Ore 20,00: Licaones

Il Licaone (Lycaon pictus) detto anche cane selvatico africano, è un canide lupino diffuso nell’Africa subsahariana. E’ un predatore piuttosto scaltro che caccia in branco soprattutto le antilopi che rincorre silenzioso per chilometri per ghermirle quando meno se l’aspettano.

I Licaones sono invece una band di musicisti picchiatelli che da qualche anno viaggiano sui nostri palcoscenici divertendo il pubblico di tutte le età con un sound dinamico, fresco e interconnesso tra vari generi.

I componenti del combo si presentano come: il reverendo Oscar Marchioni all’organo, Paolo Mappa il batterista più grande del mondo, l’immenso Mario Ottolini e il sempre ironico e spiritoso Francesco Bearzatti.

Ai quattro non manca certo la vis comica, il gusto per lo sberleffo e il paradosso ma sono anche perfettamente consci del loro valore di musicisti straordinari e versatili. Certo questo loro progetto musicale che ha tagliato il traguardo della prima decade è nato con il preciso scopo di divertire, intrattenere un pubblico da Lounge party come dal titolo di un loro lavoro.

Apparentemente niente di troppo impegnativo tutto Happy Hour, spritz e aperitivi vari; musica fresca e frizzante da domenica pomeriggio in centro, come la ribolla gialla imbottigliata apposta per il Grado Jazz da sorseggiare al chiosco in buona compagnia.

Un quartetto di amiconi di lunga data ma non certo una band amatoriale da scopone scientifico al bar sport. I due frontman, Ottolini e Bearzatti che, in questo caso, giocano a fare i Gianni e Pinotto del jazz di periferia, sono quanto di meglio d’ancia e labiofono possa vantare la scena musicale italiana.

Il primo è un trombonista raffinatissimo dalle doti sperimentali ed eterodosse che può vantare collaborazioni stellari con il firmamento della musica d’avanguardia internazionale; da Trilok Gurtu a Carla Bley e Steve Swallow e via di seguito cui si aggiungono un numero rilevante di progetti solistici, di ensemble, direzione d’orchestra, colonne sonore e chi più ne ha più ne metta; in una carriera ultraventennale documentata da moltissime incisioni e nata sotto gli auspici del suo mentore il grande Franco D’Andrea.

Di Francesco Bearzatti non si dice mai abbastanza. Lo avevamo visto pochi giorni fa ieratico e serissimo in una serata a Marano lagunare Borghi Swing in un intensa esibizione in duo con il pianista DarioCarnovale, recensita su questa stessa rivista. Il sassofonista può vantare almeno un centinaio di incisioni e collaborazioni con il gotha del jazz mondiale da Joe Lovano a Loius Sclavis giusto per fare due nomi tra decine e decine di star. E poi, premi e riconoscimenti a non finire.

Suo amico e sodale di mille avventure, Marchioni ha una consolidata, multiforme carriera musicale a Parigi dove risiede incrociando spesso la strada di Bearzatti anche lui transalpino. Paolo Mappa è un professionista della batteria specializzato in percussione flamenca con un curriculum lunghissimo che testimonia decenni di studi, sacrifici, d’impegno e grandi soddisfazioni.

I quattro Licaones, insieme, presentano, con umorismo e straordinaria perizia, una musica balneare e marittima, intelligente egodibile, costruita su ritmi caraibici e carioca, ma anche swing, soul, funky, jazztutt’altro che banali.

I due comprimari ai fiati non si rubano mai la scena ma con un perfetto interplay sono la spalla l’uno dell’altro, ed è evidente il loro divertimento e di conseguenza quello del pubblico. A dare profondità ed eleganza al sound, certamente ha contribuito l’organo Hammod di Marchioni con la sua rotondità valvolare.

Il combo ha creato in partenza un’atmosfera molto sixties e disimpegnata che ricordava l’incanto e le suggestioni dell’epoca d’oro dell’organo Hammond nelle sudate e scatenate sessions di Ray Charles e delle sue vocalists. Ad un altro livello sono ritornate alla memoria le cose migliori del James Taylor Quartet o di Incognito.

Efficace, essenziale e incisivo il drumming di Mappa che senza essere scarno garantisce un’ ossatura ritmica adatta senza indulgere e insistere in eccessi virtuosistici fuori luogo e inadatti. Molto divertenti i duetti con l’organo che spingono l’esecuzione ben oltre i territori dell’Acid Jazz. Una batteria onesta e con la schiena dritta senza diavolerie elettroniche ma piena di vitalità.

Sono stati sciorinati una serie di brani alcuni orientati tra flamenco e Rita Pavone com’è stato detto, che hanno ribadito l’assoluta fluidità del sax di Bearzatti e degli altri.

La band dice scherzosamente di accettare proposte per celebrare matrimoni e accompagnare funerali, questi ultimi pagati però anticipatamente e continua a suon di battute ad interagire con il pubblico sempre più divertito e coinvolto in una torcida inarrestabile.

Esilarante il brano che verteva sulla storia assurda e surreale di due jazzisti spiantati che s’incontrano a Ginevra e del taxi che devono prendere. Il brano aveva lo scopo soltanto di far cantare e motivare gli spettatori che non se lo sono fatto dire due volte.

Disincantati, leggeri e rilassati il quartetto non ha lesinato una musica allegra che mette in marcia e trasmette scariche di energia da far correre con le ginocchia alzate per chilometri come in un film di Jacques Tati.

Tra i tanti momenti divertenti, si fa ricordare, quello in cui nel mezzo di un furibondo e scatenato groovin di tutti contro tutti, Ottolini ha tolto il bocchino al suo strumento e soffiando nel canneggio ha riprodotto lo screcciare di un DJ.

Musicisti straordinari tutti e quattro che sanno cacciare (Chasin’) in gruppo o da soli in modo famelico anche senza prendersi troppo sul serio. Come si direbbe in altro contesto: Cookin’, Workin’, Steamin’, Relaxin’wiyh the Licaones quartet.

Ore 21,30: Gonzalo Rubalcaba Trio

Preceduto dal clamore della sua fama universale e presentato da Max De Tomassi di Raistereonotte ha fatto poi la sua comparsa sulle assi di Grado, uno tra i pianisti più innovativi della storia del jazz contemporaneo. Tremano le vene e i polsi a cercare di descriverne la grandezza.

Gonzalo Rubalcaba, nato a L’Avana nel 1963, sembra essere un predestinato alla carriera di musicista e innovatore del Jazz. Proviene da una famiglia di musicisti ed ha avuto una solida educazione musicale classica nelle rigide istituzioni dei conservatori cubani, tra i migliori al mondo.

Nel suo sangue di afrocubano scorre l’energia di quella musica che è sinonimo di libertà, dall’ammaliante animo femminile e misterioso sintetizzato in quella splendida opera di Duke Ellington: Drum is a Woman (1956).

Un altro lavoro che ci può mettere sulla strada giusta per cominciare a capire l’immensa creatività di Rubalcaba e i punti cardinali della sua ispirazione è: Afro cuban Jazz Moods del meraviglioso trombettista Dizzy Gillespie. Uscito nel 1975 testimonia la grande attività quasi da etno musicologo che guidò il trombettista del BeBop, antesignano di quella Cuban connection che lega indissolubilmente la tradizione cubana ai fasti del jazz contemporaneo.

Esattamente dieci anni dopoquel disco seminale, Gillespie incontrava a Cuba il giovane straordinario talento di Rubalcaba e ne faceva un suo protetto diventandone Maestro e mentore. Da allora tutto il resto è una storia di genio

La cultura africana passa attraverso le percussioni dal Golfo di Guinea fino a quello del Messico seguendo le ben note correnti atlantiche che nel corso della storia hanno visto milioni di persone migrare forzatamente. Quel mondo di tragedia e di grandissima tradizione si intravvede nella tastiera del pianoforte di Rubalcaba nel suo stile percussivo, vivace e allo stesso tempo armonico che trasforma ritmo e melodia in un modo assolutamente non convenzionale. Per lui come ha dichiarato: l’essenza del Jazz è nella variazione, nell’agonia giornaliera del jazzman che si arrovella per trovare la propria “voce” nel mare della tradizione.

La musica di Rubalcaba porta con se tutto quel patrimonio che coniuga la musica classica di matrice occidentale e quella degli afrodiscendenti in ogni sua sfumatura ma guarda al futuro riplasmando e contaminando con uno stile di una bellezza pulita, cristallina che è aurorale e precisa senza essere spocchiosa e accademica. Pur suonando a velocità inaudita il suo tocco è sempre preciso e incisivo senza alcuna sbavatura.

Nel trio anche il basso elettrico a sei corde di Armando Gola che con la sua ingombrante ridondante presenza contrasta nettamente con la resa sostanzialmente acustica dei restanti due terzi della band ed è per gran parte del pubblico una sensazione di grande piacevolezza e di straniamento.

In questo modo l’esplorazione compiuta dal festival di Euritmica della musica del continente latino americano fa tappa a Cuba e in un attimo la perla della laguna si trasforma in un’insenatura caraibica.

Molto bello ed evocativo l’uso della campana da parte del batterista, sobrio ed elegante, il cui suono sguaiato e quasi fuori tonalità crea un piacevole e costruttivo disequilibrio. E’ proprio sulla contrapposizione e sui contrasti che lavora il trio; il chiaroscuro evidenzia le tante tradizioni culturali e i riferimenti che sono la trama di un tessuto musicale preziosissimo che come dice Dante Alighieri: Dipinti avea di nodi e di rotelle/ con più color , sommesse e sovraposte/ non fer mai drappi Tartari né Turchi/nè fuor tai tele per aragne. (Inf. XVII,15-18)

Il leader è decisamente il pianista che sovrasta di gran lunga gli altri due senza mai però soffocarli anche se il suo estremo virtuosismo sembra appartenere ad un altro pianeta, basso e batteria continuano il loro lavoro seri e composti ma mai troppo distanti o pedanti.

Il pianista chiacchierando con il pubblico ha raccontato che Giancarlo Vellisig, deus ex machina del festival nel backstage gli aveva appena ricordato che quindici anni fa era stato ospite della stessa organizzazione a Trieste in uno splendido concerto al Teatro Miela.

Questo aneddoto gli ha fornito l’abbrivio per ripensare sulla tastiera, durante l’esibizione, il percorso della sua musica durante gli ultimi tre lustri. Naturalmente, è stata un’impresa improbabile ma il tentativo non è andato certamente a vuoto deliziando fin quasi allo sfinimento dell’estasi e del’annichilimento tutti i presenti.

In spagnolo suonare si dice Tocar e mai termine fu più adatto ed evocativo della sua arte pianistica che tocca le corde del cuore del suo pubblico con sentimento ma senza sentimentalismi inutili.

Rubalcaba ridisegna le topografie del jazz senza stravolgerle da paziente cartografo riscoprendo i mille rivoli di quella tradizione culturale e musicale che unisce da secoli le due sponde dell’Atlantico

il set unico si è concluso alle 23,10 non prima di un generoso bis dalla colonna sonora di Buona Vista Social Club, la struggente Làgrimas Negras che già solo nel titolo dice tutto.

Raffinatissimo e Memorabile! 

© Flaviano Bosco per instArt

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