Continuano le proiezioni nel giardino Loris Fortuna, nel pieno centro di Udine, con proposte sempre più interessanti del Centro Espressioni Cinematografiche. È quasi una tradizione consolidata quella che riserva alla sera di ferragosto la proiezione di un grande classico del cinema in piena controtendenza con chi vede l’estate solo come il tempo del divertimento disimpegnato e leggero dei cervelli spiaggiati all’ammasso.

Niente poteva esserci di più indicato al momento storico che stiamo vivendo che La classe operaia va in paradiso di Elio Petri. A qualcuno potrà sembrare un anacronismo pensare ancora alla lotta di classe, alle rivendicazioni sindacali, alla catena di montaggio, all’alienazione e allo sfruttamento, sembra roba d’altri tempi e invece sono tutte questioni ancora aperte che attendono da decenni una risposta che non arriva mai.

Ci hanno semplicemente disabituato a pensarci, hanno distratto la nostra attenzione spostandola dai sistemi di produzione al consumo. Ci hanno dato qualche soldo in più e un apparente migliore benessere materiale e tanto è bastato a tacitare la nostra voglia di contestare il sistema. Siamo felici nella nostra gabbia dorata fatta di lavoro, centri commerciali e funerali, perché è proprio così che si è trasformato il vecchio slogan: produci, consuma, crepa, che nei fatti indica ancora una situazione del tutto simile a quella di quarant’anni fa, è solo cambiato il packaging, il condizionamento è rimasto il medesimo quando non è peggiorato.

Nei luoghi di lavoro si continua a morire per cosiddetti “infortuni”, le macchine continuano a mutilare e sfigurare gli operai e si può finire da un momento all’altro in mezzo ad una strada se non si rispettano i cronometrici tempi di lavorazione che conteggiano ancora nell’ordine dei secondi, perfino le pause per la minzione.

Ora i nostri carceri fisici e psichici hanno le forme e i colori delle grandi multinazionali dell’abbigliamento, mangiamo cibi più colorati ed eco sostenibili, attraverso i nostri smartphone siamo connessi direttamente con il famoso “aborigeno australiano” ma continuiamo a non avere niente da dirgli.

La confezione esteriore della nostra esistenza è cambiata ma la scatola continua ad essere vuota e il condizionamento e lo sfruttamento cui siamo sottoposti ancora più penetrante e pervicace.

In una scena molto toccante della pellicola, il protagonista, lo stakanovista del cottimo, il tornitore Ludvico Massa detto Lulù, cacciato dalla fabbrica dopo le sue proteste in seguito ad un grave infortunio, va a prendere il bambino della sua compagna fuori da scuola. I piccoli che escono in fila dal cancello gli sembrano “Operai piccoli” .

Sembra una scena inessenziale o minore rispetto al dramma sullo sfruttamento degli operai alla catena di montaggio, delle lotte studentesche e del degrado della vita familiare e affettiva causata dal consumismo fino al degrado psichico e, invece, al contrario, è un momento cruciale in cui si illustra l’inizio del processo di condizionamento e di assoggettamento delle persone nella società dello sfruttamento. La fabbrica è diventata il mondo intero e ognuno, dalla più tenera infanzia all’età avanzata, è tenuto a rispettare i tempi e le prestazioni che gli vengono imposte dal Potere che lo usa per la produzione di quegli stessi beni, spesso voluttuari che poi li costringe a consumare.

Molto interessanti anche le sequenze che illustrano le dinamiche sindacali che interessano il destino degli operai schiacciato tra le forze moderate e pusillanimi delle organizzazioni istituzionali che vogliono riforme graduali e lunghe, pacifiche contrattazioni mentre i lavoratori muoiono alla catena di montaggio e le rivendicazioni massimaliste e sconsiderate di studenti marxisti e comitati di base che pensano alla rivoluzione proletaria mentre gli operai che protestano con loro vengono licenziati con un calcio e senza un soldo.

Sempre Lulù che somatizza il suo disagio con problemi di stomaco illustra molto efficacemente il processo di identificazione del soggetto con la sua funzione di operaio nella fabbrica:

Il mangiare viene giù e qui c’è una macchina che schiaccia ed è pronto per l’uscita. Uguale che in una fabbrica. L’individuo è uguale alla fabbrica. Fabbrica di merda! … Pensa se avesse un prezzo! Ognuno lì bello con la sua renditella sicura! Invece niente…”

Elio Petri, con una fotografia glaciale e algida e con un iperrealismo durissimo e drammatico, ci mostra la fatica di un operaio medio con il suo lavoro alienante alla macchina di montaggio, la sua vita familiare e i suoi rapporti umani condizionati dai ritmi massacranti del cottimo che minano il suo fisico e la sua psiche. La casa, la scuola, la fabbrica-carcere, il manicomio e infine il cimitero e il sogno di un illusorio paradiso pieno di nebbia dietro al muro di un’esistenza disumanizzata e lugubre: è questo il percorso del film che si avvale della presenza di attori straordinari come Gian Maria Volontè che interpreta magistralmente il protagonista, Salvo Randone grande del teatro italiano che veste i panni del vecchio operaio Militina impazzito e rinchiuso in manicomio e ancora Mariangela Melato, Flavio Bucci e tanti altri caratteristi del cinema italiano impegnato degli anni ‘70. La colonna sonora del maestro Ennio Morricone, che ci regala anche un cammeo nelle ultime sequenze, è impressionante, tetra e sostenuta da suoni meccanici e materici di straordinaria efficacia.

La vera differenza con il passato rappresentato nel film di Elio Petri è che oggi le facce degli operai condannati a vita alla catena di montaggio sono molto più scure e che il cottimo si chiama premio di produzione. Sono in gran parte gli immigrati a fare i lavori più degradanti e faticosi, sono loro a lavorare i campi che producono la nostra ricchezza agroalimentare; sono loro a sostenere le nostre industrie manifatturiere, cantieristiche; sono loro a salire sulle impalcature dei nostri palazzi in costruzione e sono sempre loro a spiaccicarsi sui nostri marciapiedi per la solita inosservanza delle più elementari normative di sicurezza nei cantieri che, se già valgono poco per i nostri connazionali, rimangono sostanzialmente inapplicate per quelli che consideriamo quasi animali da soma, come si dice in modo più forbito e ipocrita, “Forza Lavoro”.

Se a qualcuno fosse sfuggita la notizia, nel giorno della nascita del grande sindacalista Giuseppe Di Vittorio (11/08), gli unici a celebrarlo degnamente al di fuori di ogni retorica ma con un atto concreto, sono stati i nostri fratelli africani che, come schiavi sotto il sole, nelle nostre campagne raccolgono i pomodori e altre delizie con cui noi prepariamo le nostre succulente capresi o le fresche macedonie Lounge bar balneari.

Il loro rappresentante Aboubakar Samohoro ha lanciato la nuova Lega dei Braccianti, inaugurando una Casa dei diritti e della dignità Giuseppe Di Vittorio: in buona sostanza, una piccola baracca costruita dagli stessi migranti come luogo di ritrovo e di confronto, proprio nel cuore della più grande, miserabile e abusiva baraccopoli che li ospita a migliaia durante i massacranti mesi del raccolto e che nessuno sembra vedere. Con le sue parole:

Ripartiamo oggi con la Lega dei braccianti, nel fango della miseria, dello sfruttamento, dell’abbrutimento come hanno fatto i braccianti ieri con Giuseppe Di Vittorio, da protagonisti, organizzandosi, coalizzandosi in leghe per riprendere la propria dignità, il diritto al lavoro, al salario, alla casa, a una condizione anche di permesso di soggiorno. Quindi per un uguale lavoro, uguale salario.

Ripartiamo da lì, ripartiamo da qui soprattutto nell’era dell’economia digitale per dire che sono passati gli anni ma le condizioni di sfruttamento, di abbrutimento, di miseria sociale e lavorativa dei braccianti si sono sempre più aggravate. Ma proprio in questa giornata di nascita di Giuseppe Di Vittorio inauguriamo la prima casa dei Diritti e della Dignità dedicata alla sua figura che è il punto di riferimento delle nostre lotte come lo è stato per chi ieri lavorava nel fango della miseria. Uguale Diritti! Uguale salario! Quindi è per tutti i braccianti, tutti i lavoratori, operai agricoli, dai campi alla forchetta uniti insieme”.

Naturalmente, i sindacati confederati si sono sentiti subito piccati e defraudati rispondendo alle precise questioni poste dai braccianti con la solita prosopopea, quasi con le stesse parole che vengono utilizzate nel film di Petri in una situazione simile. Come riportato su Il Manifesto:

La Cgil ha sempre contestato a Aboubakar non il suo impegno per i diritti ma il fatto di perseguirli con interventi isolati, senza una vera organizzazione alle spalle e, per questo, con pochi risultati concreti. “E’ appoggiato da pseudo intellettuali radical chic che dei problemi dei lavoratori si fanno belli per poche ore e poi se ne dimenticano mentre noi, senza fare notizia, siamo quotidianamente radicati in tutte le campagne a combattere senza sosta per conquistare diritti con la contrattazione, rincara Minniti, leader Cgil. Abbiamo assistito a tante meteore che poi si sono spente. Come diceva Di Vittorio la lotta si fa dentro le organizzazioni ed è più complicata: serve fare un passo indietro rispetto ai lavoratori. Se Aboubakar ha tanta stima di Di Vittorio, entri nella Cigl lo accoglieremo volentieri.

La sintesi della questione nella pellicola si può trovare nelle parole che il vecchio operaio pazzo Militina rivolge a Lulù indicando quelli come lui al manicomio in una sequenza disperata e straziante:

Quelli erano operai, contadini, eh…manovali, muratori, poliziotti, impiegati del catasto, beccamorti, ragionieri, uscieri , autisti, operai di prima, di seconda, di terza categoria, anche di sesta,ottava, sedicesima. Eh, i matti ricchi non li tengono qui, no, no. Quelli stanno nascosti nelle cliniche private. E per forza, si capisce, guai se i poveracci sapessero che pure i ricchi diventano matti. Eh, gli verrebbe da piangere, no? Lulù, è il denaro, comincia tutto da là. Ah! Noi facciamo parte dello stesso…giro. Padroni e schiavi, dello stesso giro! L’argent, i soldi! Noi diventiamo matti perché ce ne abbiamo troppo pochi e loro diventano matti perché ce n’hanno troppi. E così, in questo inferno, su questo pianeta pieno di ospedali, manicomi, cimiteri, di fabbriche, di caserme…e di autobus, il cervello poco a poco…se ne scappa.

Amen e così sia!

© Flaviano Bosco per instArt

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