Con grande, meritato successo si è svolta al Palamostre la seconda edizione di Udine &Jazz Winter, una rassegna nata come scommessa dell’associazione Euritmica, osteggiata da alcune istituzioni per motivi soprattutto ideologici e che “non ha nessun motivo di ringraziare il comune di Udine” come ha tenuto a sottolineare il “Komandante” Gian Carlo Velliscig.

Da alcuni anni, non solo nel capoluogo del Friuli ma in tutta la Regione, è in atto un vero e proprio boicottaggio/sabotaggio delle realtà culturali non allineate, con episodi di autentica epurazione. Emblematico il caso della benemerita e militante casa editrice Kappa Vu, estromessa dallo stand FVG del Salone del libro di Torino per puro capriccio dell’Assessore regionale alla cultura che non si è risparmiata dal dichiarare pubblicamente: “Si tratta di un editore negazionista delle foibe. La Regione non appoggia in nessun modo gli editori negazionisti delle foibe, c’è una mozione approvata dal Consiglio regionale, l’esclusione è dunque conseguente, non c’è nulla di nuovo, è una cosa risaputa”.

Sono considerazioni che si commentano da sole e a nulla sono valse proteste e interrogazioni al Consiglio regionale. Da notare che mai nessuno dei censori si è preoccupato di entrare nel merito storico critico della questione e quando si parla di libri sarebbe il caso di leggerli prima di dare fiato alle trombe. Di sicuro le documentatissime e scientificamente inoppugnabili ricerche storiche di Alessandra Kersevan sui misfatti al confine orientale d’Italia prima e dopo il Secondo conflitto mondiale sono scomode in modo trasversale e difficili da digerire sia a destra che a una certa sedicente sinistra come dovrebbe essere sempre la verità storica. Al lettore capire come la Kappa Vu si colleghi strettamente a Euritmica.

Certo è che Udin&Jazz e le altre manifestazioni collegate non hanno mai abbassato la testa continuando la loro operazione di divulgazione culturale attraverso la musica e lo spettacolo senza piegarsi ai diktat degli eterni ras e capopopolo. L’edizione invernale della rassegna lo dimostra continuando a proporre contenuti di altissimo livello, sia dal punto di vista strettamente musicale sia da quello più genericamente sociale e culturale e lo vedremo nelle varie recensioni che seguiranno.

Anche per questi motivi si può comprendere e perdonare l’apertura della rassegna con un film sul jazz davvero inguardabile e banale come quello sulle ultime ore di vita del trombettista Chet Baker realizzato dal regista olandese anche lui sedicente, Rolf van Eijk.

Jazz Noir”, infatti, ricostruisce a modo proprio e con molte licenze, gli ultimi giorni del musicista a partire dal tragico epilogo della sua disperata vita terrena. La vita di Chet viene messa in parallelo a quella dell’investigatore che indagò sul suo presunto suicidio. Entrambi vengono rappresentati nei loro più brutali istinti e soprattutto nel loro complicato violento rapporto con il genere femminile in un patetico “melodrammone” senza capo né coda che sfrutta biecamente il mito di Chet per tentar di dare sostanza ad una sceneggiatura superficiale e inesistente.

L’approfondita biografia di James Gavin, Chet Baker. La lunga notte di un mito (Baldini& Castoldi, 2002) ricostruisce nei dettagli quei fatti che il film stravolge e adatta. Intercaleremo la recensione con quella documentata ricostruzione.

A un certo punto di quel mite pomeriggio primaverile (Amsterdam 12/05/1988) era apparso nella hall dell’hotel Prins Hendrik. Una dipendente lo vide con in mano la sua custodia. “Ho pensato: – Mio Dio, quant’è vecchio quell’uomo! – Non sapevo che fosse Chet Baker”. Al portiere sembrò “un po’ nervoso” mentre si registrava. Baker si sistemò in una stanza pulita con pareti gialle, un letto a due piazze, un comodino e la televisione. Le due finestre, che partivano all’altezza del ginocchio, si affacciavano su un tortuoso reticolo di stradine che davano su alberghi e ristoranti. I tram sferragliavano e nell’aria si sentivano risuonare i campanelli delle biciclette. Baker chiuse la porta a chiave.”

My Foolish Hearth”, titolo internazionale del lungometraggio del regista olandese Rolf van Eijk ha i numeri per candidarsi in pole position come peggiore film sul jazz mai fatto dai tempi de Il cantante di Jazz di Al Johnson (1927). Non si era ancora mai visto un lungometraggio sulla musica afro-americana che fallisse nel tentativo di rappresentare la vita di un grande musicista, dai titoli di testa a quelli di coda compresi, è un vero record.

Perfino la musica è sbagliata; infatti, non una nota suonata è di Chet Baker. La colonna sonora è composta da David Dramm per le parti originali e da reinterpretazioni piuttosto scialbe dei classici del trombettista ad opera di Steve Wall, Floris van der Vlugt, Frans van Geest, Ruud Breuls e altri.

La magia della musica di Baker era davvero sottile e si basava unicamente sulla sua particolare intonazione, sia nel primo periodo fino agli anni ‘50, sia nel ritorno patetico e tragico della sua decadenza. Non aveva particolari doti tecniche o compositive, era un autodidatta che suonava ad orecchio, per giunta il suo stile ha sempre risentito della sua scarsa capacità polmonare e dei difetti della sua dentatura: la perdita traumatica nell’infanzia di un incisivo sinistro mai sostituito ed una malferma dentiera da adulto. Nonostante questi limiti o forse anche grazie a queste particolarità, diventò uno straordinario interprete soprattutto perché assolutamente unico e irripetibile.

I suoi brani suonati da altri, perfino musicalmente più dotati, perdono di senso, appaiono fasulli e privi di emozioni e questo è proprio il caso del film di Van Eijk. Lo scempio è evidente nella versione originale ma diventa macroscopico e irritante nel doppiaggio italiano che, come sempre, mutila e strazia insensatamente la pellicola a partire dai suoni e dalle voci rendendola, se è possibile, oltre che inguardabile anche inascoltabile. In sceneggiatura del resto il fatto che Chet fosse un trombettista sembra solo un elemento di contorno, poco più di un pretesto o uno sfondo narrativo per tratteggiare un tipo psicologico disfunzionale e caricaturale.

Ancora Gavin nella citata biografia di Chet:

Baker chiuse la porta a chiave. Scomparve fino alle 3 e 10 circa della mattina di venerdì 13. A quell’ora un uomo che tornava da un bar dello Zeedijk vide un corpo sullo stretto marciapiede davanti al Prins Hendrik. Era piegato in posizione fetale sotto la luna piena. Il passante si mise a bussare alla porta d’entrata che di notte veniva chiusa, poiché gli ospiti dell’albergo avevano una chiave d’entrata. Il portiere di turno era in un’altra parte dell’albergo e non sentì i colpi. Li sentì invece un americano. Scese le scale, ma quando vide quella persona agitata sulla porta, pensò che fosse un vagabondo ubriaco che cercava di entrare e tornò nella sua stanza.”

Sul mito di Chet Baker è stato fatto e detto di tutto in questi ultimi trent’anni; si è usata la sua storiella di artista maledetto per “avere più carisma e sintomatico mistero”, anche nel nostro paese ci sono musicisti che hanno costruito la propria carriera sulle disgrazie del trombettista americano. Chet dalla sua aveva il fascino del ribelle alla James Dean che i rotocalchi e i media hanno sempre adorato e sfruttato, anche questo faceva parte delle sue sofferenze. Per quanto facesse non gli è mai riuscito di separare lo stereotipo circense che lo teneva prigioniero dall’ottimo, istintivo musicista che era, non certo un genio ma uno splendido interprete. Anche nel film si parla di lui definendolo: “Bello come un dio greco, Angelo e Mostro, infantile e sublime, sporco e purissimo”.

Capiamo immediatamente la grana e la caratura del suo talento se paragoniamo Baker (1929-1988) ad un suo collega e coetaneo Miles Davis (1926-1991) al quale s’ispirò sempre ma che riuscì a eguagliare forse solo nella tossicodipendenza che, per altro, aveva per entrambi il minimo comune denominatore in Charlie Parker con il quale entrambi incrociarono gli strumenti e le siringhe. Nel film di Van Eijk anche l’argomento eroina viene trattato in modo convenzionale e superficiale quasi si trattasse di una questione tutto sommato trascurabile nella vita del musicista che invece vi trovò sempre rifugio e perfino ispirazione; molto sound di quello che gli viene attribuito è, in un certo senso, attribuibile all’abuso di droghe.

Gavin continua:

Poco dopo, il commissariato di Warmoesstraat, una strada adiacente al quartiere a luci rosse, ricevette una telefonata, probabilmente dall’uomo che aveva trovato il corpo. In pochi momenti gli agenti arrivarono al Prins Hendrikj. Quello che era sembrato un drogato o un ubriaco svenuto, si rivelò da vicino una visione ben più sconvolgente. L’uomo era sdraiato di fianco a uno dei piccoli pali di cemento allineati sulla strada, il viso era coperto di sangue e il cranio era sfondato. Aveva una maglietta a maniche corte e un paio di pantaloni gessati, incrostati di sangue. Di fianco c’erano un paio di occhiali e un pesante perno d’acciaio del tipo usato per aprire le finestre olandesi. Per quel motivo la polizia pensò che fosse caduto da una delle camere dell’albergo e avesse picchiato la testa contro il paletto. Il cadavere venne avvolto in un lenzuolo bianco e portato all’obitorio di Warmoesstraat. Non portando documenti di riconoscimento, la salma rimase anonima. Il viso era coperto di sangue secco, ma le condizioni del corpo fecero pensare alla polizia di aver trovato un uomo sui trent’anni.”

Altra nota dolente nel film è il casting e l’interpretazione del protagonista Steve Wall che fa tutto quello che è possibile per gettare discredito e ridicolo sull’arte dell’attore e sulla memoria del povero Chet. Wall ha qualche numero come musicista in proprio ma come attore è francamente negato ed ha la stessa espressività e calore di un termosifone spento. Tutti sanno quanto Baker nel suo tramonto fosse un essere umano in rovina, con abitudini e comportamenti del tutto inurbani e quanto meno discutibili ma non era di certo il mascherone patetico e grottesco che si vede nel film.

In parte l’effetto è certo dovuto al trucco davvero sconcertante e dozzinale, tutto il resto è a causa dell’interpretazione legnosa e imbarazzante di Wall e di chi gli sta attorno detective Lucas (Gijs Naber) compreso. Appena sopra la media le interpretazioni femminili, sempre peste e piangenti: Lynsey Beauchamp, ultima compagna di Chet e Paloma Aguilera Valdebenito, vittima delle ubbie del detective, per lo meno sono espressive e meno stereotipate del resto dei personaggi.

Concludiamo con la descrizione del momento nel quale il cadavere di Chet venne finalmente identificato così come racconta il buon James Gavin nella sua criticabile e criticata biografia che in ogni caso conserva una certa sensatezza a differenza del lungometraggio di Rolf van Eijk.

Venerdì mattina verso le otto, si presentò al lavoro Rob Bloos, un giovane ispettore del commissariato di Warmoesstraat. Quando venne a sapere del nuovo cadavere nell’obitorio, non se ne preoccupò troppo. “Era uno dei tanti”, dice. “Allora avevamo un sacco di drogati nel quartiere: ragazzi tedeschi, italiani. Qui l’eroina è molto più forte. Loro se ne facevano troppa e ci restavano.” Ciò nonostante, si recò con due colleghi all’albergo e avviò una meticolosa indagine. Il suo rapporto, lungo più di trenta pagine, includeva una piantina della camera, un inventario completo di quel che c’era e gli interrogatori con il personale dell’albergo. Controllando il registro, Bloos vide la firma di Chet Baker, un nome che non conosceva. Trovò la porta della camera chiusa dall’interno, il che indicava che nessuno era stato li. Non c’erano segni di effrazione. Sul tavolo c’erano un bicchiere con tracce di eroina e coca, e un altro con dentro una siringa, di fianco c’era meno di un grammo di eroina. L’unico bagaglio era la custodia della tromba, della quale più avanti si disse, erroneamente, che venne trovata per strada vicino al corpo. Dentro c’era una tromba, un orologio, cinquanta fiorini, un braccialetto, un accendino e un pezzo di carta con su scritto Chet Baker.”

Flaviano Bosco © instArt

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