere altrettanto se la prendiamo dal punto di vista di un’ape bottinatrice e del suo sciame di sorelle ubriache di nettare e d’amore, invece di quello solito dell’orda di lupi mannari in cui, fin troppo spesso, ci trasformiamo preferendo una corolla di tenebre al prato di margherite.

La sacrosanta aspirazione alla pace e all’armonia attraverso la musica non è per nulla un’ideologia, ma un legittimo, indiscutibile anelito.

Lontane eco di sitar simulato attraverso la chitarra che ti solletica e ti porta nella dimensione giusto accanto alla nostra che ci immaginiamo sempre migliore anche perchè peggiore della valle di lacrime e sangue nella quale stiamo affogando non può essere possibile.

Decisamente interessante il lavoro del bassista cui di tanto in tanto viene concesso qualche breve assolo che lui risolve funkeggiando groove semplici e immediati, ma non sgradevoli. Molto efficace anche il giovane batterista che non passerà certo alla storia per il suo virtuosismo e la sua creatività, ma che in questo contesto sfavilla soprattutto quando i ritmi diventano incalzanti e veloci.

Lo straordinario effetto di “galleggiamento” nei suoni della musica della band inglese così tipico della loro arte anche dopo quattro decenni funziona ancora egregiamente anche quando il ritmo batte in levare per un dub dalle profondità dello spazio; non sono mancate nemmeno le incursioni nell’elettronica più spensierata e perfino blandamente commerciale.

Lo possono ben testimoniare tutti quegli spettatori del Capitol di Pordenone che erano ragazzini nei primi anni ’80, quando è iniziata l’avventura dei “Cereali lisergici” e che oggi hanno i capelli bianchi proprio come Ed Wynnie. Sembra un miracolo aver “surfato nello spazio siderale” varcando confini e inaudite dimensioni sensoriali grazie a quei “glissando” e a quelle suggestioni elettroniche.

Assolutamente straordinario anche il fatto che la band negli ultimi anni si sia guadagnata un nuovo pubblico trasversale di giovanissimi che quattro decadi fa non erano nemmeno un progetto nella mente dei loro genitori.

Completamente in controtendenza con tutta le band nostalgia che appestano i palcoscenici della musica contemporanea, gli Ozric Tentacles continuano a stupire e a conquistare nuovi estimatori e i tanti sold out di questo 40th Anniversary tour, l’entusiasmo del pubblico e un’inarrestabile, arborescente creatività, ci dicono che i “Tecnopadri del Sacro” hanno ancora molte sorprese da regalarci.

La meravigliosa esibizione, straniante e magica, del Capitol di Pordenone si è conclusa con il loro maggior successo , l’ormai iconico Sploosh! che gli ha garantito fama eterna.

Scaletta approssimativa: Green incantation, Eternal Wheel, Erpland, Lotus Unfolding, Sunscape, Sniffing Dog, Burundi Spaceport, Ayurvedic, Jellylips, Sploosh!

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©

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