Come dice il poeta di Asti “E’ passato del tempo ormai (ma) io ce l’ho nel sangue ancor”, l’eco e il rimbombo delle artiglierie del concerto dei Death metal masters, i polacchi Vader che hanno aperto la stagione invernale del Revolver Club, non si sono per nulla ancora dissolte ed è giunto il momento di darne conto.

Prima di recensire l’evento, a quei pochi che non avessero capito il senso di certa musica estrema nel nostro tempo, si vuole proporre una piccola riflessione tutt’altro che accademica e moralistica, ma sicuramente schierata e partigiana.

Gli abissi infernali di una spaventosa carneficina si sono di nuovo spalancati in quella terra che continuiamo a chiamare Santa mentre la bestemmiamo con la nostra indifferenza colpevole. Non ci sono parole sufficienti per esprimere gli abomini di Palestina ed è illusorio e ipocrita schierarsi, l’infamia della guerra va condannata ed esecrata comunque, soprattutto se si presenta sotto le sembianze del genocidio e della vendetta sommaria mascherata da legittima difesa.

Certo le responsabilità risultano sempre evidenti a chi vuole giustificare l’atrocità da una parte o dall’altra, ma la logica del massacro e dell’abominazione non possono mai trovare alcuna giustificazione.

Per provare a descrivere l’orrore di questi giorni, che si ripetono ciclicamente da ben oltre quarant’anni, ci aiuta forse proprio un genere musicale come quello che si è potuto ascoltare durante la sulfurea serata nel locale del veneziano. L’evento faceva parte del breve tour italiano che celebrava i quarant’anni di una delle band più devastanti del panorama death metal di sempre.

I Vader da Olsztyn nel voivodato polacco della Varmia-Masuria, capitanati da quattro decadi dall’inossidabile chitarrista Piotr Wiwczarek, seppur con molti cambi di formazione, continuano senza il minimo cedimento dal punto di vista musicale, a convincere il pubblico di appassionati di tutto il mondo con il loro sound massiccio e siderurgico.

Il stile del tutto originale li distingue da sempre dal resto della scena della musica estrema per un approccio più vicino alla tradizione trash che li assimila ai fasti di gruppi seminali come Slayer e Sepultura.

In tutti questi anni il progetto è sempre rimasto saldamente nelle mani e nella creatività di Wiwczarek detto “Peter il fabbro”, membro fondatore e voce tonante della band, che dal vivo dimostra ancora un’aggressività e una forza magnetica da vero leader e instancabile performer.

Dopo ben quindici album in studio e migliaia di concerti, la band è ancora la perfetta espressione della sua inesauribile creatività. E’ lui il potentissimo, malvagio Dart Fener (Darth Vader) dal quale la band prende il nome.

Il Death Metal nasce negli Stati Uniti a partire dagli anni ’80 con le sue ritmiche veloci, i cambi di tempo improvvisi e brutali, i testi morbosi, le chitarre distorte, ossessive con tonalità a volte rallentate e pesanti; il Growl e lo scream vocali spesso alternati grondano sempre violenza e aggressività. Negli ultimi anni sull’onda del nuovo interesse per il Black Metal tutta la scena della musica estrema sembra aver ripreso ad ardere con grande vigore.

La sera del concerto le “fiamme” che si vedevano da lontano avevano fatto adunare ancora una volta le genti del popolo dell’abisso nello storico locale di San Donà; tutti invariabilmente con la classica divisa d’ordinanza di adepti del metallo nero: magliette rigorosamente nere con i più lugubri simboli esoterici, anfibi ai piedi, jeans aderenti, capelli lunghi e barbe da vichinghi, tutto come quarant’anni fa, non è cambiato niente a parte la calvizie di qualcuno e le pance da birra d’ordinanza di qualcun altro. Si fa per scherzare, naturalmente.

Il metal non sembra invecchiato di un giorno soprattutto perchè ai concerti si vedono moltissimi giovani sotto i trent’anni e il genere continua ad acquisire sempre nuovi fan tra i giovanissimi.

La maggiore novità nel pubblico rispetto all’esordio dei Vader è la presenza di molte metalheads femminili; se negli anni ’80 l’heavy metal, in generale, era una “Dudes thing” oggi, anche se la sproporzione rimane, i fan più scatenati sono decisamente le donne e francamente lo spettacolo e il colpo d’occhio ci guadagnano parecchio.

Aetherian: Panos Leakos (voce) Angelos Maniatakos (chitarra) Kostas Mexis (basso) Nikos Parotidis (batteria)

Partono epici e solenni, gli opliti del Melodic Death Metal greco, tecnicamente molto dotati con un ottimo blast e inevitabile doppia cassa di una batteria micidiale, il growl è profondo e grave. L’atteggiamento è come di prammatica aggressivo, ma si nota una sostanziale differenza con quello tipico dei Blackster. Tra un brano e l’altro ci sono degli stacchi e i brani hanno uno sviluppo più scandito, vengono introdotti, presentano riff articolati e hanno una precisa conclusione per un impatto sonoro ben diverso da quello dell’impenetrabile muro di suono del Black metal. L’headbanging non ha fatto per nulla il proprio tempo ed è ancora piacevole da vedere e da fare sia tra il pubblico che sul palcoscenico.

Assolo ben fatti e danze attorno al fuoco sotto una luna di sangue. Molto poco satanismo spicciolo e tanta energia da vendere. Davvero una bella scoperta, non suonano per nulla come un gruppo spalla tanto per scaldare l’atmosfera, hanno già il piglio, la professionalità e la bravura da leader.

Skaphos: Théo Langlois (basso) Paul Sordet (batteria) Stéphan Petitjean (voce, chitarra) Jérémy Tronyo (chitarra)

La Francia è sempre stata rivoluzionaria e innovatrice in campo musicale e lo è ancora. Il gruppo transalpino si presenta con tanto di face painting e ammennicoli marinareschi sul palco trasformato nel veliero maledetto dell’olandese volante, con reti, corde, pesci mostruosi dei fondali, mascelle di squalo, lanterne, campane di quarantena, “notti e nebbie”, in pieno stile Coleridge “The Rime of the Ancient Mariner”.

L’introduzione della performance è una lugubre pioggerella sul mare che si trasforma in un battito di ciglia in una violentissima tempesta. Nella tenebra del lontano esplodono in un Abyssal Black Death Metal brutale come un rigurgito del mare che vomita naufragi dalle più oscure profondità abissali.

Esprimono suoni da deserti luoghi che fanno tremare perfino il Signore di questo mondo, Satana che nulla può contro Poseidone. La voce è un rantolo, un gorgoglio indistinguibile, un grido che la tempesta marina porta con se; è un gelido terrore in un deserto d’acque, la desolazione più nera e disperata; dalla nebbia impenetrabile del palco emergono le figure spettrali dei musicisti.

E’ letteralmente un marasma sonoro che non concede nulla al pubblico se non scudisciate, colpi di sferza e di staffile; è tutto un incubo di relitti, un mugolio, un orrore verminoso di fasciame marcito e salso; è la solitudine inanimata di cui Carpenter racconta nel suo “Fog” (Usa 1980) o quella della serie tv “The Terror” (Usa 2018) sulla spedizione di Franklin alla scoperta del mitico passaggio a nord-ovest tra il circolo polare artico e l’orrore.

Gli Skaphos, per restare al mondo del cinema, hanno prodotto e sonorizzato un ottimo cortometraggio vagamente ispirato alle tematiche espressioniste: “La litanie des flots” scritto e diretto da Jeremy Tronyo (Fr 2022).

Il set non è una serie di brani, ma una suite di modulazioni sonore di inaudita, insensata ferocia, portati da una putrida, infetta marea.

La loro è la tragica nave dei folli che trasporta la bara di Nosferatu, colui che non può morire.

Portati dai rintocchi di una campana di segnalazione e da inquietanti arpeggi che non promettono nulla di buono, com’erano venuti d’un tratto se ne sono andati, lasciando il pubblico sconcertato e deliziato dall’inumana, disanimata, crudele efferatezza dei fondali.

Vomitory: Erik Rundqvist (basso, voce) Urban Gustafsson (chitarra) Tobias Gustafsonn (batteria) Peter Östlund (chitarra).

Dopo un rapido soundcheck, un’introduzione marziale ha innescato un’esplosione di furore sadico. I Death metallers svedesi violenti e sanguinolenti, implacabili e muscolari, non risparmiano nulla e nessuno. Il loro è un vortice sonoro di rabbia e vendetta, non suonano, forgiano e martellano sull’incudine lame che squarciano e lacerano, non a caso il loro ultimo lavoro s’intitola: “All Heads are Gonna Roll” e al Revolver Club di teste ne sono rotolate moltissime.

Nel rispetto dell’assunto “dalla Svezia con furore” il suono risulta impastato e compatto, il pogo tra il pubblico è sempre assicurato, qualche scalmanato sotto il palco a petto nudo ostenta anche una bandiera crociata blu e gialla del re Giovanni III Vasa.

I Vomitory sono dei culturisti prestati alla musica con braccia strappate alla siderurgia, ma che hanno un gran fascino distruttivo. Eseguono anche pezzi nuovi ancora per così dire in lavorazione che però nemmeno un orecchio assoluto sarebbe capace di distinguere dagli altri, ma non importa, non è quello il punto.

Il loro concerto non si è tenuto in una sala dell’antico conservatorio Benedetto Marcello nel sestriere di San Marco a Venezia, ma nella squallida provincia, tutta cappannoni e centri commerciali, in un locale nel quale si officiano i misteri e le liturgie del metallo.

Non era una serata elegante, ma puro marasma e così deve essere, soprattutto in tempi di vera e propria tregenda come i nostri è questo che ci si aspetta da loro.

Nell’ispirazione dei Vomitory non ci sono diavoloni e streghette, ma solo cazzotti, schiacciasassi e lame affilate a forma di chitarra; si suda e si salta, non è musica per farsi troppe domande e nemmeno per ottenere immeritate risposte di sorta. Basta ascoltare uno dei gioiellini dell’ultimo album dall’inequivocabile titolo di: “Raped, Strangled, Sodomized, Dead” per essere semplicemente contenti di essere sopravvissuto al massacro.

Vader: Marek “Spider” Pajak (chitarra) Piotr Wiwczarek (chitarra, voce) Hal (basso) James (batteria)

Naturalmente, “In cauda venenum” e dopo tre concerti tutt’altro che semplicemente introduttivi, sono saliti sul palco i veri eroi della serata. E’ con “Morbid Reich” del 1990 che cominciò la devastante battaglia discografica dei Vader che non vede ancora né tregua, né armistizio possibile, lo ha detto il fantastico Peter dal palco sferrando un altro attacco durissimo insieme ai suoi guerrieri; e allora “daghe” di granitiche mazzate che non erano fatte di rime e accordi ma autentiche sassate. I Vader non sono più di certo i ragazzini di tanti anni fa, ma il carburante non l’hanno per nulla esaurito.

E’ nel 1992 a quasi dieci anni dall’esordio che arrivarono ad incidere il loro primo album full length, quei brani riproposti oggi non sono per nulla invecchiati e anzi suonano ancora più inferociti anche perchè sparati ad una velocità ancora più folle; Peter è, infatti, un chitarrista piuttosto capace in grado di confezionare sempre velocissimi e incisivi riff.

Il set è continuato passando in rassegna tutta la lunga fiammeggiante carriera della band come una corona di spine intrecciata di brani da quasi tutti gli album, in un crescendo tellurico impressionante e incontenibile, un vero e proprio bombardamento di artiglieria pesante che ha definitivamente spazzato via ciò che gli altri gruppi avevano già bersagliato.

Finale tra grandi applausi sudati in un’atmosfera torrida e festosa sulle note di John Williams dal tema di Dart Father di Guerre stellari. “My the Force be With you!!!”

© Flaviano Bosco – instArt 2023

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