(Replica del 5/12/21) A poche ore dall’annuncio dell’insediamento del nuovo sopraintendente “senza stipendio” Giuliano Polo, nel golfo mistico del teatro Verdi di Trieste, il primo violino dava l’intonazione, gli orchestrali s’accordavano, il brusio in sala scemava al calare delle luci. Immediatamente una voce d’aeroporto faceva gli annunci di rito relativi alle precauzioni contro l’epidemia, anche quella dei maledetti smartphone.

A passi pesanti arrivava il corpulento direttore, perfettamente rossiniano, ed era subito l’oboe ad aprire le porte del meraviglioso labirinto nel quale si svolge l’intricata vicenda del conte D’Almaviva. Erano poi gli archi a ricordare l’aria più famosa, anzi celeberrima della storia della musica italiana. E’ l’ouverture de Il barbiere di Siviglia, non serve dire molto altro per evocare la bellezza di quel momento sospeso.

E’ una gioia assoluta, un piacere fisico, estatico vedere l’impegno degli orchestrali sulle “sudate” note; la loro forza e la loro energia sono tangibili e vibranti; ognuno di loro sa che senza gli altri sarebbe meno di niente ma che insieme sono molto di più che una somma di parti. L’orchestra è un organismo vivente, con le sue regole e le sue necessità. Si nutre soprattutto delle emozioni del pubblico.

“Piano, pianissimo” s’era già aperto il sipario e senz’altro indugio “piano pianissimo eccoci qua”. Nottetempo, una banda d’amorosi “congiurati”, s’armava di strumenti musicali per tendere l’agguato di una serenata ad una bella sconosciuta che esitava alla finestra del desiderio. Ecco che ridente, dopo le dolci note, spuntava in cielo la bella aurora; il conte cantava alla sua bella accompagnandosi con la chitarra, da sempre amica di ogni cuore pulsante sotto o dietro le imposte di una finestra che potrebbe aprirsi da un momento all’altro.

E’ stata decisamente splendida la messa in scena triestina del capolavoro rossiniano; di grande brillantezza è stata soprattutto la concertazione del direttore Francesco Quattrocchi con le indovinate scenografie di Massimo Luconi e i cantanti perfettamente in parte. Quando le cose funzionano bisogna saperlo ammettere lasciando da parte le solite critiche filologiche paludate che trasformano il teatro in accademia e l’opera in una pretesa, lunga teoria di tecnicismi vocali e orchestrali. Per fortuna la musica del genio di Pesaro è da sempre refrattaria ad ogni costrizione.

Il Barbiere di Siviglia, non serve quasi ribadirlo, è una delle opere liriche più celebri in assoluto, con le sue meravigliose arie e la sua incantevole ouverture entrate nella cultura italiana ed europea come elemento fondamentale. A dirla volgarmente, nella sua genesi è un’opera raccogliticcia, scritta in fretta e furia in quindici giorni (tra i tredici e i venti) per adempiere ad un obbligo contrattuale capestro in occasione del Carnevale romano. Rossini, come spesso faceva, saccheggiò il proprio repertorio cucendo insieme alla bell’e meglio le cose che gli sembravano più briose e divertenti, ben consapevole che il libretto era una sciocchezza e che l’intreccio non stava in piedi.

Come con grande autoironia si suggerisce nel primo atto:

Bartolo: Cos’è questa Inutil Precauzione?

Rosina: Oh, bella! E’ il titolo del nuovo dramma in musica.

Bartolo: Un dramma! Bella cosa! Sarà al solito un dramma semiserio; un lungo , malinconico, noioso, poetico strambotto. Barbaro gusto! Secolo corrotto!

L’opera, che debuttò il 29 febbraio 1816, è basata sulla prima parte della trilogia dedicata al personaggio di Figaro dal commediografo Pierre Augustin Caron de Beaumarchais dalla quale anche Mozart aveva tratto la sua opera. Nei decenni precedenti Il Barbiere era già stato messo in scena all’opera una decina di volte da vari autori; clamoroso era stato il successo di Paisiello al quale lo stesso Rossini chiese il benestare per una riscrittura.

Infatti, la prima romana al teatro di largo Argentina, anche per colpa della solita prezzolata claque di urlatori, fu un fiasco clamoroso e fragoroso, tutto fischi, pernacchie, ortaggi e gatti sulla scena. E anche se in seguito furono tutti trionfi, al compositore dispiacque tanto che scrisse alla propria madre amareggiato: “Ieri sera andò in scena la mia opera e fu solennemente fischiata o che pazzie che cose straordinarie si vedono in questo paese.”

Tutto questo non sminuisce proprio per niente il grande capolavoro che è il Barbiere di Siviglia anzi, lo rende ancora più miracoloso. Seppur scritto con la mano sinistra, è un assoluto continuo fuoco d’artificio in grado di ammaliare, divertire fino alle lacrime di compunzione anche lo spettatore più distratto.

Rossini è sempre forza tellurica, estro irrefrenabile, energia vitale, splendore e bagliore, la sua musica è gioia di vivere anche nelle cosiddette opere serie.

Chi ancora oggi distingue tra il Rossini divertito e giocondo delle opere buffe e quello tragico del melodramma più istituzionale, commette un errore di prospettiva clamoroso e ormai anacronistico. Alcuni critici ancora insistono su grevi pettegolezzi che meritano di essere riportati almeno per la grande fantasia che li sostiene; conservano un certo fascino dell’assurdo e un qualche barocchismo d’altri tempi.

Le fanfaluche che sono germinate sulla vicenda terrena di Rossini sono davvero fuori dall’ordinario e a loro modo esilaranti. Tra le più pervicaci e perfino surreali c’è quella sostenuta anche di recente dal televisivo direttore d’orchestra Ezio Bosso (R.I.P.) che racconta degli ultimi giorni di Mozart.

Il genio del “Flauto magico” avrebbe messo in scena la propria morte perché oberato dai debiti, scappando poi da Vienna per imbarcarsi a Trieste e raggiungere successivamente Pesaro dove sarebbe stato assunto come precettore del piccolo Gioacchino che educò alla musica.

Tutte le meravigliose opere che Rossini scrisse, da “Le cambiali del Matrimonio” fino al “Guglielmo Tell”, in realtà, gli sarebbero state suggerite dal suo segreto mentore Wolfgang Amadeus Mozart. Il brusco ritiro dalle scene di Rossini a 37 anni sarebbe coinciso con la “seconda” definitiva morte del suo maestro austriaco. I restanti quarant’anni fino alla propria morte il musicista li avrebbe passati tra gozzoviglie e rimpianti. Se non ci fosse da piangere sembrerebbe il soggetto per una sua opera buffa piena di sotterfugi e travestimenti, proprio come quelli del conte D’Almaviva. C’è da sorriderne sotto i baffi e per un “Barbiere di qualità” è tutto dire. Povero Mozart e poveri noi!

Ce n’è anche un’altra talmente implausibile da sembrare vera. L’anziano Rossini avrebbe raccontato al giovane Richard Wagner della sua visita al Maestro Beethoven di tanti anni prima. L’incontro sarebbe stato organizzato dal poeta italiano Carpani. Il genio tedesco era ormai in là con gli anni e completamente sordo. Come ben sappiamo dai suoi “Quaderni di conversazione” comunicava solamente attraverso una lavagnetta su cui scriveva risposte e considerazioni spesso sgarbate e brusche, come era nel suo carattere e nei suoi modi che, per usare un eufemismo, potremmo definire ruvidi.

Dopo aver lodato Il Barbiere di Siviglia, Beethoven avrebbe scritto: “Non cerchi di fare altro che opere buffe; scegliere un altro genere significherebbe forzare il suo destino… le sue opere serie “Otello” e “Mosè” non vanno. Gli italiani possono fare soltanto opere buffe… In quel Paese l’Opera seria non può andare …. Rossini insista sul modello del “Barbiere”…

Povero Beethoven e poveri noi!

Una piccola analisi dei personaggi de Il barbiere di Siviglia può farci capire facilmente quanto, in realtà, sia complessa l’opera e quanti e quali sottintesi nasconda.

Cominciamo col chiederci chi sia il vero protagonista dell’opera. La risposta sembrerebbe semplice, basta pensare al titolo, ma niente è mai semplice come appare. Infatti, il primo titolo fu “ Almaviva, o sia l’inutile precauzione” chiamando in causa una misteriosa opera che abbiamo già citato e uno snodo narrativo del secondo atto nel quale una scala viene spostata per impedire inutilmente il matrimonio segreto della coppia d’innamorati che infine vengono ugualmente congiunti.

Figaro, a Trieste lo spumeggiante Mario Cassi, nell’intreccio può risultare perfino un personaggio di secondo piano. E’ il barbiere più noto e tuttofare della città, uno che non si occupa solo di barba e capelli ma, a pagamento, pratica anche salassi, purghe, probabilmente anche una rudimentale odontoiatria e poi di certo può procurare l’oppio e il tabacco da fiuto (“A forza d’oppio, sangue, stranutiglia…Ecci! Ancora dura. Quel tabacco mi ha posto in sepoltura”). La sua occupazione maggiore però sembra essere quella di pronubo e di mezzano; pagato in moneta sonante è disposto a favorire truffe, raggiri e adulteri. Insomma, “Io son barbiere, perucchier, chirurgo, botanico, spezial, veterinario, faccendier di casa” ma il suo programma di massima resta sempre “Faticar poco, divertirsi assai, e in tasca sempre avere qualche dobblone”.

Antonino Siragusa ha dato vita ad un vibrante Conte D’Almaviva che sembrerebbe l’assoluto protagonista, al centro dell’azione, attore principale della vicenda, quello attorno al quale girano tutti gli eventi che infine lo vedono trionfare. Se lo osserviamo con attenzione, però, ci accorgiamo che è un personaggio autoparodistico che si lascia trascinare dalle sue smanie in infiniti travestimenti, pronto a qualunque scelleratezza per soddisfare i suoi desideri.

L’inganno, il tradimento, il sotterfugio non gli sono estranei e il suo ritratto è tutt’altro che nobile. E anche se alcuni versi a lui affidati nel finale sono suonati giustamente rivoluzionari: “E tu, infelice vittima d’un reo poter tiranno, sottratta al giogo barbaro, cangia in piacer l’affanno e al fianco a un fido sposo gioisci in libertà”, nel complesso rimane una figura piuttosto ambigua. Si vede in lui giovane il Don Bartolo che sarà da vecchio.

Quest’ultimo, gradevolissimo Fabio Previati perfettamente in parte, che a tratti appare sgradevole, soggiogato tra avidità e vizio senile, ha una lunga tradizione letteraria dietro le spalle e potrebbe essere benissimo associato al Nicomaco della Clizia di Machiavelli ma anche al Nicia della Mandragola e poi ancora a tanti personaggi di vecchi Zanni scriteriati della Commedia dell’arte, fino agli avari e malati immaginari di Molière o ancora al Pantalone di Goldoni. Anche Don Bartolo ha comportamenti talmente ridicoli che muove a compassione. “Il vecchiotto cerca moglie, vuol marito la ragazza; quello freme, questa è pazza. Tutti e due son da legar. Ma che cos’è questo amore che fa tutti delirar?”

Anche la bella e contesa Rosina, frizzante e affascinante nella sua incarnazione della bravissima Paola Gardina, rappresenta un baricentro ideale di tutto quello che accade; in fondo è lei l’oggetto del desiderio, la preda che i cacciatori si contendono ma non è per nulla passiva. Non è per nulla una bambolina senza volontà, strattonata a destra e a manca dai propri pretendenti.

E’ al contrario, una ragazza perfettamente consapevole del proprio fascino, dei propri desideri, della bruciante passione e perfino dei propri limiti.

In alcuni scambi con Figaro, per esempio, si lascia intendere che non è molto sveglia e che alcune cose le appaiono troppo complicate e faticose da comprendere. Nonostante questo sa bene quello che vuole e come ottenerlo ed è disposta a rischiare il tutto per tutto. Come recita la sua fantastica aria: “Io son docile, son rispettosa, sono obbediente, dolce, amorosa; mi lascio reggere, mi fo guidar. Ma se mi toccano qua nel mio debole sarò una vipera, e cento trappole, prima di cedere farò giocar. Sì, sì, la vincerò”.

L’interpretazione vocale e attoriale della splendida Gardina lo ha sottolineato perfino più fortemente della partitura e del libretto; il suo ammiccare, i suoi sorrisi, le allusioni l’hanno resa una Rosina deliziosa e giustamente capricciosa e volubile: “Oh, bella assai! Eccovi il suo ritratto in due parole: grassotta, genialotta, capello nero, guancia porporina, occhio che parla mano che innamora.”

Appare un po’ in secondo piano, nella versione del Verdi, l’intrigante Don Basilio/Guido Loconsolo che affronta con grande slancio e competenza il “venticello della calunnia” dal sussurro fino ai colpi di cannone, ma finisce su un’improbabile sedia a rotelle con tanto di mascherina ffp2 perfettamente calzata a coprire naso e bocca per evitare l’epidemia che in quel caso è scarlattina. In fondo, una trovata scenica divertente e attuale ma, sinceramente e senza voler polemizzare, di protocolli di sicurezza, mascherine e affini anche sul palcoscenico non se ne può proprio più.

Tutto sommato, il minimo che si può dire è che il Barbiere di Siviglia è un’opera policentrica che, soprattutto nel primo atto, non sembra quasi avere una direzione precisa. “E il cervello poverello, già stordito, sbalordito, non ragiona, si confonde, si riduce ad impazzar”. Il vero protagonista dell’opera è il teatro nell’accezione più larga del termine; è una celebrazione della magia che si compie tra il boccascena, l’orchestra, i cantanti e il pubblico; è un’epifania della musica nella sua essenza. Il Barbiere di Siviglia era per Arthur Schopenhauer: “Una medicina irresistibile, serenatrice e obliosa”, Friedrich Hegel lo considerava “più attraente di quello delle Nozze mozartiane” e loro, di certo, di essenza, rappresentazione e di assoluto se ne intendevano davvero.

Tanti applausi a scena aperta al Verdi e uno lungo, ininterrotto, caloroso battimano nel finale. Successo pienamente meritato.

Usciti dal teatro, passeggiando verso piazza Unità d’Italia, la più bella del mondo, incalzati dal sostenuto, gelido borino serale, tornavano in mente le gastronomiche parole del maestro di Pesaro che ci servono come degna conclusione:

«Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne».

Flaviano Bosco © instArt

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