Mentre infuriano le polemiche sulle capacità della Direttore Beatrice Venezi (così vuole farsi chiamare) contestata dagli orchestrali del Politeama di Palermo per la sua presunta inettitudine, testualmente: “Chi si crede di essere, Bernstein? Non sa dirigere. Meglio fare da soli”, mentre la recente, eccentrica regia scenica del Flauto Magico da parte di Damiano Micheletti del Teatro dell’opera di Roma viene sbertucciata e derisa dalla critica e dalla maggior parte del pubblico sui media di mezzo mondo, è piacevole riandare con la memoria all’applaudito e riuscito allestimento triestino della magnifica opera mozartiana di solo qualche settimana fa.

Senza troppi clamori, la messa in scena del Teatro Verdi è sembrata piacevole, elegante e raffinata nelle scenografie, nei costumi, nella regia, tutto mirabilmente curato da Ivan Stefanutti che ha voluto dare un tocco di Bollywood a tutta la rappresentazione con un risultato di straordinaria efficacia, senza mai essere eccessivo o caricaturale.

L’esecuzione della partitura da parte dell’orchestra è stata cristallina e adeguata, senza eccessi ma coinvolgente e godibile.

La direzione si è lasciata apprezzare per la sua sobria semplicità. La Direttore Venezi, “bacchetta nera” come è stata chiamata per le sue simpatie politiche, non si è fatta notare granché ed è stato di certo un bene perchè in primo piano deve esserci sempre la musica e non il narcisismo dei soliti sedicenti artisti egocentrici, Mozart non ne ha bisogno, può farne tranquillamente a meno.

La bacchetta è uno strumento tra gli altri al servizio della partitura, tutto il resto è solo vanità di vanità, noia e voglia di protagonismo.

Per fortuna a Trieste non si è visto nulla di tutto questo. La regina della notte, la straordinaria Nicole Wacker, come sempre ha trovato pane per i propri denti. Come dice Sorastro nel finale dell’opera: “I raggi del sole dissipano la notte. Annullano il potere carpito con frode da ipocriti”.

Al teatro Verdi, dopo i primi tre accordi iniziatici dell’ouverture, a piccoli passi si entrava in un sogno, in punta di piedi ci si ritrovava in un mondo magico dove tutto sfrecciava, danzava, ballava e faceva la riverenza; si correva a perdifiato nella propria e altrui fantasia per giocare e ridere, con il cuore che scoppia di gioia.

Il libretto nell’esergo dell’atto primo, dice: “La scena rappresenta un paesaggio roccioso qua e là ricoperto di alberi; ai lati vi sono balze praticabili, presso un tempio rotondo…Tamino scende da una roccia in uno splendido abito da caccia giavanese, con un arco ma senza frecce; un serpente lo insegue.”

Comincia da uno spavento la nostra storia, una paura tale del mostro che lo insegue da far svenire già alla prima scena il nostro eroe che però viene salvato da tre dame che poi manco a dirlo s’invaghiscono di lui e via di seguito. Il principe Tamino, interpretato dall’ottimo Andrea Schifaudo, deve liberare la figlia della regina della notte Pamina, l’intensa Patricia Daniela Fodor, rapita dal terribile Sarastro (Alessandro Ravasio) e dalla sua setta che poi si rivelerà molto meno cattivo di quello che sembra. Il principe è aiutato nella sua nobile impresa da Papageno (Vincenzo Nizzardo), un popolano uccellatore che cerca anche lui Papagena (Chiara Maria Fiorani), la donna dei suoi sogni. Dopo mille avventure, switch narrativi e musica meravigliosa riescono nel loro intento e tutti vissero felici e contenti.

Sembra tutto così semplice e invece, l’opera mozartiana è da sempre tra le più discusse e indagate dalla critica e dagli studiosi.

Quello che è certo è che si tratta dichiaratamente di un’opera massonica dalle simbologie aggrovigliate e misteriose, che racconta di un percorso di iniziazione ai misteri degli illuminati muratori da parte di due personaggi che più diversi non potrebbero essere, ma che insieme riescono a vincere l’antagonista più temibile della storia dell’opera lirica, la Regina della notte che prima li inganna per tirarli dalla propria parte contro gli adepti del sole e poi finisce per soccombere e sprofondare nella propria stessa tenebra in eterno, almeno così si potrà sperare.

Però niente può farci più paura dopo che il glockenspiel e il flauto magico hanno suonato perchè ci teniamo tutti per mano guardando le luci nel cielo della libertà, della fratellanza e dell’uguaglianza, sicuri che davanti a noi stia spuntando il mattino di una nuova felicità in un mondo che sarà migliore.

E’ solo un’illusione, non c’è dubbio; un sogno di quelli che facevamo nel lettone dei nonni, nei pomeriggi estivi, da bambini, paciosi e spensierati.

E’ un battito di ciglia, un sospiro del cuore, usciti dal teatro ripiombiamo nella cruda realtà che ci perseguita, insozzata del sangue degli innocenti e prostituita al consumismo, ma proprio per questo, sperare e nutrirci dei nostri sogni, ci è indispensabile per continuare a vivere.

Mozart compose Die Zauberflöte nel 1791, ultimo anno della sua vita, non sopravvisse che pochi mesi al trionfo della prima delle 150 rappresentazioni al Theater auf der Wieden di Vienna, che non vide mai tutte.

La città che gli aveva negato perfino una sepoltura decente, lo avrebbe idolatrato solo dopo averlo fatto morire nella più completa miseria, piagato nel morale dagli insuccessi di una vita, stroncato dai rimpianti e dallo sconforto come è evidente dalla sue ultime corrispondenze e dalle testimonianze di chi gli fu vicino.

Eppure niente di quella tragica mestizia traspare nella sua musica postrema, le sue ultime composizioni, al contrario, sono tutte sublimi capolavori pieni di luce e di speranza, carichi di una vitalità e di un genio vigoroso che traguarda il futuro più remoto nella solida certezza che sarà migliore e che l’alba di un mondo nuovo non tarderà.

La sostanza della musica è assolutamente astratta e metafisica e non è traducibile in nessun altra forma di comunicazione. La musica, in questo senso, è un’esperienza individuale non condivisibile, che interessa l’animo di ognuno. Allo stesso tempo però c’è qualcosa che permette alla musica di essere messa in comune, non si spiegherebbero altrimenti i concerti, i conservatori, l’opera, la danza, spotify e tutto quel mondo di suoni di cui facciamo parte.

Quando dai palchi dell’opera si ha il privilegio di poter assistere a ciò che avviene in palcoscenico, nel golfo mistico e in platea e nel resto del teatro si ha la cognizione plastica e concreta che quello che succede riguarda tutti e si compie solo nel momento della rappresentazione. La musica unisce tutte quelle particelle di senso che ognuno di noi è, ci mette in correlazione e ci apre gli uni verso gli altri.

Sul pubblico si infrangono e riverberano le onde sonore che senza il calore dei corpi e dei cuori altro non sarebbero se non cose morte.

La musica in senso metafisico è perfettamente in grado di esistere da sola, senza bisogno d’altro da sé, ma quando si decide di renderla tangibile, concreta, viva, non si può che coinvolgerla in un processo di condivisione e comunione.

In parole povere, la musica ha bisogno di qualcuno che l’ascolti. In caso contrario è solo una fredda vibrazione nell’aria. In questo assomiglia molto al cinema che non esiste se non viene proiettato davanti a qualcuno che sospendendo l’incredulità si fa rapire dal sogno

Il 4 giugno 1787 in casa Mozart moriva l’amatissimo storno di Wolfgang, un uccellino acquistato dal compositore tre anni prima per 34 Kreuzer probabilmente da uno di quei venditori d’uccelli che si trovavano nei mercati popolari di Vienna.

Come dice Papageno: “L’uccellator ecco son io. Sempre allegro, olà, oplà! Io sono noto come uccellatore. A vecchi e giovani in tutto il paese. So come attirare gli uccelli e me ne intendo di zufoli…Io catturo vari uccelli per la Regina Astrifiammante e le sue dame; in cambio di ciò ricevo da lei ogni giorno cibo e bevande”.

E’ ben noto l’amore per le piccole creature del grande compositore; dalla sua corrispondenza con familiari e amici veniamo a sapere di alcuni canarini, un pettirosso e di una rara Petroica della Nuova Zelanda (Tomtit). Meno noto è forse che il loro canto ispirò alcune sue composizioni e che insegnò al proprio storno a cantare la melodia del Concerto per pianoforte n° 17 in sol (K453).

Quando quest’ultimo morì scrisse addirittura un lungo epitaffio in versi. Ricorda Franz Xaver Niemetschek, uno dei primi biografi di Mozart che ebbe la fortuna di poter intervistare la moglie Constanze:

“Spesso scriveva versi lui stesso; per lo più solo di tipo umoristico. Questa fu l’occasione, tra le altre, alla morte di uno storno molto amato, al quale aveva dato una vera e propria lapide nel suo giardino in affitto, e sul quale aveva scritto una dedica. Amava molto gli animali e, in particolare. gli uccelli.” (Niemetschek 1798).

Costrinse conoscenti e amici, ad una piccola processione nel proprio giardino allo scopo di tributare i giusti omaggi al caro estinto.

Nel Die Zauberflöte gli uccelli sono simbolo della semplicità e della frugalità del mondo di Natura, quello in cui è bello vivere e uccellare, e nel quale basta un nido, una compagna e tanti piccoli “uccellini” per essere davvero felici come nemmeno i più sofisticati e nobili tra i sapienti sanno essere.

Quale gioia sarà, se gli dei ci terranno cari e manderanno bambini al nostro amore, tanti cari piccoli bambinelli!…E’ la cosa più bella se tanti Papageni e tante Papagene, saranno la benedizione dei genitori”.

L’ultima opera di Mozart è forse la più discussa della storia della musica. Moltissimo è stato scritto di tutto, biblioteche intere: dalle esegesi strettamente massoniche che trovano conferma nell’impostazione iniziatica della vicenda e nel libretto alle letture illuministiche fino alle interpolazioni con la Divina Commedia e gli antichi testi tibetani.

Per fortuna nessun libro definitivo potrà mai essere scritto su questo capolavoro che continuerà sempre ad eccedere ed esorbitare ogni tentativo di incatenarlo definitivamente in un’unica prospettiva, è come un meraviglioso uccello del paradiso che non vuole starsene chiuso nella sua gabbia, ma che deve volare libero.

Parole illuminanti sull’interpretazione del Flauto magico, cui si rimanda, sono state scritte da Massimo Mila nel classico: “Lettura del Flauto magico” (Einaudi 2006) e recentemente da Giovanni Bietti, “La musica della luce: dal Flauto magico alla Nona sinfonia” (Laterza 2021).

Entrambe fanno chiarezza soprattutto sugli obiettivi che il compositore e il suo “gruppo di lavoro” si prefiggevano allestendo la messa in scena del libretto proposto dal grande impresario Emanuel Schikaneder e scritto rimaneggiando precedenti lavori (Oberon, Tamos re d’Egitto, Lulu oder die Zauberflöte) in collaborazione con Karl Ludwig Giesecke componente fisso della compagnia del Theater auf der Wieden e grande mineralogista, esploratore polare ed erudito.

Mozart fu iniziato alla massoneria austriaca il 14 dicembre 1784 nella loggia “Zu Wohltätigkeit (della Beneficenza) di Vienna. Aveva 28 anni e divenne ben presto Maestro massone e fu un Fratello fedele e impegnato fino all’ultimo dei suoi giorni.

Molte sue composizioni sono più o meno esplicitamente, ma indiscutibilmente, influenzate dall’esoterismo e dal simbolismo massonico. Il vero problema è che molte interpretazioni del Flauto Magico si appiattiscono e avviluppano esclusivamente sulle tematiche iniziatiche, perdendo completamente di vista le motivazioni e gli scopi più autentici del compositore che sono la promozione degli ideali illuministici di Liberté, Egalité, Fraternité.

Die Zauberflöte certamente racconta di un percorso iniziatico e sapienziale dalla tenebra verso la luce di due cuori nobili persi in una “selva oscura” e non a caso qualcuno ha avvicinato temerariamente il “singspiel” (recita cantata) di Mozart al Poema Sacro dell’Alighieri (Soresina, 2012), ma c’è anche qualcos’altro che si cela nel personaggio apparentemente più umile, buffo e cialtrone dell’opera che visto da vicino non è “normale” come tutti noi.

Per cercare di comprenderlo, affidiamoci alle parole di Massimo Mila che meglio di ogni altro ha saputo penetrare questo segreto davvero esoterico ed iniziatico perchè come diceva Seneca nel “De moribus”: Qui nescit tacere nesci et loqui (Chi non sa tacere non sa neppure parlare)

A rischio di passare per persone semplicemente colte non ci si può sottrarre al rischio di isolare in seno al Flauto magico ciò che la felicità dell’ispirazione musicale ha davvero investito della propria fiamma.

Sarà verissimo che Mozart abbia sposato con entusiasmo il cambiamento di rotta imposto alla vicenda con il capovolgimento dei caratteri di Sarastro e della Regina della notte e che con zelo neofitico egli abbia cercato di esprimere sottointesi simbolici connessi con tali personaggi entusiasmandosi dell’ideale di saggezza laica e di massonica filantropia concretato nella figura di Sarastro e dei suoi ministri, ma la musica che irresistibilmente si accende intorno alla figure dei semplici di Tamino e Pamina e Papageno, Papagena.

La musica che vince la rischiosa partita di questo singspiel nobilitato soprattutto grazie a due carte buone, la tenerezza degli affetti umani e il fantastico fiabesco ci dice che la vera massoneria di Mozart non era quella in cui egli credeva ingenuamente di credere, delle logge viennesi con i triangoli, la cazzuola e riti grotteschi delle prove rievocate nella trama del libretto, la massoneria di Mozart è un altra, è la massoneria degli umili e della povera gente come Papageno e Papagena, come Pamina e Tamino e se quest’ultimo è un principe giapponese e questa è la figlia della regina della notte.

La massoneria di Mozart è quella di coloro i quali non hanno la forza che quella degli affetti umani, altra ricchezza che il loro cuore, è la massoneria della buona gente contro tutti i potenti, tutti i domini, i signori, contro tutti coloro che vestono delle divise e delle armature e portano dei galloni, perciò irresistibilmente a dispetto delle intenzioni drammaturgiche proposte dal libretto La parte musicale riguardante Sarastro e il suo regno pur contenendo alcuni nobilissimi cori e una solenne aria finisce per schierarsi in una zona d’ombra, dovrebbe essere il polo positivo dell’azione, dove irraggiano la bontà e la saggezza, ma, per quanto buoni Sarastro e i suoi accoliti sono pur sempre dei potenti, il loro tono non è quello cordiale delle due coppie, nobile e popolana, che pervengono alla felicità attraverso l’amore.

Se si dovesse sviluppare interamente la filosofia contenuta nella musica e non nel libretto del flauto magico si arriverebbe alla conclusione che il male è il potere, il male è la forza, il male è l’autorità e la volontà di dominazione, la cupidigia, la prevaricazione, mentre il bene è l’innocenza, il vivere e lasciar vivere, in una parola la Natura.

Quali che abbiano potuto essere le sincere convinzioni massoniche di Mozart Tamino e Pamina sono i veicoli preferenziali dell’ideale umano mozartiano, Pamina, in particolare, è la creatura mozartiana per eccellenza tenera affettuosa bella tutta gentilezza inerme e innocenza perseguitata. Le traversie e gli affanni e le prove attraverso le quali si realizza il loro sogno amoroso sono l’immagine del commovente ottimismo di Mozart pur nel fondo della miseria, sono la sua irragionevole e sublime parola di fede nella bontà dell’uomo e delle positività della vita.”

© Flaviano Bosco – instArt 2024

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