Foto LucaA. d’Agostino/Phocus Agency © 2021

Un’antica storia persiana, tradotta in italiano da Cristoforo Armeno (1557) racconta del viaggio dei tre figli di Giafar, re di Serendippo (Sri Lanka) mandati dal loro padre in giro per il mondo in cerca di avventure e a conoscere la vita vera attraverso gli incontri con le genti, le città, le usanze e le cultura delle quali fino ad allora avevano solo potuto leggere nei libri. Tra mille avventure i tre metteranno alla prova la loro intelligenza, il loro spirito d’osservazione e la loro sagacia, cavandosela nelle situazioni più difficili.

Molto più tardi nel 1754, lo scrittore inglese Horace Walpole leggendo quella che gli apparve come una “sciocca favola” coniò il termine: Serendipità: “Trovare qualcosa di molto prezioso cercando altro.”

Safar Mazì è un ensemble a composizione variabile, formatosi nel 2014, che oggi prevede un re e tre principi, tra questi uno è proprio un persiano di nascita. Il loro nome, unione di una parola in Farsi e una greca, significa “viaggio insieme”, un itinerario nel cuore delle persone compiuto attraverso la musica. Da Casablanca in Marocco viene Mohamemed Neffaa percussionista; siculo-friulano è Paolo Forte alla fisarmonica; Friulo-pugliese Renato Tapino ai fiati, chitarra e voce; viene da Theran (Iran) Fuaad Ahmaadva, santur e daf. Hanno all’attivo due splendidi cd, “Safar” e “Thalassa”, e una lunga serie di concerti.

I quattro musicisti, anche solo per gioco, possono essere paragonati tranquillamente ai personaggi dell’antica favola persiana, il re con i suoi figli, e ognuno assegni le parti che ricoprono come vuole. Durante il concerto a Casa Roselli Della Rovere a Tomba di Mereto, con i loro tamburi e i loro suoni antichi e speziati, hanno raccontato agli spettatori di luoghi esotici e di antiche danze che accomunano i popoli del Mediterraneo; melodie, ritmi e canti che per millenni hanno viaggiato sulle rotte marittime insieme alle merci e agli uomini, rimbalzando da una sponda all’altra del grande mare interno che definiamo Nostrum perchè appartiene a tutti i popoli che vi si affacciano o che lo attraversano.

Il piccolo palco sul quale si è accomodato l’ensemble era ricavato sull’aia della splendida villa che è anche un’azienda agricola, la cui severa facciata tipicamente friulana era ingentilita da una vite che divideva il piano terra dal piano nobile, trasformandosi con i suoi generosi tralci in un’ombreggiatura semplice e incantevole. Una bellezza d’altri tempi tipica del fronte delle case del Medio Friuli e della Bassa.

Anche quello era simbolicamente un segno multiculturale; cosa c’è che unisce di più i popoli tra Occidente e Oriente della coltura della Vite? Gli studi più recenti attestano che già in piena età minoica la coltivazione della vite andava diffondendosi anche in Europa portata dagli antichi popoli che dall’Asia Minore migravano verso Ponente. Portando con se il frutto più prezioso della loro terra. Oggi, ancora una volta, assistiamo alle medesime migrazioni, sulle stesse rotte marittime e di terra. Dal Peloponneso o dai Balcani, attraverso il canale di Sicilia o lungo la via della Seta, giungono a noi fratelli che hanno attraversato a piedi gran parte dell’Asia nella speranza di incontrarci e di condividere con noi la sacralità dell’ospitalità che è, in assoluto, il valore più alto della civiltà umana. Come spiega l’antico mito di Filemone e Bauci o quello della vergine costretta a partorire in una mangiatoia, chi rifiuta lo straniero che bussa alla porta rifiuta dio.

La musica dei Safar Mazì ci insegna proprio questo e cioè a gioire con i nostri fratelli, a sentirci parte del loro viaggio, cominciando a muoverci allo stesso ritmo. Questo è anche lo scopo della manifestazione voluta tanti anni fa da Gabriella Cecotti che continua a farci esplorare luoghi insoliti e meravigliosi del nostro territorio. Il Friuli è un piccolo caleidoscopio delle culture tra Mediterraneo ed Europa continentale e poi l’Asia. Come ha dimostrato Gilberto Pressacco le nostre radici ancestrali sono in Africa, è da Alessandria d’Egitto che vennero in Friuli le comunità di Terapeuti che diffusero la prima forma di spiritualità cristiana che si sovrappose agli antichi culti celtici e alla religione romana. La nostra terra è fortemente impregnata della cultura dei popoli slavi così come di quelli del Nord Europa e poi c’è Venezia che, per piacere o per forza, ha garantito per secoli una contaminazione culturale senza precedenti.

Tutto questo si sente nelle note dei musicisti di Safar Mazì che sono in grado di trasportare il loro pubblico in dalle piccole strade di paese tra le viti e i sassi, fino ai suk delle città del Maghreb, o nelle piccole isole del Peloponneso così come sugli altopiani iranici. Sono i loro strumenti a permetterlo e il loro estro creativo che unisce la villotta, alla musica rebetika, a quelle arabo-andaluse fino alle nenie in Farsi.

Vediamoli allora più da vicino. Quello che sicuramente colpisce di più gli spettatori occidentali è il Santur di Fuad Ahmadvand; nel suo suono e nella sua forma riconosciamo qualcosa di ancestrale che fa si che la bizzarria di quei suoni di corde percosse dai Mezrab (bacchette) ci diventi subito familiare. Infatti, quello strumento è uno dei più diffusi e antichi non solo in Medio Oriente ma anche in tutta Europa. Ha come avo primordiale la cetra, ma come parente stretto il Salterio e gli Zither mitteleuropei ed infine è “l’antefatto” dello strumento a corde percosse più diffuso del mondo: il pianoforte. Le settantadue corde del Santur, che sono accordate all’unisono a gruppi di tre o quattro, regalano un effetto sonoro dolcissimo e polifonico che accarezza e racconta di mondi lontani che in realtà sono vicinissimi. Ahmadvand ha anche affascinato il pubblico colpendo la pelle del suo Daf, il grande tamburo persiano che nella parte interna della cornice ha molti anellini metallici collegati tra loro che contribuiscono alla particolarità del suono legato ad antiche cerimonie religiose e mistiche capaci di indurre stati d’estasi profonda e trance.

Mohammed Neffaa, dalla voce melodiosa e intensa che canta con voce piena di dramma e di passione, è un ottimo percussionista che fa spalancare le orecchie alle poliritmie del Maghreb che hanno il loro primo riferimento nel noto tamburo a calice Darabuka che nelle sue varie forme e accezioni è la vera anima del Nord Africa. Così com’è in grado di unire idealmente tutto il Mediterraneo, il Riq il tamburello a sonagli che possiamo in varie forme riconoscere nelle tarantelle dell’Italia meridionale come in Catalogna, nei Pirenei e nei Balcani. Assolutamente affascinanti i tipici suoni delle percussioni mediorientali che per divertente convenzione si riassumono nelle semplici onomatopee Dum, Tac, Slap, che si uniscono al suono smeraldino dei sonagli.

Paolo Forte immagina i suoi mondi attraverso il mantice di una fisarmonica a cromatiche che con il suono delle sue ance libere, racconta di tutti i popoli e le genti d’Europa nelle loro migrazioni e nei loro spostamenti, tra lacrime e felicità. Come si dice in questi casi: “Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al Baleno; scoppiò da Scilla al Tanai, dall’uno all’altro mar”. Ma si può dire tranquillamente ancora dai Balcani alla Cordigliera e dalla Furlana al Tango. Forte che ha anche un eloquio spiritoso e birbone, esprime con grande lirismo sensazioni che sanno di balli campestri, di focolari, di osterie e pomeriggi all’ombra delle frasche nell’incanto di un bicchiere di vino.

Renato Tapino, re dell’ancia semplice battente, con i suoi legni richiama quel tanto di dionisiaco che appartiene alle musiche del mondo che attraverso il soffio riconoscono la vibrazione che ha dato vita alle cose. E’ il vento che soffia tra le canne, sull’erba dei prati, sulle messi. Il suono del clarinetto, ancor più di quello degli ottoni, è in grado di riportarci indietro nel tempo, quasi ad uno stato di natura pastorale nella quale animali e uomini si muovevano sugli stessi percorsi e secondo le medesime prospettive. Tanto per ribadire il concetto, durante uno degli ultimi brani del concerto, Tapino ha intonato il suo discorso servendosi di una ciaramella, progenitore dell’oboe di origine arcaica, che deriva il suo nome dal greco antico Kàlamos (Canna). Pascoli scriveva in una sua poesia dedicata proprio a questi strumenti “Suono di chiesa, suono di chiostro, suono di casa, suono di culla, suono di mamma, suono del nostro passato pianger di nulla”. Siamo abituati a sentirne il richiamo soprattutto a Natale quando associata alla zampogna ne costruisce l’atmosfera. E’ un suono di festa e di ballo popolare che i quattro hanno inserito in un brano che, per l’appunto, coniuga davvero le distanze e le tradizioni e che non ha caso s’intitola: “Tarant-Iran”

Grazie a Safar Mazì e a Musica in Villa, Oriente ed Occidente si sono uniti ancora una volta nella gioia della musica, sull’aia di una splendida villa, al centro della pianura friulana. Non è la prima volta, non deve essere l’ultima. Vista la drammatica situazione a livello internazionale è il migliore auspicio di armonia e di pace.

Da La Repubblica del 21/08/2021: “Di fianco all’urna che contiene le sue ceneri una foto risalente a un anno fa, scattata in Normandia, in un luogo a lui caro. Sopra, dipinta di bianco su una parete blu, la frase: “I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi”, che tanto dice di Strada come uomo e come medico. Così si presenta la camera ardente di Gino Strada a Milano, allestita presso la sede di Casa Emergency, dove un fiume incessante di persone continua a scorrere per dare un ultimo saluto al fondatore di Emergency”.

Un altro mondo è possibile anche a cominciare dalla musica.

Flaviano Bosco © instArt

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