Scrive Carlo Goldoni nelle sue Memorie (1724): “Finalmente arrivammo a Udine, che è la capitale del Friuli veneziano. (…) La città è bellissima, le chiese assai riccamente decorate. Vi è il pubblico passaggio nel mezzo della città, gradevoli sobborghi e dintorni deliziosi”.
Sono passati giusto quasi trecento anni da queste prime impressioni del celebre drammaturgo veneziano che ebbe modo di conoscere molto bene la capitale della “Patria del Friuli”. Naturalmente molte cose sono cambiate e spesso in peggio, ma Piazza Libertà nel centro della città alla base della collina del castello è praticamente intatta proprio come la vide Goldoni anche se allora si chiamava ancora Piazza Contarena dal nome di un importante luogotenente veneziano.
In quella che è considerata: “La più bella piazza in stile veneziano sulla terraferma” oggi si tengono manifestazioni, eventi e concerti; è davvero il cuore pulsante della città. Udin&Jazz non poteva non approfittare di tanta bellezza e, infatti, durante il festival tutte le sere vi si è tenuto uno dei concerti in cartellone. Nelle righe che seguono diamo conto del primo e dell’ultimo, entrambi in modo diverso significativi, per gli altri ci sarà spazio nelle recensioni che seguiranno.

Jazz Big Band Graz & Guest- Armenian Spirit

Horst-Michael Schaffer (voce, tromba) Heinrich von Kalnein (sassofoni) Karen Asatrian (tastiere) Thomas Wilding (basso) Tom Stabler (batteria)
Special Guest; Arto Tunchoyacryan (percussioni, voce) Bella Ghazaryan (voce)
Silvia Colle, anfitrione del festival, ha amabilmente presentato il concerto, ribadendo un concetto che giustamente le è caro che è quello del fare musica con lo scopo di aggregare, condividere e fare comunità.
L’etimo stesso della parola “comunicazione”, che oggi è tornato prepotentemente d’attualità, ha la propria radice nel termine latino Communico = mettere in comune, far partecipe, composto da Cum = con e Munire = legare, costruire.
E’ vero che, purtroppo, la fruizione della musica è sempre più digitale e liquida, ma proprio per questo partecipare ad un concerto dal vivo è oggi ancora più importante e diventa simbolicamente un rito collettivo di origini remotissime e ancestrali in cui una collettività si riconosce fino a fondare la propria identità.

Nel caso specifico, il concerto “Armenian spirit” dall’associazione Armena Zizernac (Rondine) ha la “finalità di diffondere e rafforzare lo spirito di identità armena”.
La storia millenaria del popolo armeno è strettamente legata alla propria tradizione musicale “pitture rupestri del secondo e terzo millennio a.C. con scene di danze rituali, assieme al ritrovamento di antichi strumenti musicali – campane, battagli, corni – risalenti al secondo e primo millennio a.C. sono tra i documenti più antichi in possesso degli storici…dobbiamo comunque attendere il IV sec. d.C. perché sia possibile documentare con sistematicità espressioni musicali sia in ambito popolare sia liturgico”. (www.mondoarmenia.it)
In sintesi, la musica armena è tra le più antiche espressioni artistiche sonore documentabili e ancora oggi a cento anni dalle mostruose atrocità del genocidio e della conseguente diaspora, la musica rappresenta un legame fortissimo per le comunità armene sparse in tutto il mondo.
Detto questo, nel caso di specie del concerto della Jazz band di Gratz non vuol dire che “tutte le ciambelle riescano col buco” e che basti un riferimento, anche di buon livello, a quella tradizione per risolvere e giustificare un’esibizione che, in più di un momento, è apparsa opaca e sbrigativa.
Andiamo con ordine, il gruppo ha esordito con un brano molto evocativo per percussioni e pianoforte dal tono drammatico e nostalgico che si evolveva immediatamente in una danza dai toni orientali con i vocalizzi di Arto Tunchoyacryan, cui seguiva ancora un cambio di direzione voluto dal pianoforte che inseguiva il jazz più mainstream che si sia sentito.
E’ proprio questa la cifra dell’ensemble che ha suonato qualcosa che, spiace dirlo, ormai non viene tenuta in considerazione nemmeno per sonorizzare le cabine degli ascensori e non sto parlando del capolavoro di Brian Eno.
La cantante Ghazaryan è più bella che brava, di nome e di fatto, e ha cantato alla luna una prima canzone in lingua armena con voce melliflua e dolorosa; il percussionista, che calzava “Na cuppulella cu ‘a visiera alzata”, non sembrava sforzarsi moltissimo e appariva inquieto, forse per la location o per qualche non definibile problema d’amplificazione che l’impagabile fonico del festival Mimmo Dragotti a cercato di risolvere in ogni modo.
Durante l’esibizione, Tunchoyacryan si è spesso limitato ad un’essenziale ritmica d’accompagnamento che comunque in piazza, alla luce dei lampioni, nella semioscurità della calda sera d’estate è sembrata ai più piacevole e adatta.
Con il secondo brano della cantante si è ripetuto il melodramma questa volta con ritmi ben più sostenuti, per fortuna, durato giusto il tempo di dimenticarsene. In seguito, senza la voce femminile, la Jazz Band ha proseguito con brani dal sapore atmosferico e rarefatto che tendevano a crescere ritmicamente, mentre Tunchoyacryan continuava a vocalizzare, questa volta ironizzando sui tanti “mosquitos” attratti dalle luci di scena.
Lo stile complessivamente oscillava pericolosamente verso un etno folk roccheggiante e jazzato non del tutto spiacevole, ma con soluzioni e suoni ormai davvero anacronistici come il delay applicato alla tromba di Schaffer che negli anni ’80 sembrava già da balera.
Anche con l’aggiunta del sax tenore di von Kalnein la situazione è migliorata di poco. Il percussionista ha continuato con le sue litanie che avevano il “fascino e sintomatico mistero” di un arcaico oscuro rituale che richiamava anime inquiete di un tenebroso aldilà.
L’arrangiamento della band trasformava gradualmente la “necromanzia” in una composizione piuttosto brillante che quarant’anni fa si sarebbe potuta forse chiamare Fusion ma che oggi, sotto le stelle del nuovo millennio, è diventata solo musica gradevole per una piacevole serata estiva all’aperto, niente più.
Arrivati in fondo annunciavano, per tempo, di apprestarsi a suonare gli ultimi due brani, perché, come ha detto dal palco il solito von Kalnein “tutto deve avere una fine”.
“My Little darling” è iniziata con il dolce suono di un flauto tradizionale e le solite atmosfere vellutate e translucide. Musicalmente, sembrava di essere sempre sull’orlo di una tragedia tanto che il brano suonava allo stesso tempo come una ninna nanna e una marcia di un funerale di quelli tristi, tristi.
“Fifteen feet away” ha visto in primo piano un lungo, tirato assolo del sax tenore con le percussioni finalmente indiavolate di Tunchoyacryan ma anche questo pezzo non era così fresco come sembrava, anche se, grazie al ritmo incalzante, estroso e orientale si lasciava ascoltare.
Nel bis squillava la tromba effettata e la voce del percussionista impegnato in una sorta di virtuosismo canoro tipo scat, in cui sembrava l’ambulante del banco del pesce di un mercato rionale, il brano infatti ricordava vagamente “Black Market” dei Weather Report, molto vagamente.
Saluti, baci e applausi del generoso pubblico e poi Good Night e mille grazie a tutti.

Zerorchestra “The Freshman”
Mirko Cisilino (tromba, trombone) Francesco Bearzatti (sax tenore) Luca Colussi (batteria) Juri Dal Dan (piano) Luca Grizzo (percussioni) Didier Ortolan (clarinetto) Gaspare Pasini (sax alto) Romano Todesco (contrabbasso) Luigi Vitale (vibrafono)
Tra gli eventi più prestigiosi e divertenti dell’intero festival che ha ospitato stelle assolute del firmamento della musica, vi è stata di certo la proiezione sonorizzata del classico del cinema muto “The Freshman” (1925) diretto da Sam Taylor e Fred C. Newmeyer con un fantastico Harold Lloyd.
La colonna sonora è stata composta per l’occasione da Mirko Cisilino, uno dei musicisti emergenti più promettenti del nostro paese e suonata dal vivo dalla Zerorchestra.
La partecipazione della Zerorchestra a Udin&Jazz non è certo una novità, la prima volta fu addirittura nel 1995 quando il cinema muto con o senza musica dal vivo, non andava per nulla di moda come oggi ed era considerato al più una “perversione” da ipercinefili.
Udin&Jazz è stato pioniere anche in questo, in verità “sfruttando” la precedente esperienza delle meravigliose Giornate del Cinema Muto di Pordenone, avanguardia della riscoperta dei Silent movies a livello mondiale.
Non a caso a introdurre la serata è stato un breve, illuminante incontro con Piero Colussi, membro fondatore di Cinemazero e delle Giornate del cinema muto di Pordenone, tra i massimi esperti della Silent age.

E’ proprio di là viene la Zerorchestra che oggi annovera i migliori musicisti italiani, non solo in questo particolare ambito cinematografico. Ognuno di loro vanta collaborazioni e una miriade di altri progetti musicali che di fatto trasformano l’orchestra in un ensemble All stars; non è per nulla piaggeria o campanilismo sostenerlo. Basta dare una scorsa ai curricula di ognuno di loro per restare davvero sbalorditi. E’ inutile fare nomi nello specifico, si finirebbe per fare torto all’enorme talento di qualcuno di loro, basti dire che insieme brillano divertendo e conquistando immancabilmente il pubblico.
Ascoltarli in uno dei tanti film che hanno sonorizzato in questi quasi trent’anni di inesausta attività è un vero piacere e un grande privilegio.
Non stupisce che per la proiezione quell’ultima sera piazza Libertà di Udine fosse gremita di pubblico che si è fatto via via ancora più fitto perché le persone che passavano nei dintorni venivano magneticamente attratte dallo spettacolo; perfino i ragazzi, con il gelato in mano e mille altri pensieri per la testa e negli smartphone, restavano basiti dal manifestarsi di tanta straniante bellezza forse inizialmente incomprensibile e aliena per la loro esperienza video ludica, ma in realtà irresistibile, anche grazie alla splendida musica della Zerorchestra.
Il trombettista Cisilino ha fatto un lavoro di composizione molto sobrio e misurato com’è nella tradizione dell’ensemble di Pordenone per il quale la musica deve sempre essere al servizio delle immagini, sia come forma di rispetto per gli assoluti capolavori sui quali si lavora, sia perché le immagini in movimento e le note devono risultare fuse in un’unica opera multisensoriale, senza che nessuno dei due linguaggi si sovrapponga all’altro.
Molti sono stati i riferimenti del compositore-musicista alla musica concreta e alla rumoristica al completo servizio della dinamica delle immagini, ma anche alla swing-era e ai pionieri del jazz che furoreggiavano proprio mentre la pellicola veniva girata. Lo confermano alcune scene del film che vedono una “vera” orchestrina jazz suonare durante un gran ballo di fine corso all’università, mentre gli studenti danzano, gozzovigliano e se la godono. Si ricordi che i celeberrimi “Tales of the Jazz Age” di Francis Scott Fitzgerald erano stati pubblicati solo da qualche anno (1922).
Spesso guardando il film e al contempo ascoltandolo ci si dimenticava della loro presenza tanto è raffinata la loro arte di “scomparire in presenza”. Sembra essere questo il migliore complimento possibile per i loro sforzi che immancabilmente creano una sorta di mimetismo sonoro. Memorabile, in questa occasione, la sequenza nella quale il protagonista è alle prese con mamma gatta e il suo gattino che l’orchestra ha saputo rendere ancora più tenera e dolce con “miagolii” creati ad arte.
E’ il caso di spendere due parole anche sul film che nasconde alcune preziose suggestioni che ci raccontano molto sull’immaginario degli Stati uniti d’America tra le due Guerre Mondiali, prima che si manifestassero in quella società i terribili effetti della Grande Depressione del 1929.
Anche se le prime avvisaglie dell’imminente crisi cominciavano già a manifestarsi era ancora perfettamente possibile e plausibile per una famiglia della piccola borghesia americana sognare di mandare un figlio all’università semplicemente facendo qualche piccolo sacrificio per mettere da parte il necessario. Nelle prime sequenze si vedono i genitori dell’aspirante matricola (Freshman) nel salotto di casa che ne discutono amabilmente mentre al piano di sopra, nella sua cameretta, il figlio s’immagina i piaceri mondani del Campus. Arrivata all’università la matricola, invece, sarà bullizzata in ogni modo dai compagni più navigati, ma tra mille gag e capitomboli saprà infine farsi valere.
Alcuni particolari, sottolineano le novità anche tecnologiche del periodo. Primo fra tutti il fatto che il padre del protagonista è un radioamatore anche se un cartello dice il “peggiore della contea”; è, infatti, in bella evidenza sul tavolo del salotto accanto a lui, un’antenna e la strumentazione del caso che, per altro, sono al centro di una divertente gag. Solo pochi anni prima nel 1920 era cominciata a Detroit (Michigan) la prima trasmissione radio commerciale regolare. All’epoca di “The Freshman”, in sintesi, la radio era tra i più desiderati e preziosi “elettrodomestici”, tutti la volevano. L’altra ambitissima novità di consumo, cui si fa riferimento nel film in una breve battuta, è la lavatrice elettrica (Washing machine) che proprio in quegli anni cominciava a diventare popolare.
Ancora un altro particolare che dice della relativa agiatezza della casa del protagonista, a cui non diamo alcun peso perché per noi è scontato, è che nella casa funziona l’illuminazione elettrica. Negli stessi anni l’elettrificazione nelle città europee era ben lontana dall’essere generalizzata e in Unione Sovietica, Dziga Vertov documentava la costruzione delle prime centrali a energia idroelettrica.
Ancora un’altra suggestione meta-cinematografica è quella che vede il protagonista ispirarsi ad un film sulla vita universitaria che in realtà non è mai esistito. Nella cameretta della futura matricola, infatti, è appeso un grande poster della pellicola con Lester Laurel “The College Hero” che, in definitiva, è una trovata meta-cinematografica che fa riflettere ironizzando semplicemente sul potere della VII arte.
Infatti, il significato delle gag conseguenti sembra voler sottolineare la capacità comunicativa e di persuasione del cinema che, in quegli anni, poco prima dell’invenzione del sonoro, era già massima. Secondo i soliti soloni, i giovani ne erano le prime vittime e la morale del film non è troppo distante dalla giaculatorie moderne sui giovani e i social.
Niente di nuovo, insomma, sul “fronte occidentale”.
Come chiosa finale è d’obbligo ricordare un pensiero espresso dal compositore nel presentare la sua pregevole sonorizzazione. Cisilino ha detto che il personaggio interpretato da Harold Lloyd nel film non lo fa per niente ridere, anzi lo intristisce perché, infondo, vittima dei soprusi dei suoi crudeli compagni. E’ per questo che la sua musica per il film ha delle screziature blu…”Almost Blue” come cantava un altro grandissimo trombettista.

© Flaviano Bosco – instArt 2023

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