Foto Luca A. d’Agostino / Phocus Agency © 2019

La curiosità è sempre stata il motore del lavoro di ricerca perseguito in tutti questi anni dell’associazione Controtempo. Appena conclusasi un’edizione trionfale di Jazz&Wine of Peace, proseguono gli appuntamenti dell’International Jazz Festival, Il Volo del Jazz a Sacile.

Sempre all’insegna della creatività e della sperimentazione di nuove formule e formazioni, anche questa rassegna, accanto ai nomi nuovi della scena jazzistica mondiale, propone autentici giganti della storia della musica contemporanea nel suo senso più ampio non solo di derivazione afroamericana.

E’ il caso del concerto di uno dei sassofonisti più importanti della scena jazz, rock e pop degli ultimi decenni. Ma non è tutto oro quello che luccica.

A volte, però, non bastano i virtuosismi e nemmeno le battute sul cibo e le meravigliose città italiane ad imbastire un concerto come si deve. Non bastano nemmeno un glorioso passato e il blasone del nome. Bill Evans e i suoi degni compari, nonostante il loro valore di musicisti non hanno capito che gli anni ‘80 sono finiti da almeno trent’anni. Il disco promosso durante il concerto Bill Evans & The Spy Killers “Live Down Under”, suonato quasi integralmente, ha l’esatto sound della fusion di quegli anni memorabili. E’ vero che il sassofonista dell’Illinois è stato uno degli araldi di quel genere musicale, come molti altri ma la sua performance dimostra che da allora non ha fatto un passo avanti che sia uno.

Negli anni ‘70 il grande contrabbassista Eddie Gomez (visto a Blues in Villa quest’estate) presentò il giovane sassofonista Bill Evans al genio del pianoforte. Bill Evans, di solo otto anni più grande di lui ma immensamente più dotato, almeno sulle tastiere orizzontali, “Bill Evans finally meets Bill Evans”, disse sorridendo. Solo una stretta di mano e un saluto, niente di più. Ad unirli, in qualche modo, fu la collaborazione, in tempi diversi, con sua divina grazia, lo sciamano elettrico Miles Davis.

Evans, giovanissimo, nel 1980, mentre il suo omonimo saliva ai Campi Elisi dell’eternità, passò direttamente dal college e dalle lezioni di sax di Dave Libeman al super gruppo con Mike Stern, Marcus, Miller e Al Foster che sosteneva il ritorno sulle scene di Davis dopo un lustro di solitudine, depressione e droghe. Furono subito incisioni e concerti memorabili (The Man With the Horn, Star People, Miles!Miles!Miles!, Fat Time, We Want Miles!, ecc.).

Scrive Miles nella sua autobiografia:

L’idea di ritornare in studio, nella primavera del 1980, mi riconfortò, Dave Liebman mi convinse a prendere Bill Evans, un sassofonista che suonò durante quelle registrazioni e che più tardi divenne un membro del mio gruppo dei tour. Dave era stato il maestro di Bill, e quando mi disse che Bill era a posto gli dissi di mandarmelo. Ho sempre tenuto conto dei musicisti dei quali avevo rispetto, specialmente se hanno suonato con me, quando mi raccomandano altri musicisti. Sanno quello che voglio e che mi aspetto”. (Miles Davis, Quincy Troupe, Miles L’Autobiografia, pag. 360).

Infatti, in seguito, a sua volta Evans presentò a Davis il fantastico chitarrista Mike Stern che divenne membro stabile della band.

Dopo quasi quattro anni di militanza nella compagine di Davis, proprio dopo un concerto a Manchester (1984) fu avvicinato da John McLaughlin (visto recentemente a Jazz&Wine of Peace). Il chitarrista stava pensando di riformare la mitica Mahavisnu Orchestra. Detto, fatto, Evans non si fece scappare l’occasione unendosi al nuovo gruppo fino al suo definitivo scioglimento nel 1987, tra incisioni e performances memorabili.

Evans è senz’alcun dubbio un musicista eclettico in grado di passare dalla raffinatezza del jazz d’altissimo livello alle ruvidezze del pop più sguaiato, al Country, al rock e perfino all’hip hop. Piuttosto note le sue collaborazioni con Mick Jagger, anche se nel 1994 rifiutò clamorosamente di andare in tour con i Rolling Stones per il Voodoo Lounge Tour.

A tutto questo ha unito una carriera solistica che lo ha portato fino ad oggi ad incidere a proprio nome con varie formazioni 25 album spesso ispirandosi al funky in un’idea aperta, un’evoluzione del genere fusion cui in definitiva la sua musica appartiene.

Il 4 agosto scorso a Norimberga in Germania, c’erano 75.000 persone ad ascoltare Bill Evans e i suoi SpyKillers nella medesima formazione che ha fatto il tutto esaurito al Teatro Zancanaro di Sacile (www.billevanssax.com) in una serata pienamente autunnale di novembre con pioggia e temperature in calo.

E’ chiaro che Bill Evans è uno di quei musicisti che fanno la gioia dei fan e dei botteghini dei festival. A Il Volo del jazz molti in sala si preparavano a decollare sulle note del sassofonista ma si sono dovuti accontentare di qualche rimbalzo sulle rotte del jazz fusion, certo energico ma davvero datato per ispirazione ed esecuzione. Di sicuro effetto per chi si sa accontentare di grooves corposi e grossolani, dal grande ritmo e tutto grasso armonico che cola. Un beat che fa venire voglia di ballare e di tenere il tempo battendo i piedi.

E’ un divertimento tutto analogico e un pochino stantio, pieno di valvole, di rullanti pestati e di stracco walking bass. Il sound di Evans è esattamente quello di un’intera epoca, cristallizzato e imbalsamato in un passato da museo delle cere.

E’ un piacevole, notturno suono urbano da telefilm d’annata tipo Starsky & Hutch, sulle strade sudate dei bassifondi di New York, tra giacche di pelle marrone, Ray Ban, donnine allegre e papponi spacciatori di polvere bianca.

E’ un jazz bianco passionale e vibrante che vuole divertirsi e diverte senza troppi sforzi cerebrali. E’ perfetto come sottofondo per i dopocena tra amici, tra le solite birrette e le interminabili discussioni sul campionato di calcio.

Niente di male, un vero piacere per la pancia e i padiglioni auricolari ma di certo il jazz è un’altra cosa.

Da notare tra i suoi SpyKillers il giovanissimo tastierista, Simon Oslender che, a soli 21 anni, suona il suo Hammond B3 valvolare come ne avesse almeno 23, come ha detto con una formidabile battuta il band leader. L’effetto a volte è così legnoso e percussivo da sembrare uno xilofono o un vibrafono.

Wolfgang Haffner il batterista che di anni non ne ha più 21 da un pezzo, vero monumento del jazz teutonico con più di 400 album all’attivo, picchia le sue pelli da vero piacione con virtuosismi ben lontani dal tipico drumming jazz, strizzando l’occhio al pop, al Rhythm blues e perfino alla dance più stradaiola; carini i suoi giochi acrobatici con le bacchette e anche la sua comica esibizione sul proscenio con dei martelli sonori in plastica per bambini. Il pubblico ha di certo gradito ma il tutto è sembrato un po’ troppo sopra le righe almeno per le persone che hanno superato gli entusiasmi della prima infanzia.

Klaus Fisher al basso è sembrato impiegarsi per il minimo sindacale, forse stava risparmiando le forze per un futuro impegno o si stava riprendendo ancora dai fragori del festival di Norimberga. A chi si aspettava delle toniche slappate, un solido tappeto ritmico o un groove quadrato, una tessitura sincopata dai legami contrappuntistici con le melodie degli altri strumenti ha sbagliato indirizzo. Fischer dormiva oppure non c’era, un paio d’ore di stanchezza e narcolessia possono capitare a tutti.

Cosa dire del band leader, Bill Evans? Di certo si è impegnato al massimo ed è stato molto divertente sia al sax tenore che al soprano, ottimo anche alle tastiere che sono state il suo primo amore e lo dimostra in un piacevolissimo arpeggiare al piano Fender Rhodes che sembra essere tornato di gran moda; coinvolgenti anche le sue interpretazioni alla voce di canzoni bluesy e southern rock. Niente di troppo nuovo ma eseguito con gran mestiere mentre i suoi pards accompagnano placidi e bonari.

Emozionante il bis dedicato a Miles Davis con uno dei suoi pezzi fusion più importanti, l’indimenticabile Jean-Pierre.

In sintesi, un concerto didascalico tra jazz rock e blues, piacevole e disimpegnato senza troppi scossoni o impervi declivi musicali; semplice, semplice come bere un bicchiere d’acqua, come una serata tra amici al bar. Chi pretendeva qualcosina di più avrebbe fatto meglio a rivolgersi altrove. Una sera come un’altra sotto le stelle del jazz.

© Flaviano Bosco per instArt

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