Protagonisti assoluti del terzo appuntamento della rassegna Musica in Villa 019 sono stati il Mulino Braida ed il biotopo risorgive di Flambro. È vero, la presenza anche di due ottimi musicisti come Stefano Montello e Zlatko Kaučič non è stata per nulla incidentale, tutt’altro, ma bisogna anche ammettere che, qualche volta, la forza dei luoghi e delle energie telluriche che da essi promanano, ci sovrastano fino ad assorbirci osmoticamente, e non c’è musica o parola che possa farci qualcosa.

Le prime attestazioni storico-documentali della presenza in loco di un’attività di macinazione risalgono ad un atto patriarchino del XII sec. riguardante un passaggio di mano di alcune proprietà dell’Abbazia di Santa Maria in Sylvis di Sesto al Reghena.

È stimabile che il mulino esistesse molto prima di quella data; è rimasto in attività fino a pochi decenni fa e al suo funzionamento contribuiva la presenza di decine di persone, intere famiglie. Dieci secoli di granaglie, macine, fatiche, ruote dentate, cinghie di trasmissione, carestie, truffe, sofisticazioni, speranze e via di seguito.

Per l’economia medievale e per quella rurale, fino alla meccanizzazione dell’età industriale, il mulino era il centro della vita, la rotazione delle pale attorno agli assi che mettevano in moto le macine corrispondeva simbolicamente a quella dell’asse terrestre per le persone che su di esso basavano tutta la propria sussistenza. Assieme al forno comune e alla fucina del villaggio, il mulino è sempre stato anche un luogo emblematico e di trasformazione alchemica di fondamentale importanza. La materia inanimata si trasformava attraverso di esso in nutrimento fisico e spirituale.

Non è necessario ricordare le tante metafore e allegorie religiose dedicate alla coltivazione dei cereali (Gv 12, 24-25: Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se muore , produce molto frutto. Ve l’assicuro.) alla loro trasformazione (Menando la falce fra le schiere dell’ultimo raccolto falceranno e separeranno il grano dal loglio e getteranno questo nella fornace ardente. Maria Valtorta 181.39) e al loro consumo (E mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Mc 14, 22).

Visto che il tema dello spettacolo andato in scena era un processo per eresia che riguardava il più famoso molitore della storia moderna, una puntualizzazione come questa è sembrata necessaria (La profezia e il dono. Il capolavoro segreto di Menocchio il mugnaio)

L’antico Mulino Braida, le cui macine all’epoca del processo giravano già da almeno cinquecento anni, è stato il luogo ideale per celebrare la figura di quel dotto contadino friulano che finì sul rogo per aver sfidato un potere che non voleva capire e che non lo capiva.

Prima di parlarne nello specifico però è necessario fare almeno qualche riferimento ancora al contesto ambientale nel quale il mulino è compreso.

Il Biotopo Naturale Regionale Risorgive di Flambro è un luogo di per sé magico nel quale tutto è suoni, colori e fiori. Musica è camminare nei 72 ettari di fitta vegetazione tra le acque di risorgiva che poi confluiscono nel fiume Stella.

Qualche ora prima del concerto-spettacolo al mulino è stato possibile fare un’interessantissima visita guidata tra le principali preziose, meraviglie vegetali che la riserva naturale custodisce.

A fare da Cicerone in quell’autentica cattedrale d’acqua sorgiva, rovi ed alberi ad alto fusto, il funambolico custode-mugnaio Ermanno Zanello che, insieme al suo sodale Pietro, hanno introdotto il folto gruppo di fortunati che hanno voluto seguirli, ai segreti e ai misteri delle acque di risorgiva.

Sono stati chiamati in ballo in ordine sparso: Terpeni, strane teorie giapponesi sulla memoria dell’acqua, il sistema orgonico di Reich, la tradizione orientale dei Chakra, l’Albero della vita nelle tradizioni abramitiche, il pensiero vivente di Steiner ed altre amenità di tal fatta, forse un po’ troppo complesse per essere anche solo accennate in una semplice passeggiata tra cespugli di zanzare.

Quella che è sembrata veramente un esortazione condivisibile e necessaria è stata quella di provare a fare l’intero percorso di circa quattro piacevolissimi chilometri, tutti insieme nel maggior silenzio possibile cercando di fare a meno, almeno per quel breve spazio di tempo, della parola, anzi della chiacchiera, nella quale siamo quotidianamente gettati e che intossica la nostra capacità di ascoltare la natura nella quale siamo immersi e poi noi stessi attraverso gli altri e il contrario.

Tra tutti gli esercizi atletici e d’ascesi , realtà molto simili per altro, quello più difficile per noi è proprio quello del silenzio. Spesso, addirittura lo viviamo come la più terribile delle punizioni, una prova al di là delle nostre forze, una tortura delle carni. Siamo così dipendenti dal rumore bianco dei nostri pettegolezzi che ci dimentichiamo di ascoltarci e di ascoltare. Parliamo troppo e male e finiamo per pensare male, senza renderci conto che, parafrasando Nanni Moretti, le parole sono importanti e noi ne sprechiamo sempre troppe.

In silenzio, tra gli alberi, capita di accorgersi e riscoprire che anche l’acqua ha un suono che le è proprio che non corrisponde minimamente al rumore del lavandino o dello sciacquone cui siamo abituati, e così l’insetto, le fronde degli alberi, il volare degli uccelli, la ghiaia, il fango ecc., in un concerto che, nello specifico, è stato del tutto propedeutico a quello che si è svolto al mulino, sul prato, sotto le stelle, tra gli alberi.

Dopo tutto questo peregrinare storico-naturalistico è proprio il caso di dedicare qualche riga all’esibizione di Stefano Montello, agricoltore, poeta e musicista di lungo corso e del fantastico percussionista Zlatko Kaučič.

Montello ha rielaborato per l’occasione un proprio testo su Domenico Scandella, il mugnaio di Montereale Valcellina protagonista dei rivoluzionari studi di Carlo Ginsburg e considerato da molti come un vero eroe del libero pensiero. Il paragone che però è stato fatto tra il suo pensiero e quello dei contemporanei Giordano Bruno e poi Galileo Galilei è risultato eccessivo ed iperbolico, per di più non gli rende minimamente giustizia; l’accostamento è fuori scala e ne schiaccia un’altra volta la personalità che noi conosciamo solamente attraverso le minute del segretario del tribunale e attraverso le parole dell’Inquisitore che lo mandò al rogo.

Farne un colto eroe solitario, un profeta delle genti che si sacrifica e muore durante la sua implacabile battaglia contro le istituzione è un errore di prospettiva che non permette di cogliere nemmeno la straordinarietà del personaggio.

Come provano non solo gli studi di Carlo Ginsburg e di Adriano Prosperi relativi al processo inquisitoriale ma anche quelli di Cesare Scalon sulla produzione e circolazione dei libri in Friuli e sulla biblioteca di Adriano di Spilimbergo (1988) e poi ancora quelli di Ugo Rozzo (1994) Domenico Scandella, il Menocchio era tutt’altro che un solitario eremita profeta pazzo, ma era inserito in una rete di contatti e di scambi culturali molto più vasta di quella immaginabile di un contadino della Val Cellina.

Rivelatore in questo senso il troppo sottovalutato fatto che possedeva dodici libri che sono molti anche per la media attuale italiana, come ha ricordato Montello, che dimostra che il 35% della popolazione non è in grado di leggere e comprendere nemmeno il proprio necrologio nella pagina preposta. Il fatto cruciale non è che Menocchio possedesse dei libri ma che li leggesse, fosse in grado di capirli e che ne rielaborasse i contenuti.

Ma queste tutto sommato sono solo sofisticherie, fumo da trattatisti, roba da dottorini o insolenti, barbuti accademici; il testo scritto e recitato da Stefano Mondello funziona a livello drammaturgico anche se è discutibile da un punto di vista storico e metodologico; è molto evocativo e si sposava benissimo con i chiaroscuri e le luci della notte al Mulino Braida.

È stato trascinante e suggestivo fino all’acme finale della stupenda poesia di Pierluigi Cappello, Mandate a dire all’imperatore che è il caso di citare integralmente perché contiene in se quanto di più emozionante e vivo sia stato scritto dal puro cuore sorgivo e lustrale del Friuli dopo Pasolini e Turoldo.

Così come oggi tanti anni fa

mandate a dire all’imperatore

che tutti i pozzi si sono seccati

e brilla il sasso lasciato dall’acqua

orientate le vostre prore dentro l’arsura

perché qui c’è da camminare nel buio della parola

l’orlo di lino contro gli stinchi

e, tenuti appena da un battito,

il sole contro, il rosso sotto le palpebre

premerete i sentieri vastissimi

vasti da non avere direzione

e accorderete la vostra durezza

alla durezza dello scorpione

alla ruminazione del cammello

alla fibra di ogni radice

liscia, la stella liscia, del vostro sguardo

staccato dall’occhio, palpiterà

né zenit né nadir

in nessun luogo, mai.

Dulcis in fundo, Zlatko Kaučič ha dato ancora una volta prova della sua straordinaria capacità di creare orizzonti sonori immaginifici e imprevedibili. Gli bastano pochi tocchi su i suoi mille ammennicoli per tratteggiare i contorni di una situazione che poi ritma, scandisce e plasma al suon di stridori, cigolii, scricchiolii e tutta una congerie di suoni tra i più bizzarri e strani.

Attraverso quest’ultimi è riuscito,anche questa volta, a materializzare, nello spazio psichico e aereo tra il piccolo palco e gli spettatori, volta a volta: i cieli agnostici di Menocchio, un passato siderale fatto di inquietudini e di profetiche lame di luce, una crudele zuffa contadina tra asce e spuntoni, il processo inquisitoriale come una macchina infernale che mastica e sputa gli imputati e poi ancora, catene e oscurità e in esse minacciose presenze fino alle fiamme che divorano la carne.

I suoi sono stati rumori che gradualmente sfumavano e si diluivano nei suoni e nelle armonizzazioni che facevano emergere dalle acque del tempo quelle ombre lontane e contadine che abitarono il mulino di Montereale Valcellina così come quello di Flambro.

La sua colonna sonora improvvisata ricordava in alcuni momenti le musiche originali di Marco Stroppa per la celeberrima lettura radiofonica del Decameron di Boccaccio a cura di Alberto Asor Rosa (1990).

Bisognerebbe sempre ricordare che nella madia del mugnaio Menocchio, tra i tanti libri, fu ritrovata una copia non censurata proprio del Decameron proibita e piuttosto rara allora anche tra i dotti di nobile famiglia.

Il fatto che lo leggesse, lo capisse e ne divulgasse i concetti, è provato dagli interrogatori del processo durante i quali, non solo espose la sua famosa cosmogonia riferendosi alla cagliatura del latte e alla generazione spontanea dei vermi dal formaggio, ma raccontò all’inquisitore la novella delle tre anella (G1,n3) nella quale si spiega la prossimità delle tre religioni del Libro attraverso l’allegoria di un padre morente che lascia in eredità ai tre figli un preziosissimo anello e due copie assolutamente identiche ed indistinguibili dall’originale che non può essere più individuato.

A perfetta conclusione di queste divagazioni in forma di recensione, si vuole inserire la citazione rabbinica con cui Montello ha iniziato il suo percorso nella storia di Menocchio. Rabbi Tarfon (70 e.v.-135e.v. circa) saggio della terza generazione della Mishnah, diceva: Non sta a te completare l’opera, ma non sei libero di sottrartene.

L’unica verità possibile sarà allora costruire l’eredità da trasmettere ogni giorno con la stessa energia che l’acqua regala alle pale della ruota, che muovono l’asse, che fa girare la coppia conica collegata alle macine, che frantumano i chicchi che, infine, diventano il pane quotidiano del quale faremmo bene a ricordarci sempre di rendere grazie prima di spezzarlo e condividerlo con il nostro prossimo.

© Flaviano Bosco per instArt

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