Replica del 03/04/2022. Il Verdi di Trieste ha imbandito un’altra delle sue succulente vivande in musica allestendo una deliziosa rappresentazione della celebre opera buffa del compositore bergamasco. La splendida scenografia, gli ottimi interpreti e la preziosa esecuzione dell’orchestra del Verdi hanno garantito al folto pubblico uno spettacolo divertente e spensierato nella migliore accezione di questi termini.

Perfettamente in parte, spumeggiante e piena di vita, la Nerina di Nina Muho; esilarante e convincente l’Ernesto “Little Tony” dell’amico del Verdi Antonino Siragusa, già visto solo pochi mesi fa nei panni del Conte d’Almaviva de Il barbiere di Siviglia, modello di riferimento di Donizetti. Giustamente comico e caricaturale il Don Pasquale di Pablo Ruiz.

A parte l’affascinante partitura di uno dei geni assoluti della musica, la bravura dei cantanti, la versatilità del coro e dell’orchestra, a farsi notare in questa edizione dell’opera sono state l’ottima regia “cinefila” di Gianni Marras che utilizza tutti i clichè della commedia all’italiana cinematografica per regalare all’intrigo una sognante atmosfera anni ‘50. Davvero notevoli le trovate scenografiche e i costumi di Davide Amadei in grado di trasformare tutto il racconto in un tableau vivant da Graphic Novel.

Dopo la prima parigina del 3 gennaio 1843 la malevola critica francese sentenziò che il Don Pasquale era “la solita arlecchinata all’italiana”. Ed era esattamente quello che ci si aspettava dal genere buffo o comico decisamente al tramonto, esaurito nei modi e nei tempi da un secolo e più di ripetizioni della stessa materia narrativa e musicale, diventato ormai decisamente un frusto stereotipo; insomma, le solite maschere, le medesime storie, le stesse situazioni e battute stracche buone solo per sguaiate fragorose risate e sghignazzi a scena aperta.

Allora, sembrava ancora impossibile andare a teatro per piangere d’emozione o per essere turbati in alcun modo. Ma i tempi stavano cambiando e se il don Pasquale può essere considerata l’ultima opera buffa fuori tempo massimo, è anche la prima di un modo nuovo di intendere la fruizione della musica operistica.

Donizetti aveva capito benissimo la “tempesta perfetta” che stava per scatenarsi sull’Europa, il vento stava decisamente cambiando e nell’aria si sentiva già un borbottio lontano di nubi in avvicinamento. Venti anni e più di “restaurazione” erano bastati e i modelli culturali e politici che forzatamente erano stati reintrodotti sul finire dell’età napoleonica ormai stavano per essere spazzati via. Il processo che avrebbe dato luogo alla contemporaneità era già ben avviato.

Il disimpegno di cui è stato accusato il compositore è fondato principalmente su calunnie e maldicenze; certo non si espose mai in modo diretto per quanto riguarda i moti risorgimentali ma, molto probabilmente, collaborò in segreto con la sedizione, da vero “carbonaro” tanto che Mazzini scrisse: “Donizetti l’unico il cui ingegno altamente progressivo riveli tendenze rigeneratrici, l’unico che io mi sappia, sul quale possa in oggi riposare con un po’ di fiducia l’animo stanco e nauseato del volgo d’imitatori servili che brulicano in questa nostra Italia”.

Senza farci prendere troppo la mano, per questo, siamo giustificati, tra una risata e l’altra, a rivolgere un pensiero al Risorgimento quando vediamo la protervia del vecchio Don Pasquale dileggiata e derisa dai giovani Ernesto e Nerina.

Sul palcoscenico del Verdi gli spettatori accomodandosi in sala vedevano, un sipario-tendone verde stinto da circo equestre, con un’enorme scritta “Don Pasquale” in un font anni ‘40 che sembra quello dei titoli di testa di uno dei tanti capolavori della prima commedia all’italiana di Steno o Camillo Mastrocinque.

La musica di Donizetti è talmente popolare che ad ogni incedere allegro e sperticato d’archi e percussioni, ci sentiamo davvero a casa e il nostro animo è già rasserenato fin dalle prime note dell’ouverture. Il compositore è un amico di famiglia, un vecchio zio buono, un amico di Totò e Peppino, uno che condivide la loro stessa verve, napoletano verace come solo un bergamasco purosangue può essere.

Sereni e rilassati, gli spettatori erano già immersi nella gioia di quelle note fresche e luminose quando un cellulare, sfuggito dalle mani di un’imprudente signora, da un palchetto di second’ordine, cadeva direttamente sul capo di un musicista dell’orchestra.

Anche questo è sembrato un episodio da farsa all’italiana di quelli grotteschi, pericolosi e per niente divertenti che ci fa capire quanto sottile sia il diaframma che separa la nostra quotidianità con la surrealtà di un gesto improvvido e imprudente che poteva rivelarsi ben più grave. Grandissima professionalità, dedizione e serietà hanno dimostrato gli orchestrali con il loro direttore che hanno continuato a suonare concludendo la battuta, prima di chiedere soccorsi. Per fortuna tutto si è concluso con un bell’applauso.

Finalmente entra in scena Don Pasquale che, almanaccando di una sua prossima conquista “sentimentale”, si beve una tazzurella di caffè ricordando a tutti il grande Eduardo de Filippo in un famoso spot pubblicitario.

La trama dell’intreccio è presto detta: un matrimonio per procura organizzato da un astuto ruffiano (Il dottor Malatesta) tra un avido anziano (Don Pasquale) e una giovane vedovella (Norina) si trasforma in una “gioiosa” estorsione ai danni del vecchio satiro. La giovane finisce giusta e felice sposa del suo scapestrato, coetaneo amante, nipote del babbione (Ernesto) e vissero tutti felici e contenti.

Naturalmente non mancano le scene esilaranti, i colpi di scena, i malintesi. Cercheremo di darne conto sommariamente qui di seguito, senza essere troppo didascalici visto che l’opera è celeberrima; ricorderemo solo alcune scene che in questo allestimento sono sembrate indovinate sequenze filmiche o autentici, divertenti sketch di quando anche i programmi televisivi sapevano essere intelligenti e non solo sguaiati e volgari.

Nel primo atto, quando lo scaltro dott. Malatesta canta illustrando le doti della promessa sposa: “Bella siccome un angelo in terra pellegrino”, mostra al libidinoso Don Pasquale un “calendarietto” con le pin up come quelli che si trovavano dai barbieri. E’ una specie di catalogo di bellezze che serve a circuire la vittima suscitando le sue brame senili. Mentre intona “Chioma che vince l’ebano e sorriso incantator” indica ben altra parte del corpo.

Infatti, la descrizione della sposa come “Alma innocente e candida” è un fin troppo insistito idillio edificante che fa capire chiaramente che, sotto sotto, s’intende qualcosa di cupido e smanioso.

Don Pasquale, ad un certo punto, scopre perfino che il pronubo ruffiano del dottore “vende” la propria sorella e non si risparmia dall’accettare il contratto, anzi si fa ancora più trepido tanto da sentirsi rimproverare: “Frenate il vostro ardore fra poco qui verrà”.

Il fosco desiderio del vecchio si trasforma sulla scena in una sequenza onirica: “Un foco insolito mi sento addosso”. La scenografia, per sottolineare il desiderio di Don Pasquale novello Peppino De Filippo, si trasforma nella sagoma di una enorme donna prosperosa come l’Anita Ekberg ne “Le tentazioni del dottor Antonio” di Fellini, una trovata davvero molto efficace.

Mentre canta lubrico: “Affrettati bella sposina, già mezza dozzina di bamboli vedo scherzar”, tutto il sogno ad occhi aperti svanisce, entra baldanzoso il nipote Ernesto “conciato” da Teddy Boy. Don Pasquale vuole che metta la testa a posto sposando una bella vedova che ha fatto scegliere per lui, ma il giovinastro non ne vuole sapere perché pensa solo alla bella Norina che guarda caso è la sorella del dottor Malatesta che tresca per raggirare il vecchiaccio come dicevamo.

Il nipote non tarda ad intuire l’inganno che si sta architettando ai danni dello zio ma se all’inizio è sconvolto, ben presto capisce che può trarne profitto perciò non gli dispiace per nulla tenere bordone al farabutto ingannatore e alla di lui sorella, vera vipera che lui desidera ardentemente.

Nella scena quarta del primo atto, Norina è dal parrucchiere e mentre le mettono i bigodini sfoglia un fotoromanzo da cinquanta lire che parla di lepidezze postribolari tra dame e cavalieri; sotto il casco per la messa in piega, si bea delle proprie virtù muliebri d’ispirar amor e di farsi corteggiare . E’ molto cocotte, superba, smorfiosetta e civettuola, davvero deliziosa con il suo civettare gorgheggiante.

La seducente Nina Muho, sembra una Sophia Loren con in più un grande talento per la recitazione, naturalmente sa cantare ma allo stesso tempo sa sempre essere, splendida, affascinante, e borgatara al punto giusto di cottura.

La procace ragazza, dimostrandosi più crudele di come appare, tutta sorrisetti e vestitini, accetta di far impazzire il vecchio Don Pasquale con i propri capricci ballando il twist e cantando: “farò scene so ben io quello che ho da far…il nostro imbroglio, Don Pasquale a corbellar”.

E’ ben consapevole del raggiro di cui sarà protagonista-agente e non si tira di certo indietro: “Convien far la semplicetta”, dice. E poi ancora: “Brava, brava bricconcella.

A tratti sembra di vedere “Peccato che sia una canaglia” di Alessandro Blasetti con Sophia Loren nei panni di una truffatrice sostenuta dal “Professor” Vittorio De Sica ai danni dell’ingenuo Marcello Mastroianni. Certo il plot del film è diverso ma le contiguità sono evidenti e questo significa che la tradizione del cinema leggero italiano è in perfetta, naturale continuità con la grande stagione del melodramma del nostro paese.

Straordinarie le scenografie e le coreografie, tutte imperniate per rendere l’atmosfera scanzonata e leggera di Vacanze romane di William Wyler con tanto di “Pizzardone”: “Si corriamo al cimento al gran cimento” scorrono le quinte a dare l’impressione che Norina e il dott. Malatesta, inforcata una vespa gialla, “filino” per le vie di Roma; scorre il Colosseo, Piazza di Spagna, Trinità dei Monti, l’Eur, il Pantheon. Vanno così di fretta che “bruciano” un semaforo e il vigile di cui sopra gli fa la multa. Viva l’Italia e i suoi stereotipi.

Il secondo atto si apre con Ernesto che nella sua cameretta affacciata sui tetti di Roma con in lontananza il cupolone, canta la sua disperazione. E’ un liquido suono di tromba ad introdurre il suo dolore mentre in platea un’anziana signora del pubblico scarta le solite rumorosissime caramelle. Naturalmente, quell’orribile fastidio non è mai previsto in partitura ma, ciò nonostante è sempre presente in ogni concerto. Oltre ai telefonini andrebbero proibiti anche i dolciumi d’ogni sorta, soprattutto quelli confezionati nel micidiale cellophane. Ma bisogna pur farsene una ragione.

Ernesto, ignaro ma presago di cosa sta per succedere, si prepara a lasciare Roma, la sua bella e i suoi sogni di ragazzo.

“Povero Ernesto dallo zio cacciato…perder Norina…i giorni grami a trascinar si vada. Cercherò lontana terra deplorando il ben perduto…non ti potranno dal mio core cancellar”. Proprio negli anni in cui Donizetti compose questa sua farsa cominciava la grande emigrazione italiana, autentica dolorosa diaspora di milioni di persone verso il nord Europa, Americhe e l’Australia. Sembra plausibile vedere un eco di quella drammatica situazione nel crucci e nei lamenti di Ernesto.

Nella scena successiva Don Pasquale si appresta ad incontrare la sua sposina e si è “tirato a lucido”, indossando un abito di uno sgargiante arancione che si è fatto confezionare appositamente per sembrare un “super ggiovane”. Come di prammatica sfoggia anche un parrucchino fiammante che lo fa sembrare davvero una maschera da circo, un vero clown eppure canta “niente male per un settantenne”; aspetta fremente la sua pulzella appena uscita di convento (lui s’illude).

I più maligni tra il pubblico, come lo scrivente, hanno subito pensato, per pura associazione di idee, ad un noto personaggio italiano cui è stato ritirato il Cavalierato della Repubblica per indegnità, che di recente ha celebrato l’unione con la propria ennesima nuova compagna di cinquant’anni più giovane di lui. E’ proprio vero, l’amore non ha confini né età e il nostro paese è davvero la patria dell’opera buffa e delle conseguenti buffonate.

Per la sua opera Donizetti attinse ad una lunghissima tradizione non solo operistica che, raccontando la solita storia del vecchio satiro che si vuole maritare con la giovanetta e resta gabbato, fa ridere di gusto dai tempi degli antichi greci e poi di Plauto. I gusti letterari dell’ex cavaliere di cui sopra ci offrono la possibilità di fare una succosa citazione che meglio di ogni altra, riassume l’humus dal quale germinò tanto divertimento e tanto sarcasmo sulla vacuità dell’umano agire. Dichiaratamente la sua lettura preferita è “L’elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam. Proprio in quelle pagine La Pazzia in persona racconta dei vizi degli uomini prendendoli in giro per far sì che vedano la loro miseria e si redimano:

“E’ merito mio, si sa, se vedete dunque vecchi della vecchiaia di Nèstore, che non serbano più nemmeno aspetto umano, balbuzienti, barbogi, sdentati, canuti, calvi o, per descriverli con le parole di Aristofane – Sozzoni, curvi, miseri, di grinze pieni, ma senza peli né denti, senza virilità – Eppure, provano tanto gusto alla vita e fanno i giovani, e uno si tinge i capelli, un altro cela la calvizie con una chioma posticcia, un altro usa dei denti presi a prestito forse a qualche maiale, un quarto perde la testa dietro una ragazza, lasciandosi dietro qualsiasi giovanetto per le sue follie d’amore. E’ uno spettacolo così frequente, che un vecchio decrepito, già sull’orlo della bara, si prenda per moglie una giovanetta tenerella, anche senza dote, anche a servire ad un altro, che quasi quasi gliene si farebbe un merito.”

Nel frattempo sul palcoscenico del Verdi, Norina tutta “cara e modestina” canta: “Sta a vedere vecchio matto come ti servo…sei pure un gran babbione” impazzire ti faro’. La scaltra giovanetta si presenta ritrosa, putibonda e verginella per circuire il vecchio babbeo ma, in realtà, è davvero scafata.

La trappola si chiude con l’arrivo del notaio che il regista ha voluto travisato da Groucho Marx con i baffoni dipinti e il sigaro tra i denti, una gran bella pensata del regista anche questa. Il finto matrimonio viene celebrato al solo fine di estorcere quanto più denaro possibile al povero sprovveduto Don Pasquale che comincia a suscitare tenerezza tanto è credulone.

La regolarità del contratto però pretende un testimone che viene trovato con l’arrivo a sorpresa del giovane e innamorato Ernestino, il quale si prepara ad emigrare. Un’altra felicissima trovata registica è quella di far apparire il ragazzo in abiti da astronauta pronto a lasciare davvero la terra dove rimane la sua amata perduta, alle volte di una “galassia lontana, lontana.” Il giovane però capisce l’inghippo e cerca di sfruttarlo a proprio favore come dicevamo.

Nel terzo atto Don Pasquale deve far i conti con la sregolatezza economica e le pretese d’ogni sorta della sua giovanissima mogliettina che da vergine oblata si è trasformata in un’autentica arpia: “Scordatevi il no! Voglio lo dico solo io! Ma taci Buffone!”. Il vecchio non ne può già più. Dopo una vita di sacrifici e spilorceria vede dissipare il suo patrimonio dai capricci di una bizzosa, viziata e intraprendente “bambolona” che lo insulta e lo umilia e finisce perfino per dargli un ceffone.

“E’ finita!” dice Don Pasquale nel momento stesso nel quale il suo personaggio da comico diventa dolente, grottesco e perfino tragico. Sta proprio anche qui la sapienza di Donizetti che, per piccole sfumature seppe rinnovare il genere Buffo introducendo un certo sfondo di amarezza. Dallo scherno si passa alla compassione per una figura che cela in se tutto il suo dramma.

Norina, per contrappasso, perde così gran parte del suo fascino rivelandosi per quello che è: una donna leggera, superficiale, del tutto priva di eleganza e spregiudicata.

Nel finale pieno di colpi di scena che mirano ad accusare d’adulterio la fresca sposa, l’inghippo viene svelato e Don Pasquale deve rinunciare al proprio sogno di gioventù, rassegnandosi alla senilità; Norina, invece, sposa, questa volta per davvero, il suo Ernesto e tutto finisce in una bella risata dolce-amara e non basta l’edificante chiosa finale a fugare quel pizzico d’angoscia che di proposito Donizetti ha voluto trasmetterci.

Canta Norina mentre già si preparano i caldi applausi finali del pubblico: “ La moral di tutto questo è assai facile trovar. Ve la dico presto presto se vi piace d’ascoltar. Ben è scemo di cervello chi s’ammoglia in vecchia età; va a cercar col campanello noie e doglie in quantità.”

Flaviano Bosco – instArt 2022©

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