La scorsa settimana Trieste era a livello climatico l’esatto opposto del deserto californiano: pioggia battente, foschia e un freddo umido che ti entrava nelle ossa come forse solo nella Dublino de “The Dead” di James Joyce. Tutto molto suggestivo, ma certo ben distante dalle Highways americane dei truckers o delle bande di motociclisti satanisti dell’immaginario della più degenerata psichedelia.

Eppure forse non ci poteva essere un luogo migliore per un Festival di musica Stoner e Psych Rock. Infatti, la temperatura dentro il Teatro Miela era torrida come nelle peggiori fornaci e, se si chiudevano gli occhi, ci si poteva benissimo sentire proiettati in una dimensione del tutto alternativa alla nostra nella quale inquietudine e turbamento facevano rima con estasi e orgasmo.

I tanti turisti che affollavano la città di Svevo che si trovavano a passare davanti al prestigioso teatro potevano vedere la variegata fauna di rocker che, tra un’esibizione e l’altra, prendeva una boccata d’aria attraverso le sigarette rollate a mano, bevendosi una birretta e chiacchierando amabilmente prima di ributtarsi nelle Malebolge sonore di un’altra band.

Chi si fosse fatto più vicino avrebbe potuto vedere gli stessi musicisti che, tutt’altro che irraggiungibili, si godevano il divertimento in mezzo a tutti gli altri senza la barriera del palcoscenico.

Impagabile, in questo senso, Nick Oliveri, padre nobile del genere con il suo basso tonante e furioso e la sua fama di Maudit. Visto da vicino è, in realtà, una persona di squisita amabilità che cerca e incoraggia i propri fan in un dialogo serrato di amicizia e condivisione.

La formula del Festival con molte band che si susseguono con set brevi e violentissimi è ideale perchè il pubblico possa assaporare appieno il gusto aspro, secco e sabbioso dello Stoner, poco prima di farsi sanguinare le orecchie.

Di seguito si riportano alcune impressioni a caldo per ognuno dei gruppi che si sono esibiti, senza nessuna pretesa di completezza, ma solo a scopo di condividere quella gioia che solo la musica può dare.

Venerdì 03 maggio

TankZilla: Peter van Elderen (chitarra, voce) Marcin Hurkman (batteria)

Il primo gruppo ad esibirsi è stato un duo olandese di chitarra e batteria che pestava parecchio, in modo rozzo e violento, non poteva essere altrimenti. Mancava il basso che “frigge”, ma quasi non se ne sentiva la mancanza. La voce era buona e per le sei del pomeriggio può bastare. Parlare di un power duo sembra un’esagerazione eppure funziona egregiamente. Dicono che il loro nome deriva da una blasfema copula tra Satana e un carro armato e la loro musica suona proprio così come un sacrilego abominio tra acciaio e bestialità: “Satan fucked a Panzer and the offshot is TankZilla”.

Chi ha visto la saga cinematografica di Tetsuo di Shin’ya Tsukamoto capisce bene di cosa si sta parlando, per gli altri restano sempre i dvd.

1782: Marco Nieddu (chitarra, voce) Gabriele Fancellu (batteria, voce) Francesco Pintore (basso)

Già più dilatata, urticante, caotica e distorta la musica di questo trio sardo che ha il proprio baricentro nelle autentiche bordate della batteria. Il piglio è decisamente Doom, luciferino ed esoterico. Le tematiche e le suggestioni della loro musica in qualche caso sfiorano le oscurità del black metal più atmosferico e rarefatto, con l’ossessione per i processi stregoneschi ed inquisitoriali, ma di certo la base è genuinamente sabbathiana. Il sound è scuro, levigato e il live act potente, il lungo “rodaggio” nei tour internazionali come gruppo spalla dei veterani Ufomammut è servito a saldare i rapporti tra i musicisti che dimostrano in ogni momento di saperci fare trasportando gli spettatori in un’inquietante dimensione “altra” che intendono esplorare tra incudine e martello.

Witchthroath Serpent: Fredrik (chitarra, voce) Niko (batteria) Ugo (basso) Djé (chitarre)

Le atmosfere sono Doom e i ritmi sono quelli di un battipalo che ficca una trave in profondità o quelli di una schiacciasassi che gradualmente erode una montagna di granito. Le sensazioni sono forti di inesorabile livore. La strumentazione della band francese è all’altezza della situazione e perfino troppo raffinata per un genere che fa della distorta imprecisione e del sovraccarico degli amplificatori uno stile.

Grande headbanging per un sound frontale e monolitico. Introduzioni oniriche da incubo lisergico con voci purgatoriali come di prammatica.

L’estetica è quella degli horror della casa di produzione Hammer e della psichedelia più stracciona, esoterica, consunta, rovinata dal vento e dalla sabbia; frusta e allo stesso tempo tenebrosa e malsana.

Si evocano luoghi desolati, città fantasma nel deserto; intonaci screpolati e imposte che sbattono e cigolano nel western twilight in cui la vita può finire in una sanguinosa sparatoria tra carcasse di animali ai bordi di una strada polverosa.

Vera piacevolissima sorpresa, un suono massacrante e pericoloso fatto di fuoco e tenebre d’orrore muto. Decisamente Black Sabbath e metal i Serpente nella gola della strega sono due chitarre, basso e metalmeccanico alla batteria. Ritmi rallentati e vulcanici, voragini del cielo che si spalancano.

La danza del serpente è decisamente “mannara” per un culto siderurgico. La voce acuta ha un effetto eco, ipnotico e sciamanico. Il cugino Itt (Ugo) al basso, con tutti i capelli sulla faccia, suona un Rickenbacker 4003 proprio come quello di Lemmy Klimster e si sente.

Kadabra: Garrett Zanol (chitarra, voce) Ian Nelson (basso) Chase Howard (batteria)

Anche loro pericolosi come un serpente a sonagli, più classicamente psichedelici anche se colorati a tinte cupe e non meno letali, il power trio texano è ugualmente selvaggio e scaturito da un vulcano in eruzione con la forza di un terremoto. La batteria spesso sovrasta tutto con il rombo di un cataclisma di mazzate torcibudella davvero senza pietà. A poco valgono i riff di chitarra piuttosto articolati e taglienti. Il set è solido, maligno e indemoniato e si concedono anche suggestioni vagamente western e da danza indiana per il sanguinoso sacrificio del sole.

Mondo Generator: Nick Oliveri (basso, voce) Mike Pygmie (chitarre) Mike Amster (batteria)

Il suono della band del cane pazzo dello Stoner Oliveri è più secco, punkeggiante e definito. La voce di carta vetrata e le distorsioni sono meno caotiche. Il suono del basso è, a tratti, talmente elaborato da apparire hard-funk. I tre sono massicci e squadrati, laceranti ma dritti come un cazzotto in pieno viso. Il baricentro del gruppo è decisamente hard core militante e battagliero anche se i testi rudi e disimpegnati non gli corrispondono. Come dice in uno dei suoi brani Olivieri: Fuck you, I’m free. La musica del suo gruppo è liberatoria e offensiva, se ne frega di tutto e di tutti, vive al massimo e lascia vivere al minimo, come le vere leggende del rock. I miraggi del desert sound sono quasi un ricordo. La band morde, mastica, scalcia e sputa veleno come il più pericoloso dei rettili.

Oliveri fa fischiare il suo basso strusciandolo a volte contro l’amplificatore, un trucco vecchio come la storia del blues elettrico che però funziona sempre.

I tre esprimono un’energia incontenibile, tellurica e letteralmente stupefacente. I brani sono relativamente brevi e compatti, asciugati dalle tangenziali lisergiche e oniriche che hanno lasciato il posto ad uno scenario di cruda realtà ruvida come l’asfalto e brutale come una bestia idrofoba sotto il sole.

Il tour acustico (si fa per dire) di Oliveri ha toccato solo poco più di un mese fa la nostra Regione con un esplosivo concerto all’Astro club di Fontanafredda recensito da questa stessa rivista (A Wheel of Understanding 04/04/2024). Allora il musicista californiano, armato della sola sei corde acustica e della sua rabbia abrasiva aveva “asfaltato” il locale presenti compresi.

A Trieste la musica è cambiata ma non il suo fantastico effetto; a capo del suo trio ha dimostrato di essere un sovrano incontrastato del genere con un’energia e una classe fuori del comune. Nonostante calchi i palcoscenici del mondo da più di trent’anni con furia devastante, la sua creatività e il suo talento non mostrano per nulla la corda e anzi sembrano più freschi e inesauribili che mai.

Nel finale di set non poteva mancare una versione incandescente dell’iconica “Green Machine” dei Kyuss, con tanto di moshpit sotto il palco.

Oliveri a fine concerto si è smontato gli strumenti da solo, familiarizzando dentro e fuori il locale con il suo pubblico come una persona qualsiasi…uno di noi.

UfoMammut: Poia (chitarra, sintetizzatore) Urlo (basso, voce) Levre (batteria)

Sembra incredibile, ma i pachidermi alieni buoni ultimi chiudono la serata con un’esibizione ancora più intensa di tutti coloro che li hanno preceduti e di inaudita, implacabile violenza sonora.

“Nomen Omen”, la band ha la pesantezza di un essere colossale venuto da un altro pianeta quasi come il Micromegas di Voltaire “alto otto leghe, voglio dire ventiquattromila passi geometrici di cinque piedi ciascuno” solo molto più cattivo come sono i Grandi Antichi di Lovecraft, creature ciclopiche, empie divinità cui si offrono orrendi sacrifici come il Grande Cthulhu che dorme in un sonno più profondo della morte nelle remote profondità del cosmo (“Nella sua dimora di R’lyeh, il morto Cthulhu attende sognando”)

Anche in questo caso il basso Rickenbaker 4003 faceva la sua porca figura per un suono lento e inesorabile da catastrofe siderale in un bradisismo stellare che tutto inghiotte e tutto rivomita. Nell’immaginario che suscitano, interi mondi collidono in una dimensione dell’assurdo che fa urlare di un terrore muto.

I loro brani sono lunghi, estenuanti con infiniti intermezzi strumentali scolpiti da salmodie recitate a fior di labbra, blasfeme e sacrileghe di divinità dimenticate e culti misterici sepolti dal tempo e dalle sue ingiurie.

A fine serata l’atmosfera dentro al Miela era esausta, puzzolente, miasmatica e viziata proprio come si addice ad una sala da concerti per musica estrema e sludge. Quelle sonorità fanno la parte di Circe che trasforma chi l’ascolta in giocondi maiali che mai si sognerebbero di voler ritornare umani. In fondo, meglio maiali che fascisti come dice il Porco Rosso di Miyazaki.

Durissimo l’headbanging del bassista dalla lunga chioma argentata. Un trio davvero poderoso che prende alle viscere con brani molto estesi che sembrano una lunga suite fatta di minime variazioni su un tema dato.

La batteria devastante, sostenuta dal basso e dalla catena a cardano della chitarra con la voce urlata nel microfono trasforma tutto in un gigantesco rantolo di un impossibile animale, niente di più e niente di meno di un lamento oscuro e distante, uno straziante ululato sonico di inaudita ferocia che proviene da qualcosa che non siamo in grado nemmeno di nominare, che ci atterrisce con le sue tenebre oscene.

La prima serata di concerti del Festival si è chiusa così tra le urla e gli applausi del pubblico in completa estasi. La dose di musica psichica è stata ben oltre la modica quantità e il pubblico restituito alla notte era davvero stoned anche se non per gli incontentabili, gli ingordi e gli assuefatti per cui l’orgia sonora è continuata con un dj set di delizioso oltraggio sonoro.

Sabato 04 maggio

La seconda giornata del Festival ha riservato suoni meno lisergici e più massicci con qualche gradevolissima sorpresa, le band hanno privilegiato l’Heavy allo Psych con alcune derive Sludge, fangose e hardcore, un ottimo menù per una serata di atmosfere malate, disturbanti e ossessive.

E’ necessario legare la musica anche al contesto nel quale viene suonata per capire che non la si può considerare solamente come qualcosa di decorativo e in fondo inutile.

Come da vocabolario il termine gergale “Sludge” viene comunemente usato per indicare le sostanze di scarto derivate dal trattamento dei liquidi fognari, o comunque liquidi di lavorazione maleodoranti. Il termine viene usato per definire un genere musicale dai suoni luridi, sgraziati e sozzi come uno sputo in faccia ad una società che crede che con i deodoranti si possano risolvere il lerciume della corruzione e le lordure del potere.

A pochi passi dal teatro Miela dove si è tenuta la due giorni del Festival, mentre le teste dei rocker rotolavano sotto la sferza delle chitarre, la puzza di marcio della nostra società era ben avvertibile attorno a quell’autentico lager concentrazionario che è il Silos a fianco della stazione ferroviaria. Com’è tristemente noto, nel fatiscente enorme magazzino di granaglie vengono lasciati morire in condizioni sub umane i tanti migranti ed emarginati che l’opulenta città giuliana fa finta di non vedere.

Le quasi quattrocento persone che gravitano attorno a questo inferno degli ultimi non hanno accesso alla minima assistenza, dormono all’addiaccio senza servizi igienici o acqua corrente; mangiano e si vestono solamente per il grande sacrificio di alcuni volontari che rischiano perfino incriminazioni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

La prima cosa che si avverte avvicinandosi a quei dimenticati è il fortissimo odore di urina e di escrementi che sono costretti a fare all’aperto. Il fetore vero però, in realtà, non è il loro, ma è quello delle nostre anime in metastasi di indifferenti, molto sludge, che permettono che i propri fratelli migranti vivano in quelle condizioni mentre a pochi metri ci si diverte con la musica estrema o si gozzoviglia a bordo delle navi da crociera transatlantiche.

Buss: Patrick (chitarre) Ivan (batteria) Erik (basso)

Tre ragazzi italo-sloveni di buone speranze, ma con tanta polvere ancora da masticare. Il sound è un buon hard rock stradaiolo, deciso e acido, ma niente di più, si lasciano ascoltare e bluseggiano con gusto. Il livello è gradevole. L’attitudine è quella giusta, ma sono forse un po’ scolastici, devono darsi il tempo di sbagliare, se continuano così tra dieci anni saranno alla giusta frollatura.

The Clamps: Ben (chitarra Gibson SG, voce) Bely (basso Rickembakern) Marcy (batteria).

Identico il trio, medesima la strumentazione, ma il suono di questi bergamaschi è ben diverso, più adulto e compatto, decisamente Motörhead come ispirazione primaria, lo Stoner propriamente detto lo mettono in secondo piano, ma non c’è proprio da lamentarsi. I tre sanno bene il fatto loro. La voce è graffiante al giusto punto di cottura. L’esibizione è compatta e non indulge in onirismi psichedelici che non sono roba per i tre che si fanno notare per rozzezza, velocità, truker Hat regolamentare, insomma, come si diceva una volta; ”Tutta roba da camionisti” ed è una gran bella cosa.

Josiah: Mathew Bethancourt (chitarra, voce) DC Lockton (batteria) Jack Dickinson (basso) La band inglese sembra aver perso per strada l’eccezionale grinta degli inizi del millennio. La nuova line up propone dal vivo un Hard rock con velature dark piuttosto stanco, basato sul canto salmodiante del leader e sui suoi riff chitarristici stantii e ripetitivi. Il sound complessivo in realtà è buono, quella che manca è l’energia propulsiva e la necessaria cattiveria.

A volte alcune improvvisazioni come il solo di batteria sembrano solo dei riempitivi, un modo come un altro per arrivare alla fine del set. Anche se è sempre un bel sentire per gli appassionati, ai tre musicisti non basta riproporre il suono vintage fine a se stesso del classico power trio d’annata per cavarsela, tanto che sfiorano l’effetto cover band. Per fortuna in alcuni momenti, dimostrano di avere ancora parecchie cartucce da sparare, ma quando il batterista non si trattiene dal guardare il suo orologio da polso per capire quanto manca alla fine del set, gli spettatori più attenti capiscono che qualcosa non va e l’emozione svanisce di colpo. Insomma bene, ma non benissimo.

Mr.Bison: Matteo Barsacchi (chitarre, basso, synth) Matteo Sciocchetto (chitarre, basso, voce) Lorenzo Salvadori (batteria) Davide Salvadori (chitarre acustiche, Synth, Hammond, Mellotron, basso)

Il quartetto toscano aveva un approccio che, in alcuni momenti, ricordava quello dei pionieri Soundgarden con tastiere che giovavano all’originalità della resa complessiva di un sound più meditato e immaginativo sicuramente di marca floydiana rispetto alle altre band della serata. In alcuni accenni super robusto, in altri molto sixties, di certo sanno concedersi alla melodia e a momenti di sospensione. Hanno saputo essere durissimi senza perdere la tenerezza. Le intro psych fanno decisamente bene alla loro creatività che non ha mai il piede troppo pesante sull’acceleratore. Preferiscono trattenere l’energia per farla esplodere di colpo e poi imbrigliarla di nuovo, come una bestia veloce che morde il freno. Ultimo brano molto coinvolgente strumentale con una vocalità melodiosa e pienamente PsichProg.

Nightstalker: Argy Galiatstatos (voce) Andreas Lagios (basso) Tolis Motso (Chitarra) Dinos Roulos (batteria)

In Grecia si suona della gran musica e questa sulfurea band senza compromessi con il mercato più commerciale lo dimostra ampiamente da un sacco di anni (1989). Lo stagionato carismatico vocalist è a capo di una band grezza, massiccia, potente ed ha una gran voce. Il loro è un hard rock molto rude ai limiti del metal più classico dai suoni incandescenti e cingolati, lo si può chiamare stoner o in molti modi, ma come dicono loro “Who gives a shit”, la loro musica può benissimo fare a meno dei mesmerismi progressivi. Con i loro ritmi fanno vibrare le ossa dal coccige fino a risvegliare kundalini. La voce decisamente rimanda a quella dell’Ozzy Osborne di Paranoid o di Master of Reality. Il brano “I can’t sleep at night” riassume bene il loro stato d’animo che nascondono con l’aggressività.

Bongzilla: Mike “Muleboy” Makela (voce, basso) Jeff “Spanky” Schultz (chitarra) Mike “Magma” Henry (batteria)

Il gruppo più atteso della seconda serata, il “nome sul manifesto” come diceva Totò, le vere vedette. Da sempre fautori della cannabis, i tre “stoned” non si tirano indietro nemmeno sul palco, fumando a pieni polmoni mentre suonano, soffiando sul fuoco del Doom con zanne e artigli affilati.

I loro brani hanno titoli inequivocabili come: Ganja, Free the Weed, Smoke/I love Maryjane

La voce catarrosa e francamente sgradevole di Muleboy è solo per veri estimatori, per gli altri è del tutto indigeribile.

Due giorni indimenticabili, usciti dal teatro la realtà puzzava ancora degli escrementi dell’indifferenza e del pregiudizio, ma almeno si poteva gridare a pieni polmoni: F**k you! I’m Free!”

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©

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