Prevedibile, debordante e scontato il grande successo del concerto di Edoardo D’Erme, classe 1989, in arte Calcutta al 59° Festival di Majano. Migliaia di giovani e giovanissimi osannanti e in estasi hanno tributato al loro idolo un tributo e una venerazione davvero sorprendenti, testimoniato anche dalla gran quantità di pioggia che avevano preso stoicamente in precedenza, quando, per le avverse condizioni del tempo, il concerto era stato rimandato. Dalla selva dei telefonini alzati sopra le teste per riprendere e messaggiare in diretta su chissà quale piattaforma, si è alzato un continuo, ininterrotto coro che ha accompagnato ogni singolo brano. Le buone nuove terminano qui, i fan di Calcutta o chi è facilmente impressionabile farebbero meglio a non continuare la lettura per non farsi il sangue amaro.

La serata era stata introdotta dall’esibizione sul palco di Piazza Italia delle Strange Kind of Women, una cover band al femminile dei Deep Purple, composta da ragazze selvagge tutta grinta e rock’n’roll. Capitanate dalla splendida chitarrista Eliana Cargnelutti, le giovani ottime musiciste, viste in regione in molte altre occasioni, garantiscono sempre un gran livello di energia e divertimento: “I love it and I need it, I bleed it…”

Il concerto di Calcutta sul Main Stage del Festival è stato aperto dal giovanissimo Bartolini, praticamente un clone del artist leader con le sue canzoni zuccherose e melense da coma diabetico e da delirio in social Network: Ti metto un like o mi dimenticherò, mi dimenticherò che esisto”. Naturalmente anche lui è piaciuto molto ad un pubblico ancora troppo giovane per preoccuparsi dei picchi glicemici.

Lo spettacolo ha regalato né più né meno di quello che tutti i presenti si aspettavano: le hit e i tormentoni che hanno dato il successo al cantante prima di tutto sui vari social media. Sono stati eseguiti quasi integralmente e in modo filologicamente pedissequo, i due album (Mainstream, Evergreen) cui deve la propria fama più un paio di brani dal primo album. Il concerto non è altro che una raccolta di Greatest Hits ed è singolare per uno che ha all’attivo tre album e una manciata di collaborazioni. Nessun nuovo arrangiamento a parte l’inserimento di quattro coriste che non sfiguravano da nessun punto di vista.

Il primissimo repertorio chitarra e voce, quasi completamente escluso dal concerto, a chi abbia l’età giusta, ricorda molto le canzoni da oratorio anzi hanno la stessa forza eversiva di quelle da Compagnucci della parrocchietta del personaggio che lanciò Alberto Sordi nel 1951. Il giovane pubblico di certo non poteva accorgersene (Ti guardo da lontano e penso che somigli proprio a Enrico, un mio amico, un mio amico)

Gli album successivi, dal punto di vista strettamente musicale sono papponi predigeriti del peggior Lucio Battisti, Ivan Graziani, Alberto Fortis e molti altri e sia detto con tutto il rispetto per quei grandi artisti. Nella famosa canzone Paracetamolo c’è perfino un rimando alla canzone Sparring Partner di Paolo Conte. Ma anche di questo i suoi fans non sono in grado di tener conto.

Unico momento insolito e divertente, si fa per dire, è stato la canzone cantata dall’ospite, Marco Ziliani il cui ritornello è Vieni anche tu al bar Franca, dove si beve e si balla, A Natale mi faccio una balla che lo sai che poi torno da te, non c’è bisogno di commentare oltre.

Quelle cantate da Calcutta, convalescente ma molto professionale sul palco per una recente operazione alla mano destra, sono istantanee di vita quotidiana, fermo-immagine random di vita vissuta spesso scollegati tra loro; i suoi testi non vogliono dire proprio niente oltre quello che mostrano. Non hanno bisogno di alcuna interpretazione. Sono una serie di banalità e piccoli momenti di vita vissuta in cui tutti ci possiamo riconoscere senza sforzo, non serve riflettere o pensarci su, la condivisione è immediata. Proprio per questo le sue canzoni hanno tanta presa sui ragazzi e anche su qualche mamma. Parlano di desideri minimi, una volta si sarebbe detto piccolo borghesi (Preferirei perderti nel bosco che per un posto fisso) sentimenti infantili, anzi puerili e adolescenti, momenti di noia e ragazze viste sul treno, e ancora nomi di stazioni ferroviarie o della metropolitana (Milano Dateo), giochi sulla spiaggia da bambini (Barche), amorazzi prepuberali e di bibitoni nella calura estiva (Limonata) fino ai meschini ardori ormonali della prima giovane età (Tutte le strade mi guidano alle tue mutande) A questo proposito, visto che siamo in stagione di Decreti sicurezza, una buona idea sarebbe quella di proibire la sua musica e i suoi concerti ai maggiori di 18 anni, così da evitare tante incomprensioni, dissapori e ubbie.

Il linguaggio che utilizza è davvero basilare e, in qualche occasione, perfino misero ed è basato sul minimo dei vocaboli disponibili all’italiano medio; il termine più ricercato di tutta la sua produzione è “pungicare” che però per lui non sembra essere un arcaismo della lingua italiana presente anche nelle commedie goldoniane, ma solamente una comune forma dialettale del romanesco (Kiwi). Per quanto riguarda le occasionali scurrilità sono talmente innocue che non fanno tremare il sottanino nemmeno alle beghine in età geriatrica.

Il suo orizzonte narrativo di riferimento sono indubbiamente le trasmissioni televisive più popolari della sua infanzia di fine anni ‘90. Infatti, cita tra l’altro Raffaella Carrà (Nuda, nudissima) Raimondo e Sandra (Dal Verde) dedica un’intera canzone ai programmi d’intrattenimento Rai, ecc. Per giunta, non lo fa con ironia o per una qualche forma di critica sociale, temi per altro completamente assenti nella sua poetica, quello è proprio il suo mondo.

Il suo immaginario sembra essersi bloccato a quelle domeniche pomeriggio nel salotto di casa, quando a undici anni se ne stava tutto solo davanti alla tv. Potrebbe essere perfino un punto di vista interessante se fosse sostenuto da un minimo di spirito d’osservazione o se fosse ispirato da un tanto d’analisi interiore, ma sfortunatamente non c’è niente di tutto questo.

Ad un primo ascolto sembra non dire niente ma poi facendo un po’ più d’attenzione appare chiaro che non ha proprio niente da dire. A differenza di tanti altri della scena Indie come Vasco Brondi, Willie Peyote, Murubutu, Claver Gold, Rancore, Ernia, Tedua e poi gruppi come Ex-Otago, Eugenio in Via Di Gioia, Dunk, per non parlare di coloro che incidono per l’etichetta La tempesta e tanti altri, Edoardo D’Erme non sembra ancora aver sviluppato una propria gastronomia delle idee che vuole esprimere si limita ad aprire il frigorifero e a mangiare quello che trova (Mangio il buio con il pesto, non mi piace ma lo mangio lo stesso)

I suoi versi sono composti di frasi che sembrano prese da post su Facebook o dalle citazioni fuori contesto dei meme buoni per tutti i palati. Le storie di cui parla sono di plastica come quelle pubblicate su Instagram che spiamo credendo, a volte, di partecipare davvero a quelle vite che non ci appartengono minimamente. Anche questo potrebbe essere un tema molto affascinante e ricco di risvolti narrativi, il fatto è che l’autore non ne prende minimamente le distanze e ci crede o finge di crederci. Durante lo spettacolo, un grande schermo mandava immagini e storie dal suo profilo Instagram e da quello di suoi amici, nel finale ha perfino ripreso il pubblico con una piccola telecamera per poi presentare i propri musicisti in video.

Calcutta non ha niente da dire di assolutamente importante e non se ne cura, i suoi testi, vuoti di significato, sono paradossalmente pieni di sensazioni minime e fin troppo elementari. Ogni adolescente vi si può riconoscere, come dicevamo. La condizione emozionale che suggerisce o a cui allude è uno stato emozionale di una banalità assoluta espresso attraverso un innocuo pastone omogeneizzato di versi e musica che non suonano affatto nuovi ma che si rifanno molto spesso al pop italiano d’annata.

Molti, infatti, lo hanno accostato per ispirazione perfino al cantautorato italiano degli anni ‘70 ed è parzialmente vero se però lo si considera dal punto di vista del disimpegno e del riflusso del decennio seguente e delle rimasticature che se ne fecero nell’era delle tv private. Il suo primo riferimento, in questo senso, sembrano piuttosto essere i cabarettisti che al Maurizio CostanzoShow con la loro chitarrina storpiavano le canzoni più note per satireggiare su questo e quello stando bene attenti a non irritare nessuno. L’ultimo erede di questa fortunatissima tradizione musicale è Checco Zalone che con le hit degli altri, rivedute e corrette ci ha costruito un impero di grasse risate televisive e cinematografiche. Con Calcutta non ci si distanzia troppo da questo modello che ormai va per la maggiore, solo che con lui si ride molto meno.

Il suo modo di fare apparentemente stravagante e anticonformista è esattamente il contrario di ciò che sembra. Il far finta di non concedersi allo show business è assolutamente di maniera (mi si nota di più se vengo o se non vengo alla festa). Per sua stessa ammissione, uno dei suoi più grandi desideri realizzati è stato quando Linus di Radio DJ ha messo in rotazione un suo brano, alla faccia della musica indipendente.

Sempre per rimanere ai testi, i suoi non sensi, i giochi di parole potrebbero avere tutta la flagranza della vita stessa compresa la sua insensatezza e l’agra dolcezza di certi istanti in cui rimaniamo come sospesi senza poter pensare e nemmeno fare alcunchè. Se solo ci fosse un minimo di consapevolezza da parte dell’autore, il verso “Mangio la pizza e sono il solo sveglio in tutta la città” della canzone Frosinone potrebbe essere poeticamente accostato ai Sandwiches di realtà di cui si volevano nutrire i Beat di Allen Ginsberg.

A qualcuno sarà perfino venuto in mente un paragone con quello che faceva Michelangelo Antonioni che attraverso l’occhio della sua macchina da presa, al contrario degli altri cineasti, non voleva cogliere l’azione nel momento in cui si compie ma gli istanti d’inerzia tra una cosa e l’altra, gli interstizi del tempo e dello spazio tra un momento vitale e il successivo, tra ogni respiro. È pur vero che delle persone molto spesso ci rimangono impressi i particolari più irrilevanti e incongrui e all’apparenza inessenziali, ma che nella nostra memoria si fissano per sempre (La cosa più bella che hai sono i nei che punteggiano i discorsi tuoi. La cosa più bella che hai è la tua saliva che risbatte forte come il mare i miei pensieri a riva, a riva) . A volte ci illudiamo soltanto di cogliere una qualche forma di continuità e persistenza in quello che ci capita mentre l’esperienza si conferma solamente nella sua incompletezza e insensatezza (Ci sono giorni che io vorrei imparare ed altri, invece, in cui io non so più contare ma non ci riesco più).

Associare Calcutta a categorie estetiche che dimostra di non prendere minimamente in considerazione, sarebbe però una sovra-interpretazione fuori misura, difetto di proporzione e un’autentica mistificazione.

Così come sarebbe fuori luogo un discorso sul gusto artistico per il brutto, il raffazzonato, l’incompleto e persino lo squallido, direttamente speculari a quelli della bellezza equilibrata e armonica. Non serve fare alcun riferimento al concetto di Kitsch elaborato dal compianto Gillo Dorfles. In questo caso sarebbe davvero eccessivo e irrispettoso. Anche il brutto ha la sua dignità

Un paragone legittimo e perfino nobilitante è, invece, quello con Adriano Celentano che è ben noto proprio per il suo carattere ombroso, burbero e la sua proverbiale insofferenza per i media con un atteggiamento molto simile a quello che viene ritenuto il Re dell’Indie pop italiano. Il molleggiato nazionale si è sempre definito come il Re degli ignoranti, in questo senso e solo in questo, Calcutta può essergli degno erede, e gli è andata pure bene.

© Flaviano Bosco per instArt

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