Misterioso 4et.

Francesca Bertazzo Hart: voce e chitarra. Simone Serafini: contrabbasso. Luigi Vitale: vibrafono. Andrea Michelutti: batteria.

A pochi passi dall’incantevole piazza di Clauiano (UD) un breve tratto di strada bianca conduce, tra fossi e geometrici campi di mais, alla chiesetta campestre di San Marco. A farle da corolla, in un piccolo sagrato d’erba, un tempio vegetale di robinie pseudoacacie che, con il loro alto fusto e le loro chiome, la proteggono e l’abbracciano come un naturale colonnato.

Edificata con ciottoli di fiume XIV sec. sulla strada che da Aquileia conduceva al Norico e alla Pannonia sfruttando, molto probabilmente, l’antico sito di un tempio pagano che possiamo immaginare a Ecate la dea della magia, dei trivi e della notte. A protezione delle strade, degli incroci e dei passaggi, i suoi luoghi di culto si trovavano lungo le vie di maggiore percorrenza ben visibili ai viandanti. Il corteo che l’accompagnava nelle processioni era composto da spettri e cani ululanti.

Il piccolo edificio di culto riconsacrato fu dedicato all’evangelista Marco cui la chiesa aquileiese e tutto l’antico Patriarcato sono devote filiazioni. In anni molto più recenti, a poca distanza dalla chiesetta, passava il confine tra l’impero austroungarico e il Regno d’Italia cancellato definitivamente solo nel 1918 dopo la barbarie fratricida del primo conflitto mondiale.

A vedere le persone che percorrevano lietamente a piedi il sentiero tra i campi per recarsi alla chiesetta dove si sarebbe svolto il concerto, fantasticando un po’, si potevano immaginare quegli antichi pellegrini e viandanti che per millenni hanno attraversato, pieni di speranza e futuro, quei medesimi spazi.

Tutto questo per dire che l’atmosfera che si respirava era di uno stupore e di una meraviglia naturale quasi metafisica. Sul prato addossati alla parete di sassi della chiesa erano collocati gli strumenti e l’impianto audio davanti ad una platea di sedie disposte sul prato. Il colpo d’occhio era straniante di per se anche prima che il pubblico prendesse posto e i musicisti creassero la loro alchimia di suoni. Magia pura in attesa d’incantesimo.

Thelonious Sphere Monk non ebbe mai vita facile, pur essendo uno dei geni assoluti del Be Bop, per molti anni se la passò davvero male soprattutto per l’autentica persecuzione a sfondo razziale cui fu sottoposto. Molto presto, per motivi pretestuosi, gli fu ritirata la Cabaret Card che gli permetteva di suonare nei locali di New York. Visse a lungo in una camera ammobiliata con il solo spazio per un letto e per uno sgangherato pianoforte verticale; quando trovò moglie la sua situazione economica si fece ancora più critica. Ad aiutarlo fu soprattutto la Baronessa Pannonica de Koenigswarter, Nica per gli amici, una mecenate del ramo inglese della potente famiglia Rothschild, senza la passione e le finanze della quale la musica Be Bop probabilmente nemmeno esisterebbe. Il padre appassionato d’entomologia le diede il nome di una particolare falena notturna l’Eublemma pannonica.

Cosa mai potrà centrare tutto questo con la chiesetta di San Marco in mezzo ai campi di grano? E’ presto detto, il progetto musicale del Misterioso 4et di Francesca Bertazzo Hart & Simone Serafini che si è esibito nei suoi pressi, riguarda proprio la musica del genio newyorkese del pianoforte bop. Non è poi nemmeno escluso che un esemplare di quella falena tanto cara al jazz non sia stato attratto dai suoni e dalle luci del concerto che iniziato nel tardo pomeriggio è finito ben oltre il crepuscolo con le tenebre già calate. Se non ci fossero stati i fari dell’efficientissimo servizio della protezione civile predisposto dal comune, il buio più spesso e nero avrebbe avvolto gli spettatori incamminatisi per il ritorno dopo tanta meraviglia.

E’ proprio venuto il momento di dirlo e di sottolinearlo a dovere: si è trattato di un’esibizione assolutamente straordinaria sia per le suggestioni del luogo di cui abbiamo tanto parlato, sia per la qualità assoluta del programma proposto da un ensemble di musicisti davvero preziosi. A cominciare dalla splendida Francesca Bertazzo Hart che ha sfoggiato una voce cristallina e ammaliante da autentica blues singer e bebopper, una vera sacerdotessa dello scat con per giunta eccellenti doti chitarristiche.

Rocklixx

Tutto è iniziato come in un sogno, l’attacco di “Monk’s Dream” ha proiettato tutti immediatamente in un’altra dimensione. Le note argentine del vibrafono di Luigi Vitale e gli arpeggi della semi-acustica della cantante sostituivano l’incedere dissonante, disarmonico e siderale del pianoforte di Monk, mentre la ritmica precisa e quadrata di Serafini dava una direzione al suono che Michelutti pensava a sostenere con le sue bacchette e il suo rullante.

Bertazzo Hart ha scaldato il cuore di tutti i presenti con una versione del brano con le liriche scritte da Jon Hendricks e portate alla gloria dall’interpretazione della meravigliosa Carmen McRae. In italiano: “Ho sognato di una vita che era pura e vera. Ho sognato l’unico lavoro che volevo fare. Una persona al mio fianco, eravamo un gruppo. Era un sogno. Era musica e io dovevo suonarla a modo mio”. Questo era davvero il sogno che Thelonious Monk inseguì per tutta la vita e a cui tenne fede caparbiamente. Suonò a modo suo e sacrificò perfino la propria sanità mentale a questo scopo. Dopo le sue composizioni la musica non è più stata la stessa dal jazz alla musica cosiddetta classica contemporanea (Ligeti e molti altri ne furono profondamente influenzati). Il suo sogno si è avverato e ha continuato a farlo anche durante l’esibizione del Misterioso 4et.

Rispetto alle versioni più note, quella della solita Carmen McRae ma ancor di più di Abbey Lincoln, la versione del successivo “Blue Monk” eseguita dal quartetto è stata molto più veloce e ritmata in un piacevolissimo bebop “rinforzato” dallo sfarfallio del vibrafono di Vitale che davvero, insieme al contrabbasso di Serafini, è stato in grado di esprimere il tipico timbro di un’epoca intera del jazz, quella a cavallo tra gli anni quaranta e il decennio successivo che non avrebbero quasi nemmeno senso senza i suoni di Milt Jackson e Charles Mingus.

E’ stata la volta poi di “Pannonica” il celeberrimo brano che Monk dedicò alla sua benefattrice di cui dicevamo ed è sembrato per un momento di essere proprio in uno dei fumosi club di Harlem-New York tipo il Minton’s Playhouse o il Monroe’s dove, quello che allora si chiamava ancora “modern Jazz”, nacque dalle rivoluzionarie jam sessions di Max Roach, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, naturalmente Monk e poi tanti altri. Tanto per capire che lo strumento di Vitale è perfettamente inserito in questo ensemble si noti che per incidere la sua prima versione del brano (dicembre 1956) Monk utilizzò una celesta che è un metallofono esattamente come il vibrafono e ne condivide l’intonazione.

Sentire quelle note risuonare nell’aperta campagna friulana sul far della sera aveva qualcosa di dirompente e straniante. “Colorful wings soft and gaily painted things, Pannonica my butterfly. Like the lovely flowers i’ll wait for hours just to feel that touch, the touch i love so much”. “Aspetterò per ore come fiori innamorati, Pannonica mia farfalla dalle ali colorate, per sentire il tuo tocco che amo così tanto”. Monk che aveva una personalità tormentata sapeva anche essere dolcissimo ma questi versi, in realtà, non sono suoi ma dell’ottimo cantante John Hendrix che si prodigò moltissimo sulla musica del pianista per cantarne le note, rendendole, se possibile, ancora più celebri anche verso il pubblico più largo.

In “Well You Needn’t” anche se non ce n’era bisogno, si capisce che se la forza del be bop risulta così intatta, nell’interpretazione di Serafini e soci, è soprattutto perché i quattro musicisti, da grandi professionisti quali sono, non la evocano in modo legnoso, stucchevole e accademico. Ed ecco allora che gli assoli che ogni strumento esegue, non diventano la solita successione paraliturgica di effetti per stupire, ma singole riflessioni verticali su un tema dato che regalano ad ogni musicista uno spazio calcolato di creatività e fantasia in piena sintonia con gli altri e con il pubblico, come sempre dovrebbe essere.

Molto singolari le parole che sono state aggiunte allo spartito di “In Walked Bud” dedicata da Monk a Bud Powell, fantastico e sfortunato pianista suo grande amico. Come dicevamo, il primo perse il permesso di suonare nella Grande Mela, il motivo fu di non scaricare sull’amico una risibile accusa di possesso di pochi grammi di erba. Qualche anno dopo nel 1945 fu Powell a difendere fisicamente Monk “beccandosi” una manganellata sulla testa che gli provocò irreversibili danni celebrali dai quali, pur continuando faticosamente a suonare, fu segnato per il resto della vita. Il brano che Monk gli dedicò e a cui Hendrix aggiunse il testo, ha qualche similitudine con Blue Skies di Irving Berlin, e racconta dei bei tempi delle Jam sessions nei locali e di quando puntualmente Powell faceva la sua regale entrata, considerato già allora dagli stessi musicisti uno dei più grandi pianisti d’ogni tempo. Le lamine metalliche che Vitale colpisce con le sue bacchette non fanno rimpiangere neppure per un attimo l’assenza di un pianoforte, regalando grande profondità e ricchezza al sound complessivo della band.

Allo stesso modo, la sezione ritmica di Michelutti e Serafini si guarda sempre bene dall’essere celebrale e meccanica così che i brani conservano tutto lo swing di una musica ballabile esattamente come voleva Monk che, a volte, ballava goffamente lui stesso durante l’esecuzione dei brani con la sua band girando attorno al piano o a se stesso nelle pause. Il Be Bop deve far muovere le gambe, far battere il tempo ai piedi e ondeggiare ritmicamente il capo, altrimenti il gioco non vale la candela. Come dice Paolo Conte: “Happy Feet (Musica per i vostri piedi, Madame)” e lui se ne intende.

Il rimpianto di non aver accettato una proposta è tutto nelle atmosfere di “Ask me Now”. Speriamo di non dover rimpiangere anche noi in futuro il fatto che l’ensemble non abbia ancora inciso niente del repertorio presentato a Clauiano; è un vero peccato perché la formazione è apparsa solida e ispirata. L’auspicio è che non si sia trattato solamente di una serata particolarmente indovinata ma della prima di una lunga serie di meritati successi.

Il bis è stata un’ottima versione del immortale “Straight, No Chaser” che prende il titolo da un modo di dire da bar che significa bere il whiskey liscio senz’acqua, anche per questo si tratta certamente di musica inebriante che fa girare la testa e battere forte, forte il cuore.

Non lontana dalla chiesetta del concerto, la vecchia dogana confinaria ora trasformata in accogliente luogo di ristoro perché “Non di solo pane vive l’uomo” ma, dopo la musica, anche di salame, formaggio, companatico e, naturalmente, merlot di quello buono.

Flaviano Bosco © instArt

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