Pordenonelegge, la festa del libro con gli autori, celebrando quest’anno il ventennale dalla prima edizione, invece di godersi finalmente il raggiunto stabile successo, rilancia ancora e diventa sempre più grande, importante e imponente. Bastava farsi un giro per le vie della città in questo fine settimana e guardare il fiume tracimante di persone che si riversavano da uno stand all’altro, da un tendone ad una libreria ad esaurire i posti di ogni singolo incontro con scrittori acclamati e universalmente riconosciuti ma anche con esordienti e le piccole realtà locali delle tante case editrici presenti alla festa.

Proprio di quest’ultima si è trattato. Pordenonelegge non è una mostra, un festival, una rassegna e tanto meno una fiera, è proprio una festa nella quale i partecipanti possono respirare quell’atmosfera intima, partecipata e informale che è così tipica del nostro territorio. Nonostante i grandi e grandissimi numeri della manifestazione in termini di pubblico e di vendite di libri, a Pordenone ci si sente ancora a proprio agio come casa.

Sabato mattina, com’è tradizione in quella città, alla Festa del Libro si è affiancato il grande mercato rionale che, in alcune vie, hanno praticamente condiviso i medesimi spazi. Certo qualche piccolo problema di logistica andrà affrontato e rivisto ma questo particolare dimostra che la festa del libro è davvero di tutta la città e che ne fa parte come un tessuto vivo, è parte di un organismo urbano che continua a brulicare non intorno ad essa, com’è per tante fiere che vengono destinate in luoghi appositi e distanti.

In questi giorni Pordenonelegge è diventato il cuore pulsante di una città in grado di comprendere che la vera cultura non ha bisogno di santuari, di templi e di torri d’avorio ma che deve essere sempre nutrimento quotidiano, linfa vitale. Così, un chiosco di salumi e formaggi può benissimo convivere con una bancarella di libri fuori catalogo o un tendone dove si discute di estetica filosofica; un incontro con un poeta, un romanziere, uno storico può tranquillamente svolgersi in un piccolo parco cittadino o in una piazzetta del centro, in un ristorante, in un’osteria e tutto questo contemporaneamente ai grandi spazi stracolmi di un teatro, alle sale conferenze gremite ai luoghi più vari: da uno splendido ex convento alle scuole, ai palazzi storici.

Pordenonelegge fa vivere la città e viceversa, ne è vissuto, abitato in uno scambio osmotico che ha pochi paragoni e che forse solo nella città del Noncello, che si appresta a vivere tra poco anche le Giornate del cinema muto, è possibile in un modo così intenso e partecipato.

Celebrare i vent’anni è servito soprattutto a guardare al futuro di questa splendida festa che, miracolosamente, riesce a coniugare in maniera intelligente e feconda la convivialità con la meditazione e l’analisi, un buon bicchiere di vino con una poesia, una riflessione profonda con il lampo del sorriso di un bambino.

-Francesco Guccini: Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto.

All’insaziabile pletora di stolti che continuano a chiedergli a quando le nuove canzoni o un nuovo album Guccini continua a rispondere con un pizzico di malcelata insofferenza che si sente implacabilmente incalzato e tormentato come il Suonatore Jones dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, collocandosi automaticamente in quella sola schiera di chi gli è pari: il poeta americano e quello genovese che da quei versi ha tratto i propri per musica.

E poi se la gente sa

e la gente lo sa che sai suonare

Suonare ti tocca

per tutta la vita

La musica, invece, non gli interessa più e nemmeno le canzoni; dice di provare una qualche nostalgia per il tempo passato ma rimpianti no, mai. Guccini dall’abbandono delle scene avvenuto nel 2012 non è cambiato, anzi è vero il contrario, come i grandi saggi, ha solo imparato ancora meglio ad essere quello che è sempre stato: Un poeta.

E’ davvero difficile, per chi sta scrivendo queste righe, trovarsi nella posizione di essere: Un musico fallito, un teoreta, un pio, un Bertoncelli e un prete a sparare caz… proprio come cantava l’avvelenato poeta ma, chiedendo un po’ di comprensione da parte dei lettori, in qualche modo si dovrà pur fare.

Guccini nonostante l’età (sta per compiere ottant’anni) e qualche evidente acciacco, è ancora un pezzo d’uomo, lo è sempre stato, di dentro e di fuori; è uno che la statura di poeta e d’artista l’ha raggiunta da un pezzo ed ora, dall’alto della sua esperienza, comincia ad acquisire la saggezza, il tono e il carisma dei patriarchi. Lo si è visto nel dialogo pomeridiano che ha avuto con il pubblico di Pordenonelegge al Teatro Verdi pieno all’inverosimile, con lunghissime file in attesa già dalla mattina.

La promessa che Jorge Luis Borges gli aveva fatto in una canzone di parlare con il Persiano Omar Khayyamm è da mo’ diventata realtà. Il paradiso dei poeti lo ha già accolto in eletta schiera e più di un Roland Barthres ha recensito le sue canzoni. La sua musica e i suoi versi sono consegnati alle biblioteche, ai manuali e alle antologie, tutta la sua opera di cantautore ha indiscutibilmente diritto alla gloria degli altari. E’ quello il suo posto ed è così che dobbiamo imparare a considerarlo già in vita.

Cosa resta allora, dopo il suo addio alle scene, tanti anni, decine di album, centinaia di canzoni, migliaia di concerti, milioni di fan abbandonati? Cosa resta di Francesco Guccini? Resta l’uomo e il poeta senza età, fatto e finito…e non ne nascono tanti in un secolo come diceva Alberto Moravia. Restano decine di romanzi, saggi di linguistica e glottologia, resta la sua letteratura e il suo gusto squisito per il racconto e per la lingua, anche questa è cosa rara.

Ha il sapore di un addio il suo lavoro più recente anche se non sarà di certo l’ultimo; è una riflessione sugli ultimi istanti di un mondo di memorie, di affetti, di cose che inevitabilmente sta procedendo verso l’oscurità del tramonto.

Quel mondo è quello a cui anche lui appartiene che sta per passare definitivamente “di la dall’acqua”. In tutte le realtà contadine arcaiche c’è sempre stato un fiume un torrente, un acqua che divideva una parte dall’altra del territorio e l’attraversamento significava il mistero e l’incognita dell’alterità di un’altra dimensione. Chi abita in Friuli sa bene che esiste un di cà e un di là da l’aghe del Tagliamento che significa la separazione ma anche l’incontro tra territori e culture diverse ma contigue.

Da sempre Guccini canta della sua terra d’origine delle montagne e dei fiumi “ai quali hanno attinto forse duemila anni di gente sua campagnola il suo punto d’osservazione e di rimemorazione è, fin dai suoi esordi d’artista, Pàvana la piccola frazione del comune di Sambuca Pistoiese, in Toscana ma sul confine geografico, culturale, sociale tra l’Emilia e la Toscana, a pochi chilometri da Bologna e a pochi passi da Porretta Terme e da Pistoia. A parte le tante canzoni dedicate al paesino in cui è cresciuto, Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto è il quarto capitolo delle memorie intime riguardanti il suo piccolo paese d’origine che gli ha ispirato anche la redazione di un dizionario del suo particolare dialetto.

Il testo inizia con una diretta citazione da una delle Odi di Giuseppe Parini, La caduta:

Quando Orion dal cielo

Declinando imperversa;

e pioggia e nevi e gelo

sopra la terra ottenebrata versa

Quando il giorno sta per spegnersi e le tenebre della notte si avvicinano c’è un indefinibile momento quasi di sospensione, un limitare del tempo tra gli ultimi raggi che regalano un debole chiarore prima di sparire dietro l’orizzonte della sera. Il buio abbraccio dell’oscurità sta per ghermirci, è il momento dei sospiri, delle decisioni che si rimandano al domani, della speranza di far meglio, del ritirarsi nelle case. Per il mondo contadino che lavorava da lume a lume era il momento di riporre i faticosi strumenti del lavoro, rigovernare gli animali e ritirarsi nell’attesa della nuova alba che avrebbe fatto ricominciare il ciclo del giorno.

Parlando di questo particolare attimo i due poeti Parini e Guccini, sanno bene di alludere ad un preciso passaggio della Divina Commedia nella quale il Dolce padre Dante:

Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,

nel tempo che colui che ‘l mondo schiara

la faccia sua a noi tien meno ascosa

come la mosca cede alla zanzara,

vede lucciolle giù per la vallea…

(Inf.XXVI, 25-29)

Proprio nell’estremo momento del pomeriggio in cui la mosca cede il posto alla zanzara della sera, il contadino si riposa e guarda, giù nella vallata le tante luci lontane che sembrano lucciole nelle profondità della notte. Ripensa al lavoro fatto e anche al tempo passato e al suo mondo.

Esattamente quello che fa Guccini in questa ultima parte della sua vita mentre anche sulla sua amata Pavana sta per calare la notte. Dalla sua nascita il comune è passato da 7000 abitanti a poco più di un migliaio; in alcune frazioni, dice non ci sono nemmeno abbastanza persone per fare una partita a tresette, gli anziani si ritrovano nell’unica osteria e aspettano il quarto per giocare che non arriva mai, rassegnati finiscono per salutarsi e mestamente tornare alle loro case vuote anche quelle.

E’ fatto tutto di aneddoti di questo tipo Tralummescuro. Guccini racconta dei tempi in cui il paese era abitato e vivo e dove addirittura c’erano, nel periodo estivo, dei villeggianti oppure gli emigranti che tornavano alle case che avevano dovuto abbandonare, con i figli o con i nipoti.

Venivano soprattutto dalla Francia, luogo d’elezione per gli emigrati pavanesi, e tornavano per brevi periodi persone che avevano abbandonato perfino la loro adolescenza e tutti i ricordi in quel paesino per ricostruirsi una vita normale oltralpe. Ormai francesi da decenni non parlavano nemmeno più l’italiano che biascicavano solamente quando giocavano a bocce tuonando in orrende bestemmie.

Pavana è per lui dichiaratamente quello che per Garcia Marquez era Macondo, un’utopia, un’isola perduta ma anche una terra promessa costruita e sognata con tutte le sue mitologie e la sua topografia immaginaria in decenni di fantasie e speranze.

Ora che la vita sta abbandonando quei luoghi, è il poeta a soccorrerla e a darle una nuova dimensione. Ma non è solo questo il suo intento, Guccini è anche un filologo ed uno studioso delle lingue dell’Appennino; esplora ed indaga parlate e dialetti con scrupolo, competenza e acribia ormai da decenni regalando ai lettori la squisita pietanza di un libro di memorie tutto proiettato al futuro.

Il suo è una sorta di De vulgari eloquentia in salsa padana nel quale insegue lo sfuggente profumo della pantera della lingua perfettamente conscio, come lo era l’Alighieri, che è riposta in quella l’unica possibilità che abbiamo di sopravvivere alla paura della notte.

E’ vero che la notte sta arrivando e che ci sono poche speranze sia per Pavana sempre più spopolata e triste, sia per ognuno di noi sempre più preda delle nostre idiosincrasie viziati dalla tecnologia senza cuore e dal consumismo. Allo stesso tempo E’ però anche vero che è solo nell’oscurità che le stelle brillano indicandoci la direzione del nostro andare: La luce splende fra le tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta (Giov. 1,5)

Un’altra meravigliosa citazione nel suo libro riguarda il passo del profeta Isaia in cui si chiede ad una sentinella notturna: A che punto è la notte?” questa risponde che la luce è vicina, è l’ora di tornare a sperare e redimersi. A quei versetti biblici il poeta aveva già dedicato un’ispirata canzone: Shomèr ma Mi-llailah? nell’album omonimo del 1983. Nel suo ultimo libro, al contrario, Guccini s’interroga su quanta luce resti ancora prima che precipiti la notte. Nell’inquietudine la risposta è però la stessa: sperare e continuare ad immaginarsi il futuro con un pizzico di nostalgia ma senza alcun rimpianto.

Per concludere, è il caso di ritornare dunque al doppio omaggio che Guccini fa, come accennavamo più sopra, a due grandi poeti che gli sono pari, Lee Masters e De Andrè:

Finii con i campi alle ortiche

Finii con un flauto spezzato

e un ridere rauco

e ricordi tanti

e nemmeno un rimpianto.

© Flaviano Bosco per instArt

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