E’ iniziata con un indiavolato concerto di Steve Vai al Castello di Udine la lunga estate calda di Azalea Promotion che ha un cartellone di eventi più ricco che mai con proposte musicali di altissimo livello e di caratura internazionale.

Ce n’è davvero per tutti i gusti: dal metal forse un po’ cervellotico di Vai, all’estro creativo di Ben Harper, fino all’impeccabile maestria di Steve Hachett tanto per restare ai chitarristi; in cartellone ci sono anche tutta una teoria di rapper buoni per i giovinastri e le ragazzine che sono ritornati ad affollare i concerti dal vivo. Naturalmente ci sono anche i mostri sacri della musica italiana Venditti & De Gregori, Litfiba, Zucchero, Alice, le nuove regine Carmen Consoli, Elisa e tanto altro ancora in un’abbuffata di musica che non ha precedenti.

Il Guitar Hero Steve Vai, per quanto discusso e discutibile, resta a buon diritto uno dei colossi della musica mondiale. Il clown del giornalismo metal italiano Richard Benson, da poco scomparso, qualche anno fa, ne fece una clamorosa e, in fondo, patetica stroncatura, così come tanti altri che nel corso del tempo si sono accaniti contro il suo modo estroso e spesso apparentemente incoerente di proporre la sua arte.

Quello che dell’arte di Vai è spesso sfuggito ai più superficiali tra i detrattori è la sua estrema versatilità e autoironia che risulta del tutto evidente durante le esibizioni live. E’ del tutto sbagliato definirlo solamente un cavaliere del virtuosismo hard rock-metal classico, la sua gamma espressiva è molto più vasta e articolata: dalla musica d’opera e cameristica, al blues, funky, soul, country ecc. tutto rifatto e contaminato a modo suo, naturalmente.

Questo risulta sconcertante per chi non sa andare al di là della staticità dei generi e delle convenzioni. Vai, invece, non ha mai dimenticato la lezione di quello che fu il suo vero maestro, Frank Zappa con cui condivideva tra l’altro le origini italiane. Certo Vai è di un’altra pasta e la sua musica non ha quel tipo di inarrivabile estrosa creatività e anche le intenzioni sono del tutto diverse, ma il metodo è il medesimo.

Zappa lo ingaggiò per trascrivere e adattare per chitarra elettrica i brani più astrusi e complessi, dalla classica al jazz adattandoli alle orchestrazioni del suo ensemble e già questo basterebbe a far capire la caratura delle sue capacità fin da ragazzo. Sempre con Zappa diventò poi “Stunt guitarist”, il chitarrista pazzo che durante le esibizioni interveniva con i suoi assolo destabilizzanti, esagerati, “deraglianti”. Proprio su questa apparente follia Vai ha costruito la propria carriera che certo non è priva di eccessi e di passi falsi come ogni altra ma nella quale la luminosità del suo ingegno senza dubbio sovrasta e dilegua qualche piccola ombra che non fa altro che renderlo più umano. Dopo letteralmente quarant’anni suonati di palcoscenico, Vai ha confermato anche nel concerto di Udine di essere un vero istrione ed un artista generosissimo e dalle straordinarie doti interpretative.

Dopo queste necessarie precisazioni introduttive è il caso di scendere un po’ di più nei particolari.

Un breve temporale pomeridiano sembrava minacciare la buona riuscita dell’esibizione, ma era solo una cosa di poco conto. Andatesene la nuvolaglia dispettosa sono cominciati davvero i lampi e i tuoni a cielo terso.

Come band d’apertura per tutto il suo tour italiano, lo stesso Steve Vai ha scelto tra molti il chitarrista l’udinese Gianni Rojatti, che già gli fece da spalla nel 2016, in un inedito ensemble con l’interessante duo Dang!: Marco Scipione (sax tenore) Daniel Fasan (batteria).

Il sound del nuovo trio è carico e potente a tratti ricorda i Morphine di Mark Sandman anche se gli accenti sono spesso più dolci con decise virate verso la New Wave.

Nel breve set si alternano brani di loro composizione, (Visione, Respira ecc.) che scontano un suono forse un po’ datato ma non anacronistico anzi molto piacevole e divertente. Risultano decisamente più incisivi quando pestano duro anche sui volumi con il sax distorto da un gran lavoro di pedaliera, e anche aggressivi e veloci con un drumming davvero adeguato e sostenuto.

A volte rivelano toni epici e di largo orizzonte, dall’incedere anche troppo sognante e onirico, roba da tramonto degli anni ‘80 di diversi decenni fuori tempo massimo ma, tutto sommato, non spiacevole.

I concerti al castello di Udine sono sempre una grande meraviglia. Sotto il bandierone con gli antichi colori della città il paesaggio è davvero affascinante. La città, le montagne all’orizzonte, il Friuli sembra tutto un giardino tra i monti e la laguna e a pensarci bene lo è davvero.

Fa un certo effetto anche sapere di trovarsi sulla cima del più grande tumolo artificiale protostorico d’Europa come hanno dimostrato i recenti scavi archeologici che comunque non hanno fermato la malsana idea dell’attuale amministrazione comunale di costruirci in mezzo un bell’ascensore, trivellando quello che i nostri antenati di migliaia di anni fa hanno accumulato con mostruosa fatica e ingegno.

A pensarci un’altra volta, nel giardino-Friuli non tutto funziona a puntino ed è così meraviglioso come sembra solo visto dall’alto, parafrasando Basaglia: “Guardato da vicino nessuno è normale”.

Preciso come un cronometro Steve Vai alle 21.30 comincia a far sentire le rasoiate della sua chitarra da dietro le quinte, immediatamente la band sale sul palco e si parte pesantissimi e veloci. Vai imbraccia una delle sue stravaganti chitarre con led azzurrini ai tasti impegnandosi sostanzialmente in un interminabile assolo continuo di 120 minuti, mentre Jeremy Colson il batterista tatuatissimo e con la cresta punk, a doppio pedale picchia il suo blast che è un piacere devastante, efficacissimo anche il basso a sei corde di Philip Bynoe dall’anima funky ma dal tocco hardcore. Valido anche il supporto del chitarrista ritmico Dave Weiner, e alle tastiere quasi un doppio in sedicesimi del band leader.

Già dai primi pezzi in scaletta (Avalancha, Giant Balls of Gold, Little Pretty) si comprende immediatamente che la tecnica di Vai è stratosferica, inaudita, pervasiva e perfino eccessiva tanto che a qualcuno potranno sembrare semplicemente esercizi muscolari esibizionistici ma, in fondo, che cos’è il rock’n’roll nella sua essenza, se non sublimazione di pulsioni elementari, è un gioco di Narciso, e poi qualche volta ci sta anche un bel “echissenefrega”, ogni tanto bisogna anche dirselo.

La musica di Vai non avrà forse niente di così innovativo ma è suonata splendidamente, energica e divertita e poi, in fondo, è meno convenzionale di quello che sembra; i suoi accordi velocissimi e spericolati sono talmente complessi, vertiginosi e ripetuti, da non poter più essere intesi come eccentrica bizzarria ma come tessuto musicale vero e proprio, come linguaggio esso stesso. Va ascoltato quindi con la dovuta attenzione e non solo come parentesi virtuosistica di un brano, così come si fa per il dilatato “ricercare” della musica Progressiva.

Vai cambia chitarra ad ogni brano e sono modelli esclusivi spesso molto bizzarri; il chitarrista è da lunghi anni supportato dalla Ibanez per la quale sperimenta e progetta gli strumenti più innovativi. Il concerto alterna brani in cui Vai a volte si concede qualche momento d’atmosfera che prelude però sempre a qualche “sterzatina” energica e ferrosa.

Dice al pubblico che erano sei anni che non faceva tour e si vede che aveva una gran fame di palcoscenico, e aggiunge intercalando un’imprecazione tipicamente italiana: “Porca Miseria! In questi anni sono successe un sacco di cose nel mondo, dalle guerre all’epidemia, e poi ho anche compiuto 62 anni!”; li porta benissimo ed è in piena forma con un’inarrestabile, gioiosa voglia di suonare e di divertire il pubblico.

Continuando in un dialogo molto cordiale e sentito con il suo pubblico, e dopo aver parlato del paesaggio che ha davanti passa a “Tender Surrender”, un brano che sembra una cover di Santana, romantico con qualche rinforzino acido che piace sempre, tira sdolcinato sulle note che più zuccheroso non potrebbe essere, azionando ripetutamente la leva del “tremulo”, deliziosa sua specialità. Che Vai sappia essere dolce non è solo un modo di dire, nel suo tempo libero alleva api e produce un preziosissimo miele che vende a scopi di beneficenza o regala agli amici intimi. Il “Fire Garden Honey”, in esclusive rare edizioni numerate e autografate, ha quotazioni superiori ai 2000 dollari al chilo.

Il suo è un gioco chitarristico, un esercizio di stile che diventa a volte ironico e sicuramente destruttura la forma della classica ballad romantica latineggiante.

Dopo l’ultimo dilatatissimo assolo si riprende spingendo sull’acceleratore con le immagini sullo schermo che simulano il salto nell’iperspazio come nella saga di Star Wars. Effettivamente il chitarrista si diverte con la velocità e con la luce dei suoni rallentando e ripartendo a piacere con i suoi continui riff e per farlo può contare su una band all’altezza dei suoi capricci gentili.

Spesso s’impegna in “guitar duels” con il suo chitarrista ritmico che dimostra di non essergli per nulla inferiore.

Il bassista slappa da gran virtuoso e dimostra anche di saper tenere il palco anche tutto da solo in un assolo molto divertente e vitaminico.

L’essenza della musica di Vai è sempre il buon vecchio blues e la si sente bene in alcuni passaggi e di certo non guasta; certo nella sua interpretazione è sempre fiammeggiante, ipercalorico ma in definitiva è sempre povero e sudato proprio così come dev’essere.

Vai sa essere sofisticato oltre che ipertecnico ed ha un gran gusto per l’eccesso che forse è un riflesso delle sue origini italo-americane.

Viene il momento anche per un assolo stellare del chitarrista ritmico potente e tiratissimo con tocchi Southern e perfino Western.

Per sapere che cos’è il tapping, si prega di citofonare a Steve Vai”, in certi momenti è davvero impressionante anche se, in realtà, non dice niente ed è un po’ fine a se stesso, tanto basta per colpire alle viscere gli appassionati e anche tutti gli altri che magari non capiscono molto di tecnica e di stile ma che comprendono benissimo che quelle di Vai sono energiche, telluriche e scatenate. Tutto traspare benissimo nei solchi del nuovo album Inviolate di ispirazione mitologica che il tour che ha toccato Udine, promuove.

Sullo schermo fa un certo effetto vedere ad un certo punto le famose immagini tratte dal film Crossroads di Walter Hill (1986) nel quale Vai recitava la parte di un chitarrista pazzo e arrogante che veniva battuto in un duello di chitarre dal Karate Kid Ralph Macchio. Naturalmente tutto fasullo, nella realtà tutte le parti di chitarra della sequenza sono suonate dallo stesso Vai che adattò per l’evento una composizione di Paganini (Capriccio n°5, Op.1) e dalla magia della sei corde di Ray Cooder.

Vai sa bene essere massiccio e sferzante ma non è per niente selvaggio, nella sua musica tutto è sempre molto calcolato anche la più brutale bastonata ritmica.

Sullo schermo l’animazione del concepimento in utero e poi di un feto che si sviluppa nel corso dei nove mesi fino a sbucar fuori con la testa dalla porta della percezione, con molta ironia al viso del neonato ancora in transito si sovrappone la foto di un adolescente degli anni ‘70. “That’s me!” dice Vai tra le risate divertite del pubblico. E’ lo stravagante preludio alla classica, dolcissima “Whispering a Prayer” che sembra una canzone religiosa dedicata alla maternità e al meraviglioso mistero della vita che ogni donna conserva; il tutto appena un po’ sdolcinato ma non guasta.

Tra i momenti più memorabili e stravaganti del concerto, di certo la breve esibizione dell’assistente ai monitor di Vai che trasforma in un’aria d’opera l’introduzione di “For the Love of Gold” biascicando qualcosa in uno stentato italiano (perlamordiddio) e l’attimo nel quale, durante il sontuoso bis finale (Fire Garden suite IV-Taurus Bulba), la pedaliera del chitarrista si è completamente spenta lasciando muta la sua chitarra.

Vai allora ha avuto la prontezza di spirito di continuare lo spettacolo canticchiando con il pubblico, improvvisando una straordinaria gag da vero istrione la cui essenza erano tutti gli improperi in italiano che aveva sentito da suo padre, un assolo di Vaffa, A mammete, Porca Miseria! “E poi sapete cosa mi diceva spesso mio padre? I Love you Stevie!” Tra gli applausi e le risate, il miracolo si compie e subito dopo, l’impianto ricomincia a funzionare. Vai conclude in un trionfo di pubblico e di ovazioni.

Udine Loves you Stevie!”

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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