In un afoso tardo pomeriggio d’estate chi penserebbe di rinchiudersi in un museo d’arte contemporanea a discutere di musica d’arte, invece, di rosolarsi al sole in una vicina località balneare? Chi sacrificherebbe il proprio bibitone dissetante con un posto in prima fila ad un “astruso” concerto di suoni in libertà? A Udin&Jazz è successo anche questo per il grande azzardo della direzione artistica e per l’indomita passione e curiosità degli appassionati che si sono prestati all’esplorazione di un territorio creativo non di certo inedito ma di sicuro inconsueto per una rassegna estiva. La scommessa in forma di proposta artistica è stata vinta a mani basse con grande successo di pubblico e un’esibizione dell’ispirato e metafisico duo De Mattia/Pacorig davvero eccellente e memorabile.
Sonosuono: Matteo Cimenti (scrittore) Anselmo Paolone (pedagogista) Damiano Cantone (filosofo) Massimo De Mattia (musicista) Giorgio Pacorig (musicista)
La prima parte dell’incontro è stata occupata dalla presentazione del romanzo “Sonosuono” dello scrittore per passione Matteo Cimenti che “ama praticare e sperimentare i linguaggi così come l’arte della vita”. Silvia Colle, che si è occupata per il festival di ideare e moderare le conversazioni e le riflessioni a margine dei concerti, ha introdotto l’incontro con alcuni interessanti incisi. I musicisti pensano delle forme astratte che scolpiscono nel tempo con i loro suoni, ma ci sono molte altre persone che scrivono, ricercano, parlano e (sperabilmente) ascoltano questo indecifrabile fenomeno che chiamiamo musica. E’ una vera e propria rete quella che si crea tra chi progetta, imbastisce e modella le sequenze sonore e chi le ascolta. Quest’ultimo, a propria volta, nel percepirle, le interpreta, rielabora costruendo così una comunità di relazione che accoglie, comprende, educa gettando ponti che collegano coscienze, esperienze, vissuti passati e futuri.
Cimenti, da persona curiosa e da musicista autodidatta, si è interrogato attraverso la scrittura del suo romanzo di formazione parzialmente autobiografico, su cosa vuol dire sperimentare e ricercare; che cosa lega creatività e talento? Perché non proviamo a riportare la discussione in ambito musicale e oltre non solo sulle tecniche e sul mercato ma sull’esperienza esistenziale di fare musica?
Naturalmente, tutti gli intervenuti alla conversazione erano ben consci che una risposta definitiva non è possibile e che per di più sarebbe insensato pretenderla. Porsi delle domande però è sempre un buon punto di partenza per continuare ad approssimarsi ad una questione che, con la sua sola presenza, ci impone e stimola ad interrogarci sempre e di nuovo. Se non ci sono risposte di verità perché quest’ultima è solo un’illusione necessaria, è sempre possibile porsi delle domande che stimolino la nostra attenzione e ci rendano critici e vigili rispetto al contesto esistenziale nel quale siamo inseriti.

Si parla tanto di musica, ma che cos’è? E’ certo possibile definirla dal punto di vista della cultura e dei suoi atti, da quello fisico con le varie teorie fonologiche, da quello sapienziale, sciamanico, liturgico e via di seguito. Molte di queste ipotesi hanno la loro radice nell’identificazione del suono come radice della musica. L’intuizione di Cimenti è che la musica ha certo a che vedere con la produzione e l’armonizzazione dei suoni, ma soprattutto con il loro ascolto sia come atto fisico cocleare, sia come predisposizione all’incontro con l’Altro e con l’esperienza del mondo.
La musica è suonare le cose così come la vita è “suonare” le esperienze, “To Bang Things” come dice Steward Copeland, l’ex batterista dei Police, visto sul palcoscenico di Udin&Jazz in un applaudito concerto, e non si riferisce solamente alle percussioni. Viene facile, in questo caso, pensare al fare “filosofia con il martello” del giovane Nietsche. Colpire i dati dell’esperienza significa farli risuonare per cercare di capire il loro contenuto e metterli in risonanza (correlazione) con il loro contesto. Per Cimenti sarebbe importante portare l’attenzione e l’attitudine all’ascolto nella vita quotidiana anche attraverso pratiche personali di meditazione di cui è esperto cultore.
Il prof. Paolone riporta la conversazione tra le pagine del romanzo che definisce un testo in equilibrio tra l’Hard boiled all’americana (Hammett, Chandler ecc) e il saggio filosofico, un genere a se che ha forse a che fare con Umberto Eco.
Come ne “Il nome della rosa” il giovane monaco Adso da Melk si faceva guidare dal proprio Magister Guglielmo da Baskerville così anche nella musica, per penetrare nella dimensione interiore dei suoni è a volte necessario affidarsi ad un mentore.
Egan, il giovane protagonista del romanzo di Cimenti trova attraverso un sito web un maestro che lo guida alla scoperta della dimensione interiore dei suoni, un altro livello di percezione e di pratica musicale.
Paolone da buon pedagogista ritiene che la musica sia un formidabile strumento educativo, come dargli torto?
La vera formazione per lui è quella estetica e artistica che è a propria volta una forma più raffinata di esperienza. Anche lui musicista autodidatta ritiene che sia la via più creativa di esplorare il continente della musica al di là della prigione degli schemi e dei metodi tradizionali.
E’ stato così per molta parte del Jazz delle origini che era fatto da una buona parte di illetterati e analfabeti che di teoria musicale non sapevano niente. Anche se, per la verità, anche questo è uno stereotipo piuttosto frusto per combattere il quale Amiri Baraka scrisse uno dei libri più importanti della storia sociale della musica, “Il popolo del Blues”. Paolone è stato molto efficace quando ha parlato in generale del jazz e delle jam session come momento d’ascolto, aggregazione, educazione anche come metafora esistenziale nella quale il mentore spesso è essenziale.
Il filosofo Damiano Cantone, finissimo retore, ha esordito con una “captatio benevolentiae” nei confronti del pubblico dicendo di essere sempre stato incapace di cantare per una totale mancanza d’orecchio musicale e anche di suonare per il suo maldestro rapporto con gli strumenti.
La “Deminutio” delle proprie qualità, vere o presunte, è sempre una cortesia nei confronti del proprio uditorio. Lo capisce bene, nel caso specifico, chi conosce la straordinaria preparazione di Cantone nell’ambito musicale, conclamata nella stesura di uno dei migliori testi mai pubblicati nel nostro paese sull’arte e il genio di David Bowie.
Non potendo percorrere la carriera di musicista, il filosofo decise per quella della critica e dell’estetica. Conscio che la musica e l’arte in generale ci pongono delle domande cui la filosofia non può rispondere, il filosofo sottolinea quanto isterico sia quel rapporto come del resto sostiene il filosofo francese Alain Badiou.
La filosofia è creazione di concetti ed è il contrario della creatività, la filosofia dice e non fa. Perciò molto spesso il discorso sulla musica finisce per sovrapporsi all’esperienza musicale sostituendosi all’arte. Cantone da buon ermeneuta tiene ben presente il testo del romanzo di Cimenti e, dopo aver sottolineato la sua natura di romanzo di formazione (Bildungsroman) ossia racconto di come uno diventa ciò che è, nota che in fondo alla narrazione l’autore ha inserito un interessante e insolito apparato di note ispirato al Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein.
Cimenti ha fornito un indizio importante per la soluzione dell’enigma che è contenuto nel suo romanzo e Cantone ha provato a darne conto citando uno dei punti salienti che riportiamo:
8.11 la musica è anche un linguaggio. Come linguaggio, non dice qualcosa in particolare, ma mostra il suo significato nell’interazione delle sue parti. Le sue parti elementari non sono le note, ma le proposizioni di suoni.”
Giustamente, sono stati chiamati in causa da Cimenti anche i due musicisti che si preparavano ad eseguire la loro performance.
Massimo De Mattia (flauto traverso) Giorgio Pacorig (pianoforte preparato)
Che differenza c’è tra l’intelligenza artificiale che può generare autonomamente brani musicali efficaci e l’improvvisazione di un artista? Qual è il senso profondo del fare musica?
Pacorig ha provato a rispondere significativamente dicendo che la vera improvvisazione non può essere simulata completamente perché, nel bene o nel male, corrisponde all’attimo in cui l’artista esprime la propria emozione e non può essere prevista dall’algoritmo.
A riprova di quanto affermato rivela De Mattia che durante le esibizioni non esistono scalette o spartiti, tutto viene fatto all’impronta in modo istantaneo, è l’incontro tra due personalità e sensibilità uniche e irripetibili.
E’ necessario dimenticare le regole lasciando che la musica improvvisata si faccia dialogo. E’ un comportamento, un atteggiamento che esorta a dimenticare anche noi stessi verso quell’altrove che è suono e dal quale siamo abitati, in una ricerca continua di quell’intervallo di silenzio che può dare un senso almeno apparente al caotico nulla nel quale siamo immersi. Nella riflessione sul tema è di grande aiuto “L’intervallo perduto” di Gillo Dorfles che ci esorta a recuperare o ad esplorare quegli “oceani di silenzio” di cui cantava anche Battiato.
Dopo una breve interruzione, per l’appunto, il duo ha iniziato la propria conversazione in musica, e si è avuto subito la sensazione della “presenza” del loro suono in quello spazio preciso e in quel momento. I primi suoni sembravano proprio prendere le misure degli spazi in cui la musica accadeva come Figaro nell’opera dedicatagli da Mozart: “Cinque… dieci..venti…trenta…trenta sei…quaranta tre”.
Certo non erano spazi di geometria euclidea definiti da una rigida tradizione culturale, erano parte di una dimensione nuova e misteriosa da esplorare, nella quale le prospettive modificano “fisicamente” le percezioni.
Si percepiva anche la volontà di andare oltre la mera avanguardia espressionista. Ogni volta questo tipo d’esperienza “suona e risuona” in modo diverso decontestualizzandosi, disperdendo e riaggregando significati. La musica diventa così esperienza performativa non solo per i musicisti, ma anche per il pubblico che si trova a doversi misurare con suoni che infine scopre appartenergli.
Il flauto di De Mattia fischiava a volte come una scudisciata, soffiava come un animale, arrotava i suoni mentre Pacorig lavorava sulla cordiera che sembrava quella delle vele di un bastimento piacevolmente senza nocchiero.
Sembrava quasi che la loro musica volesse sottendere ed indicare un fatto pre linguistico che risale alle epoche immemori precedenti alla codifica e all’agglutinarsi di un canone comunicativo linguistico unico.
La musica istantanea che producono sovverte la grammatica dei suoni e il loro essere determinati nel tempo, “raffina i sentimenti, trasgredisce i rituali” come cantavano i CCCP, tradisce le aspettative e diventa “gesto che danza”.
La loro musica non ha bisogno di essere “capita”, vuole essere guardata e “sentita”. Ognuno deve essere libero di poterla interpretare come preferisce oppure di lasciarla semplicemente “accadere” come un fenomeno atmosferico o astronomico del quale ci sforziamo di trovare una ragione o una logica, che in realtà non gli appartiene, ma che tacita, come un’innocua illusione, la nostra paura e il nostro timore di eterni fanciullini di fronte a ciò che non capiamo e perciò ci spaventa.
Quella dei due musicisti è stata una lunga suite che sembrava auto-generarsi, quasi una forma di meditazione collettiva. Un particolare non irrilevante è quello che l’esibizione di De Mattia e Pacorig ha avuto luogo in una delle sale del museo nella quale è ospitata la prestigiosa collezione d’arte contemporanea Astaldi. Il pianista suonava con alle spalle una Natura morta, olio su tela, di Giorgio Morandi del 1943 e il Flautista con una Natura morta con chitarra (tempera e lapis su cartone) del cubo-futurista Gino Severini del 1919 e “chi ha orecchie per intender intenda”.
Un ringraziamento particolare va rivolto a Euritmica che ha avuto l’intuizione di dare spazio ad una musica purtroppo non consueta che dovrebbe essere più presente nei nostri cartelloni, perché non è assolutamente vero che la musica d’arte, il free form, la musica istantanea e tutta la “contemporanea”, in generale, non interessano il pubblico, anzi è vero il contrario e Udine&Jazz l’ha dimostrato con il pieno successo dell’iniziativa a Casa Cavazzini, a differenza di certe eventi milionari di cui proprio in questi giorni si sta discutendo.

© Flaviano Bosco – instArt 2023

Share This