Ha nuovamente fatto tappa al Revolver di San Donà di Piave, poco più di un mese fa, la devastante intensissima tournée di una delle formazioni più longeve ed ispirate della prima scena Black Metal svedese: Marduk. Sono fin dalle primissime intenzioni “la più blasfema tra tutte le band” in circolazione che nel corso di tre decenni non ha perso per nulla in ferocia, crudeltà e perfino creatività.

“Memento Mori” il loro quindicesimo album in studio ha ricevuto il plauso della critica e del pubblico degli appassionati per la sua violenta compattezza e per l’ispirazione di certe atmosfere cimiteriali e ossianiche che ne fanno un capolavoro dell’autentico “metallo nero” aggiornato e contemporaneo eppure incredibilmente fedele ad uno stile furioso che la band giustamente si ostina a non abbandonare.

Sono ancora capitanati saldamente dal membro fondatore, il chitarrista Morgan Steinmeyer Håkansson che fu “Evil” anche nella band seminale Abruptum “La quintessenza sonora della pura malvagità oscura” come ebbe a dire Euronymous. Il ferocissimo progetto musicale di Håkansson, che prende il proprio nome dall’oscura divinità sumera quel “Marduk guerriero la cui ira è come la tempesta” che attraversa tutta la storia della mezza luna fertile per sfociare negli antichi testi ebraico-cristiani sotto forma di demonio, si avvale dal 2004 anche del preziosissimo contributo del frontman e cantante Daniel “Mortuus” Rostén che nella sua poliedrica creatività ha dato vita anche al progetto “Triumphator” e a quello ormai praticamente solista dei “Funeral Mist”.

La band può vantare una notorietà mondiale e un parterre di fedelissimi fan: la “Marduk legion” che si è vista radunarsi nel locale di San Donà. Non sono da meno le band che li accompagnano nel tour mondiale di questo “Memento Mori World Tour 2024”

Doodswens: Inge Van Der Zon (Batteria, voce) Riccardo Subasi (basso) Peter Myatezhnik (chitarra)
Qualcosa è cambiato, a parte la line up che stabile non è mai stata, tanto che negli ultimi tempi ha visto la sostituzione di basso e chitarra. Il sound del progetto musicale della batterista olandese si è fatto più pesante, solenne e funebre, per un black metal decisamente più atmosferico. I brani sono estremamente dilatati e lunghissimi. Doodswens in olandese significa “Desiderio di morte” e le tematiche sono rimaste decisamente le medesime, ma il climax complessivo si è fatto, se possibile, decisamente più lugubre.

La selvaggia percussionista sfoggia un fantastico growl e picchia sul suo strumento con maggiore consapevolezza. Rispetto agli inizi ha sostituito la furia devastante e cieca con una violenza sonora altrettanto massiccia e distruttiva, ma relativamente più meditata unita ad una presenza scenica ancora più inquietante tra devozioni e riti di sangue al “Signore di questo mondo” e un face painting che la fa sembrare una pazza Sadako con gli occhi rovesciati all’indietro e i capelli tutti sulla faccia come in un pauroso horror giapponese. Per fortuna non è assolutamente solo “posing”, la vena di follia psicotica che ha sempre distinto la musica del gruppo è ancora ben presente e la resa complessiva dei nuovi brani è davvero una bella sorpresa.

L’odore di incenso che si sparge per il locale, le parti parlate ed estremamente rallentate che precedono esplosioni di ferinità belluina, le lente introduzioni funebri da rituale satanico preannunciano un Wall of sounds decisamente settato sulla batteria cui chitarra e basso fanno da bordone garantendo un tappeto sonoro siderurgico classico con minime variazioni d’accordi. E’ lei che saldamente dirige e indica i cambi di ritmo improvvisi, le velocissime accelerazioni.

Sul palco si facevano notare i canonici teschi di capri, il candelabro, il calice pieno di sangue che la batterista sputa sul pubblico accalcato sotto il palco; l’altare con il pentacolo rovesciato non è solo scenografia, ma dichiarazione d’intenti come sembra essere autentico il teschio umano che faceva bella mostra di se assieme agli altri ninnoli e brik a brak mefistofelici.

Finito il set, da veri rocker stradaioli si sono smontati gli strumenti da se. E’ stato veramente divertente vedere la Sadako della batteria olandese, nel dopo concerto mentre si faceva i selfie strabuzzando gli occhi con i fan, o più tardi dietro il banchetto del merchandise mentre completamente struccata e in abiti quotidiani (Jeans e maglietta qualunque) vendeva i gadgets delle band della serata compresi i suoi.

Scaletta approssimativa: Intro, In Mijn Bloed, Demo I, Ijsheiligen, Het Zwartewaterland, Demo II, III, IV, Devils, Devils Stone, Vlaamse Vloek

Origin: Paul Ryan (chitarra) John Longstreth (batteria) Jason Keyser (voce) Mike Flores (basso).
Iniziano con un parlato che lascia spazio ad un violentissimo Death Metal molto tecnico e iperveloce, un vero pugno in pieno viso. Il cantante incita un pogo che non si fa attendere e sotto il palco inizia immediatamente un gioioso mosh pit.

Incredibile ma vero il bassista arpeggia sul suo strumento ad una velocità che non sembra nemmeno umana, a modo suo riesce perfino a slappare. La band sfoggia un’energia e una violenza sonora senza alcun compromesso. Il cantante è una belva feroce che “guata” e continuamente pungola il pubblico con un cantare gutturale a metà tra lo scream e il growl più selvaggio, tormentando le sue corde vocali fino allo spasimo esattamente come fa il chitarrista con quelle del suo strumento.

Alcuni suoni della band erano molto vicini a generi come l’industrial e il puro Noise. E’ musica che sa di barricate, di rivolta e di hardcore sudato che chiama la rissa e il contatto fisico più violento. Per questo il pubblico ha dato il meglio di se pogando e facendo galleggiare al di sopra delle teste (crowdsurfing) almeno un rocker che è stato infine buttato sul palco con sua grande gioia, per poi fare stage diving.

Per fortuna al Revolver club hanno capito che la gente vuole solo divertirsi e hanno tolto gli steward massicci e robotici da sotto il palco lasciando sfogo al pubblico. E’ bello vedere che anche durante il più forsennato “Circle Pit”, se qualcuno prende una spallata e cade, c’è sempre qualcun’altro che lo sostiene per poi abbracciarlo come fratelli nel metallo.

Intanto gli Origin si prodigano in laceranti, vertiginosi e taglienti riff da togliere il respiro.

“Mosh for your life” c’è scritto sulla maglietta di uno dei più scatenati giovinastri; è stato bellissimo vedere in mezzo al pogo più sfrenato, saltare e correre anche le ragazze, non erano molte ma compensavano il numero con la furia e l’energia del divertimento.

Alla fine anche il cantante ha fatto lo stage diving continuando a cantare come un ossesso anche mentre volava sopra le teste dei fan. Un vero fenomeno.

Alla musica di un gruppo come gli Origin raramente ci si avvicina per ampliare il proprio orizzonte poetico e culturale. Quello che si vuole è percepire la forza del sound, divertirsi e secondariamente anche veicolare la propria rabbia e la propria frustrazione.

La musica Black e Brutal Death metal ha un pubblico tra i più vari: dalla professoressa di filosofia esperta di mitologia nordica all’adolescente brufoloso e stordito che vive in fondo alla provincia; dal vecchio rocker incarognito all’impiegato delle poste quarantenne che vive ancora con la mamma, di certo pochi s’interessano ai testi delle canzoni ed è legittimo, la musica comunque arriva diretta come una bastonata.

Visto che però c’è anche ben altro come profondità di contenuti, giusto per spirito di contraddizione riportiamo le note pubblicate sul band camp del gruppo a commento dell’ultimo album in studio che ripercorre, ricostruisce e celebra i loro primissimi esordi. “Abiogenesis – A Coming into Existence” (2018):

“L’Abiogenesi è il processo che ha originato la vita a partire dalla materia bruta. I dettagli del processo sono ancora oggi in parte misteriosi, la transizione tra disanimato e entità vivente non fu un singolo evento, ma un graduale processo di crescente complessità. Questo processo è quello di cui tratta il nuovo album degli Origin”.

Niente male per una band che fa della stolida brutalità e della crudeltà sonora metodo e scelta esistenziale. Al di là della facile ironia, l’album è suonato quasi interamente dal fondatore polistrumentista della band Paul Ryan che ripropone la primissima ispirazione della band insieme a rarità e alternate takes, altri brani sono suonati da vecchi membri della band riuniti per l’occasione. Il risultato è, come dicono loro, un “Origin’s Origin”.

Dietro tanta apparente sconclusionata ferocia, dunque, c’è una raffinata ricerca musicale e un progetto che per quanto strano possa sembrare richiede grandissima cura, intelligenza e prospettiva. Lo si è visto bene sul palco del Revolver club, la band del Kansas non lascia nulla al caso e non fa prigionieri.

Marduk: Mortuus (voce) Simon Wizén (basso) Morgan (chitarra) Simon Schilling (batteria)

Un pattern di sound cimiteriali e monastici introduce la performance paraliturgica degli artisti che tutti stanno aspettando. Un coro che sembra di tradizione greco ortodossa come quello di gruppi come Batuska intercalato da canti di gola decisamente asiatici, mentre i tecnici provano gli strumenti sul palco creando un’atmosfera di attesa davvero straniante.

Ad un certo punto il volume dei cori si è fatto più intenso e una caligine funebre si è materializzata sul palco, le luci taglienti come rasoi cominciavano a scrutare, nel buio della sala, i fedeli blackster in attesa. Finalmente i diavoli svedesi scendevano le scale dal piano superiore fino a guadagnare il palco. L’attesa è stata piuttosto lunga, ma ne è valsa decisamente la pena.

I quattro cavalieri dell’apocalisse emergono da una nebbia rossa come spettri demoniaci.

La voce di Moortus è tagliente e abrasiva come non mai, ha una grossa catena ai fianchi come il cane rabbioso che è.

Molto coinvolgente il suono del basso nettamente diverso da quello standard del Black Metal; aver sostituito Joel Lindholm per i noti spiacevoli fatti seguenti il concerto londinese nel locale “Incineration Fest” (15/05/2023) è stato davvero salutare.

La ritmica è, come sempre, implacabile e di rara ferocia, di certo un marchio distintivo della band. Dopo ogni brano, com’è tradizione, la band, spalle al pubblico, si prepara ad un nuovo assalto sonoro brandendo i propri strumenti come affilatissime lame e mazze spacca ossa.

Le sonorità dell’ultimo album anche dal vivo si caratterizzano per opalescenti, lente crudeltà di forza inesorabile. In “The Funeral” per esempio il suono della chitarra è stranissimo e completamente fuori registro considerato il genere, con venature che addirittura richiamano vagamente stilemi blues e anche questa è una sorpresa.

C’è da smarrirsi nel guardare la fittissima successione di date di questo tour mondiale, con centinaia di concerti e anche migliaia di chilometri tra l’uno e l’altro; dall’America Latina al Giappone, dalla Norvegia all’Abruzzo.

Il 2024 è un anno molto fitto di anniversari e celebrazioni per il black metal, sono tre decenni da molte cose fondanti quell’autentica rivoluzione artistica iniziata in un piccolo negozio di Bergen in Norvegia, tra queste almeno la pubblicazione di “De Mysteriis Dom Sathanas” dei Mayem, “Transilvanian Hunger” dei Darkthrone, “Hvis Lyset Tar Oss” di Burzum e non ultimo “Opus Nocturne” proprio dei Marduk.

A differenza di ciò che dicevano allora i maligni e i mal informati, il genere non è per nulla stato un fuoco fatuo e non è per nulla invecchiato e i Marduk, da pionieri della musica più estrema continuano da allora a cavalcare quell’onda nera senza il minimo cedimento restando fedeli a se stessi e al contempo innovando, rigenerando e costruendo nuove strade dentro la musica più aggressiva e violenta che si sia mai vista e ascoltata.

Le loro possono sembrare minime variazioni di un canone ormai anacronistico a chi non ha gli “orecchi circoncisi” ma che invece fanno cambiare completamente di segno e direzione ai loro percorsi musicali e per una musica nata sotto i peggiori auspici quasi abortita da forze oscure come quelle della leggenda nera dell’Inner circle e dei signori del caos (Lords of Kaos) sembra quasi un miracolo di Lucifero.

Molto generosi non si sono certo risparmiati con i bis anche se il pubblico non ha smesso di gridare: “We want more!” per un bel po’ dopo che erano rieccheggiate le ultime cannonate dell’assordante battaglia.

Tra i brani la monumentale “Panzer Division Marduk” che ha la pesantezza di un cingolato e rieccheggia nel suo rombare l’immaginario militaresco e germanico della band che purtroppo risulta a volte poco condivisibile da un punto di vista strettamente etico, ma all’arte non si comanda. La croce di ferro al collo di Mortuus è ormai diventato solo un simbolo del metal e Lemmy Kilmister lo certifica da lassù.

“Memento Mori” il brano che lugubremente da il titolo all’ultimo lavoro in studio della band è in alcuni tratti davvero inesorabile con un testo importante che merita qualche attenzione, eccone un estratto.

Come and revelJubilate

Come, rejoice in the wedding of decay

In the gospel of the worm

And the promise of the grave

Come and rejoice, come and sing

To the one rightful king

Come and lay bare your breath

For his name is Death

Memento mori

Venite e divertiteviGiubilare

Venite, rallegratevi delle nozze della decadenza

Nel vangelo del verme

E la promessa della tomba

Venite e gioite, venite e cantate

All’unico re legittimo

Vieni e metti a nudo il tuo respiro

Perché il suo nome è Morte

Memento mori

Scaletta approssimativa: On Darkened Wings, Equestrian Bloodlust, Shovel Beats Sceptre, Souls For Belial, The Funeral Seemed to Be Endless, With Satan and Victorious, Weapons, Wartheland, Blood of the funeral, The Levelling Dust, The Sun has Failed, The Blond Beast, Throne of Rats Wolves Panzer Division Marduk

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©

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