Il titolo della recensione, che unisce significativamente due interessanti serate dell’ottima rassegna organizzata dall’ass. Controtempo nella piccola Venezia sul Livenza, è preso da un celebre standard jazz per l’appunto “Autumn Leaves” versione americana di “Les Feuilles mortes” di Jacques Prévert musicata da Joseph Kosma.

L’autunno, e soprattutto il mese di novembre, ispirano la notte e l’ascolto riflessivo; come dice il poeta anche “le donne sono più segrete e sole, tutte più morbide e pelose e bianche, afgane, algebriche e pensose”.

Il teatro Zancanaro di Sacile è da 19 edizioni, la splendida cornice de Il Volo del Jazz, una rassegna che fa la gioia di tantissimi appassionati triveneti e di oltreconfine. Nel corso degli anni tutti i grandi della musica d’improvvisazione e di ricerca sono passati da quel palcoscenico e la collaborazione con la Fazioli pianoforti ha contribuito notevolmente all’assoluto prestigio di quegli applauditi incontri. Alla ricchissima, prestigiosa rassegna da sempre si affiancano i cosiddetti “eventi colaterali” che, in realtà, non sono per niente inferiori al programma principale.

Quest’anno risulta di particolare interesse e fascino la mostra fotografica “Another Kind of Blue” di Fabio Gamba della Phocus Agency. Le sue splendide immagini proiettate in sala a ciclo continuo prima dei concerti colgono istanti sospesi della vita e delle performance di celebri musicisti jazz. Una sottile, nubilosa mestizia pervade scatti dalle eteree atmosfere, dai quali emergono ritratti di autentici mostri sacri della musica d’improvvisazione come Roscoe Mitchell, Wayne Shorter, Jan Garbarek, Tom Harrell oppure nuovi “giovani” maestri come il nostro Francesco Bearzatti e molti altri. Molti di loro sono curiosamente ripresi con la testa reclinata in avanti e lo sguardo a terra, quasi a significare il loro estraniamento a ciò che li circonda persi nel blu della loro malinconia che Miles Davis magistralmente espresse in una delle opere d’arte più influenti del XX sec.

Tradizionalmente la rassegna esplora con la sua programmazione paesaggi sonori spesso eccentrici rispetto al jazz mainstream alla ricerca di nuovi talenti e nuove contaminazioni. In questo modo si scoprono di anno in anno nuove prospettive della musica d’improvvisazione che è capace misteriosamente di continuare ad attirare nuovo pubblico che, grazie anche ai nuovi device tecnologici, sfugge alle considerazioni della vecchia critica musicale paludata. Naturalmente vicino alle nuove leve, Il Volo del jazz propone anche autentici “mostri sacri” della scena più classica che ormai riguarda quegli ultimi maestri attivi a partire dalla metà degli anni ’60 che già mezzo secolo fa si erano emancipati dalla musica afroamericana più sacramentale. Paradossalmente oggi definiamo classica la Fusion e a volte perfino il Free Jazz o lo sperimentalismo elettronico dei primi anni ’70.

Quello che era allora il futuro del jazz ci sembra ormai un ricordo, ma in realtà, quella stagione è tutt’altro che finita e continua a generare talenti e grande musica.

I due concerti di cui parleremo brevemente nelle righe che seguono rappresentano i due estremi: il giovane pianista sulla cresta dell’onda, ma ancora alla ricerca di un proprio suono ben definito e il collaudato batterista che da decenni sviluppa il proprio talento multiforme che si è come cristallizzato in un astro splendente che ha già da tempo trovato il proprio posto nel firmamento della storia del Jazz.

Alfa Mist: Randy Alfa Sekitoleko aka Alfa Mist (Tastiere, pianoforte) Nathan Shingler (batteria) Kaya Thomas-Dyke (basso, voce) Jemie Lemming (chitarra) James Copus (tromba)

L’artista inglese è da circa un decennio agli onori delle cronache del cosiddetto Nu-jazz londinese. Il frastagliato movimento, il cui maggiore esponente è di certo Shabaka Hutchings, sembra spesso solo una creazione dei soliti critici musicali sempre bisognosi d’inventarsi un’etichetta o un genere per non sforzarsi troppo negli ascolti e generalizzare riducendo in una forma indistinta, omogenea e predigerita la creatività di tanti. Alfa Mist è però difficilmente catalogabile, tanto è variegata la sua ispirazione e produzione che percorre sentieri che è un eufemismo definire poco ortodossi. Come ricorda spesso lo stesso artista la sua formazione è tutt’altro che tradizionale, i suoi studi sono essenzialmente da autodidatta e la sua base di partenza è il sampling della scena elettronica inglese. L’artista era molto atteso dai tanti giovani “alternativi” che assiepavano la platea e la galleria e che di certo non sono rimasti delusi da una performance che ha avuto il merito di dissacrare molti stilemi della musica d’improvvisazione, riportandola ancora una volta, verso quella semplice ballabilità che la contraddistingueva fin dai suoi tempi pionieristici e che, a volte, interpretazioni troppo seriose finiscono per svilire.

L’introduzione del concerto è stata vagamente “avant garde” cui è seguito un primo brano ai limiti dell’acid jazz; molto efficace la sincronizzazione della musica eseguita con le animazioni sul grande schermo dietro ai musicisti ottenute da disegni e dipinti onirici e surrealisti tutti virati al blu notturno e alle luci elettriche nelle tenebre dell’oscurità. Alcuni sconsiderati critici si sono spinti fino allo sproposito di paragonare il quintetto inglese alla Mahavishnu orchestra di John McLauglin, ma non esageriamo e come dicevano i vecchi: “Scherza coi fanti e lascia stare i Santi”. Alfa Mist e i suoi “compagni di merende” di certo suonano ispirandosi anche al Jazz Rock e a certa tarda fusion, contaminando il loro sound con un’infinità di stili e generi, tanto compulsivamente da rischiare di perdere l’orientamento e di non sapere in quale direzione andare: dalla furia stregonesca e sregolata di un groove torrido fino a ritmi decisamente be-bop che scivolano sul limo del lounge fino al pieno sconcerto dell’ascoltatore più esperto e al deliquio di chi si bea di un qualunque beat danzereccio. Niente di male per carità, ma “Birds of fire” e “Visions of the Emerald Beyond” fanno parte di un altra galassia ben più luminosa. In molti brani sono risultati in piena evidenza gli effetti con cui era deformato il suono della tromba e del flicorno entrambi alternati al suono “naturale”. Il trombettista avvicendava, in breve successione, due microfoni, l’amplificazione di uno dei quali era processata dal synth, l’altro in presa diretta.

Il passaggio dall’uno all’altro creava effetti non sempre gradevolissimi, ma comunque accettabili e di un certo interesse per la loro “artigianalità”. La band di Alfa Mist ha dimostrato grande talento, ma in realtà poco controllo e un’incerta ispirazione dispersa in mille rivoli. Non risulta chiara la direzione che il quintetto vuole percorrere nella parcellizzazione della sua creatività che finisce per non riuscire mai ad agglutinarsi rimanendo una sorta di vagheggiamento da DJ set o da Sound System. Quasi al limite dell’Ambient music atmosferica e clubbing, i brani della scaletta hanno spesso avuto la piacevolezza della dance più languida e morbida che s’immagina in un tintinnare di calici d’aperitivo e di spritz Campari.

La bassista, dalla ritmica ornamentale e poco più che decorativa, ha il suo vero talento nella voce che il pubblico ha scoperto in un piacevolissimo brano dalle suggestioni cinematografiche e da “esterno notte” forse fin troppo didascalico per sembrare vero. Alfa Mist compone ed esegue musica “laccata e leccata”, suoni per “bravi ragazzi” con ottima perizia tecnica e cognizione di causa bell’e pronta per le sofisticazioni di certi trend della musica commerciale mainstream. L’arrembante etichetta discografica del leader ha prodotto anche gli album del trombettista e del chitarrista dai quali sono stati estratti un paio di interessanti brani, nient’affatto male. La musica di Alfa Mist funziona perfettamente anche se la si intende associata alle immagini pittoriche di cui dicevamo più sopra di cui potrebbe essere considerata una degna colonna sonora. Immagini dai colori primari in notturna che si fondono con suoni saporiti e gustosi, per un jazz che luccica come un’infatuazione giovanile, solo il tempo ci saprà dire se è stato vero amore.

Steve Gadd: Larry Goldings (tastiere) Travis Carlton (basso elettrico) Michael Landa (chitarra elettrica) Walt Fowler (tromba, flicorno) Steve Gadd (batteria)

L’Ass. Controtempo con le proprie rassegne contribuisce in modo determinante all’altissima qualità delle proposte musicali della nostra Regione che, come ben sanno i tanti appassionati che ne godono, sono le più prestigiose del paese.

Se si mettono insieme tutti i festival, eventi, spettacoli, incontri in musica che coprono ogni genere nel corso di un anno, c’è da restare sbalorditi, anche facendo il confronto con le grandi città e i loro blasonati teatri e auditorium. Quello che davvero manca alla nostra Regione è un circuito informale fatto di locali e di centri sociali slegati dalle istituzioni che, per quanto illuminate, per forza di cose sono sempre un po’ ingessate da bandi, finanziamenti e varia burocrazia.

Dal palcoscenico prima che le luci si smorzassero e iniziasse il concerto è stata doverosamente ricordata la più recente vittima di femminicidio, purtroppo non l’ultima dell’orrenda strage quotidiana che il nostro paese sembra incapace di arginare. Anche in una situazione così gioiosa è sacrosanto soffermarsi sulle grandi tragedie cui stiamo assistendo nel nostro tempo che di armonia e di equilibrio sembra non volerne sapere. La musica può poco di fronte a tanto scempio, ma forse può aiutarci a riflettere e di certo ne abbiamo un gran bisogno.

Tra le ovazioni di un pubblico decisamente amico è entrata la star, quello che viene giustamente considerato come uno dei più grandi batteristi viventi, ed è cominciato un concerto ad un ritmo che ricordava il suono delle rade grosse gocce che annunciano un temporale estivo. La pioggerellina si trasformava in un lento funky da grande schermo e urbano molto piacevole ed easy listening. Era una fusion moto delicata, sospesa e languida, molto, molto America bianca e WASP.

Quello proposto in questo tour da Steve Gadd e dalla sua band è un jazz atmosferico e ambientale senza scossoni e con niente di nuovo; i suoni di certo sono quelli giusti, da quattro salti nel solito locale per playboy un po’ attempati; luci soffuse, sound rilassante da circolo del golf. Niente di male ad essere felici su una Ferrari che piangere su un tram come si diceva ai tempi di Jannacci.

Si alternano brani composti da ognuno dei musicisti della band cui il leader da ampio spazio e che sono tutti di grande piacevolezza e fanno venir voglia di sorrisi e aperitivi.

Gadd è sempre impeccabile anche alle “spazzole” e rotondo è apparso il suono del flicorno mai troppo grave o liturgico, tutto è stato all’insegna del divertimento, del disimpegno e del buon gusto che riesce soprattutto ai grandi interpreti del jazz bianco dalla scintillante capacità esecutiva; così sono passati uno dietro l’altro brani perfetti, levigaiti e sfavillanti, eseguiti in modo impeccabile. Non a caso il batterista ha avuto una lunga frequentazione con la band di George Duke e nell’orchestra di Frank Zappa che in quanto a maniacalità non era secondo a nessuno.

In alcuni passaggi hollywoodiani ci s’immagina l’eroe del nostro film, azzimato e compassato come James Bond al night club con qualcosa di forte nel bicchiere mentre carezza la mano ingioiellata del solito schianto di bionda dagli occhi di ghiaccio, mentre a noi poveri mortali basta anche, come dice Zucchero, “una birra e un panino al salame” finchè morte non ci separi.

Il jazz bianco dalla west coast alla fusion non ha mai dato brutte sorprese, è onesto, affidabile come un cane che riporta sempre indietro il bastone che gli lanciamo ancora e ancora facendoci felici entrambi.

Tutto è divertente e disimpegnato proprio come uno se l’aspetta, non ci sono i tempi cupi del blues o le ruvide sferzate dell’avant-garde.

Il brano più intenso della serata è stato di sicuro quello che ha chiuso la scaletta, con un bel giro di basso e atmosfere da colonna sonora exploitation; il cuore dei musicisti si sentiva battere forte all’unisono con quello del pubblico. Non poteva esserci “encore” più spettacolare di quella che ha omaggiato Bob Dylan con l’esecuzione di una versione estemporanea di “Watching the river flow”, stupendo blues d’ottima annata che contiene versi di assoluta poesia:

“La gente è in disaccordo su ogni cosa
Ti vien voglia di fermarti e chiedere perchè.
Proprio ieri ho visto un tizio per strada
che non poteva fare a meno di piangere.
Oh, eppure questo antico fiume continua a scorrere
Non importa cosa si metta di traverso
o da che lato soffi il vento
fintanto che soffia il vento
me ne starò qui
guardando il fiume che scorre.”

© Flaviano Bosco – instArt 2023

Share This