“Sire, Maestà, reverenti come sempre siam tutti qua. Sire, siamo noi, il poeta, l’assassino, sua Santità. Tutti fedeli amici tuoi. Ah, Maestà.”

C’erano proprio tutti l’altra sera alla corte del nuovo giovane sovrano della sei corde e dire che il suo regno è appena iniziato.

Il teatro Pier Paolo Pasolini di Cervignano, le cui stagioni sono gestite magistralmente dall’ass. Euritmica, era pieno come un uovo per un’altra tappa di un meraviglioso viaggio (The Journey) nella musica che non smette di meravigliare.

Da alcuni anni il nome di Matteo Mancuso è sulla bocca di critici, appassionati ed esperti che più volte hanno utilizzato, anche a sproposito, termini quali “Enfant prodige”, “Fenomeno, Stupor mundi, Portento, Prodigio e perfino Miracolo”, con riferimento alle sue inaudite abilità di musicista.

Il giovane chitarrista siciliano, naturalmente, si merita assolutamente tutte le lodi sperticate che gli sono state rivolte, ma quello che non emerge da molti giudizi e recensioni è che l’arte di Mancuso è una nuova dimensione della chitarra che non può più essere catalogata sbrigativamente come virtuosismo o genere. E’ proprio un altro livello.

Le meravigliose dita di questo ragazzo ci impongono di ripensare persino all’approccio che tradizionalmente rivolgiamo allo strumento; qualcosa di inaudito ci sta davanti, ci sfida e ci interroga.

I primi ad essersi accorti veramente del tornado che si è scatenato nel mondo della musica sono autentici virtuosi come Steve Vai, Joe Bonamassa e Al Di Meola che non hanno risparmiato elogi e convinto stupore.

Non basta, infatti, ascoltarlo e godere dei suoni che crea, è necessario anche vedere con i propri occhi il suo stile del tutto originale che utilizza letteralmente le dieci dita lungo tutta la tastiera in modo “indipendente” senza plettro e senza metodo riconoscibile.

Questo non vuole assolutamente dire che il suo sia solo istinto e dono di “natura” qualunque cosa possa voler dire. Mancuso ha studiato il proprio strumento, continuerà a farlo ora e nel futuro, ma lo farà a modo proprio piegando la musica al proprio talento e non il contrario e per di più con un’apparente tersa semplicità.

Non a caso nell’incipit di questa recensione si sono utilizzati alcuni versi da “Il banchetto” della PFM. Mancuso ha partecipato al live della band pubblicato con il titolo di “The Event-Live in Lugano” (2023). Si rimanda all’ascolto di quei brani per cominciare a comprendere la portata dell’arte di questo ragazzo “da cielo in terra a miracol mostrare”.

Per non ripetere i soliti encomi che, in fondo, dicono molto poco, si farà ricorso ad un piccolo aneddoto che il lettore di queste righe avrà la bontà di perdonare allo sciagurato autore.

Nel foyer del bel teatro di Cervignano dall’ottima acustica, ma dall’illuminazione e dai decori esterni non all’altezza, fa bella mostra di se, di fianco alla biglietteria, una scaffalatura per il bookcrossing. Tra i libri “liberati” l’altra sera, si trovavano due splendidi volumi che raccolgono lettere e documenti di Giuseppe Tartini (a cura di Giorgia Malagò, EUT 2020). Certo una mera casualità, ma a pensarci bene tra i pochi paragoni che possono reggere per quanto riguarda Mancuso ci sono quelli con i grandi musicisti del passato.

Il grande storico della musica Pierre-Louis Ginguené (1748-1815) scriveva dell’arte del grande violinista: “Si sa che questo grand’uomo operò una doppia rivoluzione nella composizione musicale e nell’arte del violino. Dei canti nobili ed espressivi, dei tratti sapienti ma naturali e disegnati su un’armonia melodiosi, dei motivi sviluppati con un’arte infinita e senza l’aria della schiavitù e pedanteria che Corelli stesso, più preoccupato del contrappunto che del canto, non aveva sempre evitato; niente di trascurato, di inutilmente affettato, canti ai quali è impossibile non attribuire un senso e dove si intravede appena che la parola manca. Tale è il senso dei concerti di Tartini”.

Fatte le debite differenze, quasi le stesse cose si potrebbero dire del grande chitarrista siciliano la cui raffinatissima arte appare di una semplicità disarmante senza mai essere perciò accademica o calata dall’alto.

Il concerto di Cervignano si è aperto su una base registrata di arpeggi alla chitarra classica facenti parte del brano che apre “The Journey” primo vero album di Mancuso.

Sulle note acustiche dell’introduzione gli artisti salivano sul palcoscenico e poi di colpo, inserendosi in battuta, i tre hanno fatto esplodere la sala con i loro strumenti amplificati con un impatto ben oltre i confini dell’hard Rock. Accelerando, rallentando verso un suono blueseggiante e carico per poi accelerare ancora ritmicamente e di nuovo, lasciando spazio ad un vertiginoso e spaesante assolo di Mancuso che ha superato di gran lunga il concetto di virtuosismo.

Si tenga ben presente che il chitarrista palermitano non è per nulla una specie di fenomeno da baraccone, non è un atleta della tastiera, un quadrumane velocista con abilità manuali straordinarie.

E’ un musicista che porta la chitarra ad un nuovo stadio di complessità fino ad oggi del tutto inaudito e impensabile. La ricercatezza dei suoni, la stravagante perfezione dell’esecuzione, l’assoluto equilibrio con gli altri musicisti della band supera i generi con una naturalezza che non ha paragoni.

Mancuso e i suoi eccezionali compagni (Riccardo Oliva, basso e tastiere; Gianluca Pellerito, batteria) non sembrano per nulla ipertecnici e di sicuro non sono degli spocchiosi snob, come si dice “non se la tirano per niente”. Pensano solo a suonare e lo fanno molto bene, con gran gusto e divertimento di tutti.

Le soluzioni che adottano nei vari passaggi, nei riff, negli accordi e nei totali non sono mai cervellotiche e neppure troppo sofisticate, si ascoltano con la semplicità e la gioia di un bambino che si lecca un gran gelato mentre ne vuole già un altro. Percorriamo brevemente la scaletta del concerto.

Silkroad: il concerto è iniziato, come dicevamo, con la registrazione di un arpeggio acustico sulla chitarra arabeggiante e flamenca tratto dal brano. Ad un certo punto tra lo sbalordimento generale, in completo contrasto, la band entrava di botto con gli strumenti elettrici, come una vera e propria deflagrazione d’incredibile forza e percussione.

E’ stato quasi uno shock per gli ascoltatori che si sono trovati proiettati lungo le vie dell’immaginazione di un musicista fuori dall’ordinario che con il suo strumento sta aprendo una nuova via verso orizzonti imprevedibili e lontanissimi, proprio come fece Marco Polo percorrendo la Via della seta verso l’Asia o come gli Arabi “siciliani” che dal golfo di Palermo veleggiavano verso i porti di tutto il mondo conosciuto. I suoni di “Silkroad” si ispirano a tutto questo come ci mostra il video che ha lanciato il brano su tutte le piattaforme, girato nei luoghi più suggestivi della Palermo arabo-normanna.

Fred: è un brano cui il chitarrista tiene moltissimo e che, in realtà, non fa parte del suo ultimo album, ma è una preziosa cover, o meglio una reinterpretazione, di un classico di Allan Holdsworth, grandissimo chitarrista fusion in origine inciso per l’album “Belive it” del The New Tony Williams Lifetime nel 1975. Troppo presto si è voluto proclamare la morte del cosiddetto Jazz Fusion, il cui futuro è ancora luminoso e comincia proprio dalle dita di Mancuso.

Open Fields: questo il titolo internazionale perchè agli americani piace vagheggiare sul classico stereotipo della bella Italia dai prati aperti. In realtà, il titolo originale sarebbe “Campagne siciliane” più agreste ma altrettanto suggestivo e strapaesano. Mancuso, giustamente, è molto legato alla sua terra natale, culla della poesia e della musica europea ben prima di Federico II di Svevia. E’ simbolicamente molto significativo che il talento di Mancuso sia “fiorito” proprio dalla città di Palermo che conserva “la più strepitosa raccolta di immagini musicali del sec. XII di tutto il Mediterraneo: i dipinti arabo-persiani della Cappella Palatina e della cattedrale di Cefalù” attraverso i quali è stato possibile “identificare caratteristiche specifiche degli strumenti a corde siciliani di quell’epoca: Oud (Barbat), Rebab, Qitara” (www.liuteriaseverini.it). Una tradizione millenaria di “Qitarristi” si condensa così in nuovi mirabolanti accordi elettrici.

Falcon flight: è un brano con il quale letteralmente si “vola” e che sembra raccontare la grande passione per la falconeria sempre dell’imperatore Federico II che proprio in Sicilia scrisse buona parte del suo eccezionale “De arte venandi cum avibus” (L’arte di cacciare con gli uccelli), opera monumentale nella quale s’incontrano mirabilmente la sapienza araba e quella dell’Occidente cristiano medievale.

Come riconobbe Dante Alighieri, il volo dei falchi è metafora viva della mente che sale dalla contingenza della materia verso le superiori dimensioni spirituali. La colonna sonora moderna di tutto questo è di certo quella di Mancuso che idealmente si sostituisce a quella di Casella, l’amico “chitarrista” e cantante dell’Alighieri (Purg. II).

Matteo Mancuso, pur avendo, come diceva Toto’, “Il nome sul manifesto”, non si atteggia minimamente a superstar e nemmeno a enfant prodige.

Si presenta come un ragazzo qualsiasi con la felpa di Rick and Morty, pantaloni stazzonati e sneakers come un qualunque liceale.

Niente smorfie, urla, balletti, lunghe chiome o headbanging; è il contrario del rocker tradizionale, ma risulta anche l’opposto del jazz-man assorto e tutto ripiegato sul proprio strumento alla ricerca dell’ultima Thule.

Certo è uno che con la propria chitarra, probabilmente ci dorme e ci mangia come faceva Jimi Hendrix; di sicuro si esercita come un ossesso, ma non lo da per nulla a vedere e soprattutto non lo fa nemmeno pesare ai propri ascoltatori.

Nessuna liturgia Rock’n’Roll nei suoi spettacoli, niente orgasmi simulati e chitarre in fiamme da Voodoo child; sirene d’allarme, aerei che si schiantano, castelli di sabbia che collassano nella risacca, Mancuso è, al contrario, ispirazione cristallina senza alcun orpello, acqua pura di sorgente trasformata in un suono liquido lustrale.

Ma non è di certo “acqua cheta” la sua, e tutti se ne sono accorti quando sono risuonate le note di Cause We Ended as lovers, grande classico di Stevie Wonder, prodotto da George Martin e portato al successo dal compianto Jeff Beck che molti fortunati hanno potuto ascoltare un paio d’anni fa poco prima della scomparsa a Pordenone Blues. Mancuso ha reso ancora più luminoso ciò che era già splendente; ascoltandolo non si può che rimanere di stucco, il suo assolo nella parte finale è stato qualcosa di inaudito eppure perfettamente familiare come se quelle note avessero aspettato da sempre di raggiungerci attraverso la chitarra di Mancuso.

Emozioni da brividi anche per Havona dall’album Heavy Weather dei Weather Report (1977) dedicata a quel geniaccio di Jaco Pastorious che ci ha lasciato soli in questa valle di lacrime troppo presto. Da ricordare il gran lavoro nel brano del bassista Olivo di grande talento e ottime qualità che naturalmente non può reggere alcun confronto, nessuno potrebbe, ma se la cava egregiamente. Sempre a ricordo di Pastorius i tre del chitarrista siciliano hanno regalato al pubblico The Chicken (Pee Wee Ellis) sempre divertente e all’apparenza disimpegnata, ma in realtà davvero vertiginosa e spericolata.

Nel finale di concerto si è potuto gustare The Journey, la title track dell’album ariosa e sognante che fa immaginare territori enormi dove il sole tramonta in un tripudio di miccette. Tra tutti i brani è quello dall’impostazione più “commerciale”, ma se vendere l’anima al diavolo Mammona portasse sempre a risultati del genere, ci sarebbe da firmar subito un’esclusiva per la tournée all’inferno.

Subito dopo la vibrazione dell’ultimo accordo è scattata una meritata ovazione e l’immancabile, ma non scontata, almeno questa volta, richiesta di bis.

L’artista non si è fatto attendere troppo e Drop D è sembrata una degna chiusura come una sorta di dichiarazione di intenti: dal blues verso l’infinito; una vera e propria finestra sul futuro della musica che da questo momento in poi si chiama anche Matteo Mancuso.

© Flaviano Bosco – instArt 2023

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