Questa storia inizia quando ad un famoso chitarrista venne in mente di fare una colonna sonora di un immaginario epico film western tipo I magnifici sette.

Anzi, questa storia inizia con un Incredibile Pasticcio (The Amazing Pudding)

O forse no. Questa storia inizia con una strana notizia sul giornale che diceva di una donna incinta il cui cuore era stimolato da un pacemaker a energia atomica

Però, questa storia inizia anche con una mucca pezzata di cinquanta anni fa di nome Lulubelle III, fotografata sulla copertina di un album di un gruppo inglese.

Infine, questa storia inizia l’altra sera, quando il coro del Friuli Venezia Giulia, gli ottoni dell’orchestra dell’Accademia Musicale Naonis, I Pink Size, davanti ad un incredibile pubblico, hanno eseguito sul palcoscenico del Castello di Udine la maestosa suite sinfonica Atom Heart Mother dei Pink Floyd, una delle composizioni più importanti della musica contemporanea.

È stato un successo davvero meritato per un evento eccezionale, frutto della sinergia che ha saputo creare e gestire il direttore Paolo Paroni impegnato questa estate in tutta una serie di concerti d’altissimo livello e di grande difficoltà esecutiva. Naturalmente, determinante è stata anche la direzione artistica del chitarrista Marco Bianchi e del compositore Valter Sivilotti.

Il giornalista Alessio Screm presentando, con il suo solito entusiasmo, la serata ha affermato che si trattava di un concerto atomico e non si sbagliava proprio per niente. Un’altra cosa che ha detto riguardava gli anniversari. È vero che Atom Heart Mother compie cinquant’anni a ottobre ma è anche vero che il concerto si è svolto nel giorno esatto in cui quattro decenni fa si compiva, con la connivenza di alcuni apparati deviati dello Stato, la brutale strage neofascista della stazione di Bologna che avveniva dopo circa un mese dall’abbattimento del DC9 Itavia nel cielo di Ustica.

È un dovere civico e morale imprescindibile ricordare tutti questi eventi, altrimenti la vera arte rimane incomprensibile, allo stesso modo dei fatti storici e degli avvenimenti. Diversamente, come diceva Gramsci: “Sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi è stato attivo e chi indifferente”. Non è così che deve andare e niente resterà impunito, altrimenti la nostra vita non avrebbe più alcun senso, saremmo tutti come la pecora (Sheep) di cui cantano i Pink Floyd, pascolata e ingrassata per bene, con l’anima liberata da coltelli lucenti, appesa ai ganci e trasformata in costolette dopo essere stata macellata.

Di cosa parla Atom Heart Mother? Cosa significano i suoi sei movimenti? Tutti quei suoni hanno un messaggio o sono solo belli di per se?

L’interpretazione più corretta a ragion veduta è quella che intende la suite come l’esistenza dell’umanità minacciata dalla mostruosità nucleare che finisce per deflagrare, distruggendo la vita che però rinasce dalle proprie ceneri. Quella madre con il pacemaker atomico, di cui dicevamo, diventa metafora di chi dona la vita ma è al contempo principio stesso di distruzione perché porta nel proprio cuore la morte nucleare.

Sembra un concetto semplice, un temino delle elementari ma cinquant’anni fa la possibilità di un conflitto nucleare totale era tutt’altro che remoto; è una grave minaccia alla nostra esistenza anche adesso ma ci hanno abituato a non pensarci.

Abbiamo imparato ad amare la Bomba e a non preoccuparci, come in quel vecchio film di Stanley Kubrick (Dr. Strangelove or: How I learned to stop worrying and Love the Bomb) dove si parla dell’Ordigno di fine di mondo e tanti saluti a tutti. Proprio il regista inglese avrebbe voluto Atom Heart Mother come colonna sonora del suo film Arancia Meccanica ma, dopo alcuni tentativi, non se ne fece nulla per gli aspri contrasti che ebbe con la band.

Dopo aver letto della mamma atomica con in grembo un bambino, ai quattro musicisti, ma soprattutto a Roger Waters, venne in mente che la bomba, come nell’omonimo componimento di Gregory Corso (Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice dei cieli Non posso odiarti) poteva essere il simulacro terribile di una madre crudele che da e toglie la vita a proprio piacimento e senza alcuna razionalità. Il concetto ritornerà anche nel lavoro finale dei Pink Floyd in formazione classica nel personaggio della madre-matrigna di The Wall.

Le stragi di Ustica e di Bologna sono tra i frutti tossici e tragici di quel clima avvelenato di contrapposizione tra potenze nucleari, politiche ed economiche del lungo dopoguerra del XX sec che non ha ancora esaurito i suoi venefici. La musica dei Pink Floyd è diventata un classico-contemporaneo proprio perché è stata in grado di farsi interprete dello spirito dei tempi a volte perfino con largo anticipo su di essi.

Bene hanno fatto allora l’altra sera il chitarrista Marco Bianchi con la band Pink Size (Matteo Ballarin: Chitarre e voce, Denis Ronchese: Tastiere, Andrea Ghion: Basso, Manuel Smaniotto: Batteria) ad aprire la serata con un’altra suite molto significativa in questo senso. Dogs è forse una delle canzoni più politiche composte dai Pink Floyd per Animals (1977) l’album più schierato e militante contro i cosiddetti Pigs, gli sporchi maiali che governano l’umanità portandola dritta verso un’inevitabile catastrofe, per qualcuno il vero apice della loro carriera musicale e artistica.

I cinque hanno eseguito il difficile, lungo brano con un’accuratezza e una precisione da lasciare esterrefatti che va oltre anche l’idea della semplice cover band. Il loro livello di perfezione mimetico-musicale gli permette soprattutto di valorizzare la musica e i versi che stanno suonando senza dare troppo spazio alla spettacolarizzazione, alle mossette, al superfluo in quanto tale. La musica che interpretano è soprattutto sostanza, messaggio, esortazione. Chi si ferma alle pur meravigliose melodie e suoni si perde gran parte dell’intrinseca potenza e significato.

Dicono i versi di Dogs:

Devi colpire quando è il momento giusto senza pensare / E dopo un po’ puoi lavorare ai punti dello stile / Come la cravatta del club e la stretta di mano / Un certo sguardo negli occhi e un sorriso facile / Devi essere credibile alla gente a cui menti / così quando loro ti volteranno le spalle / Avrai la possibilità di affondarci il coltello.

Sono rivolti a tutti quei cani che nella nostra società, ritengono che l’unico modo di progredire sia azzannare e sbranare gli altri a tradimento, soprattutto i più deboli e indifesi. Sono belve feroci quelli che mettono le bombe, che violentano e uccidono, ma lo sono altrettanto gli arrampicatori sociali senza scrupoli, gli haters nei social, i razzisti e anche quelli che non soccorrono i loro fratelli che annegano con il rosario in una mano e facendosi il segno della croce con l’altra, alla faccia della Carità cristiana.

La band ha eseguito con l’ausilio del coro e dell’orchestra anche due brani di rock progressivo commissionati per l’occasione: Hijacked veloce e tagliente, con il virtuosismo di Mario Bianchi in perfetta evidenza e Wonderland ispirato alla celeberrima Alice alla quale, per l’occasione, ha prestato la voce Sara Della Mora, dall’ugola d’impostazione fin troppo classica per la musica progressiva ma di ottimo talento ed efficacia.

Subito dopo con quasi cento elementi schierati sul palco il Maestro Paolo Paroni ha dato l’attacco di Atom Heart Mother e lo sbalordimento del pubblico è stato ancora più grande. Il primo movimento (Father’s Shout) emerge maestoso dalle brume del tempo grazie agli ottoni, all’introduzione del tema principale e dei rumori di sottofondo che non sono più disturbo ma parte integrante della composizione. L’interpretazione non solo è fedele all’originale ma ha anche la potenza propria che solo può avere un ensemble affiatato di professionisti che suona davanti ad un pubblico.

In Breast Milky, secondo movimento, meraviglioso l’intersecarsi delle tastiere di Denis Ronchese e del violoncello di Alan Dario precisi per quanto riguarda la partitura ma soprattutto palpitanti e vivi per l’esecuzione. Straordinario l’assolo di Matteo Ballarin, che ripete quello comunque inarrivabile di David Gilmour.

A farla da padrone in Mother Fore è il coro che investe gli spettatori di tutta la sua magia e imponenza in un bilanciamento emozionante tra voci femminili e maschili che si rispondono e alternano. La bravura del coro del Friuli Venezia Giulia dall’inaudita versatilità in grado di dare il meglio di se, dal canto gregoriano alla musica sacra barocca, dall’opera fino al Prog Rock, oltre ad essere merito dei singoli cantanti è in gran parte frutto del Maestro Cristiano dell’Oste che da tanti anni li prepara e dirige con grande passione e preparazione. Non si è visto sul palco per i meritati applausi alla fine del concerto, lo ringraziamo in questa sede di tutto cuore per la sua dedizione e per gli splendidi risultati della sua formazione corale.

Il bizzarro concime (Funky Dung) è lo strampalato argomento del quarto movimento dell’opera che vede un grandissimo lavoro di basso (Andrea Ghion a fare il Roger Waters della situazione), in gran spolvero le tastiere ma, decisamente in primo piano, un lungo passaggio con il coro che gioca divertito con suoni onomatopeici che sempre stupiscono e inquietano come provenissero da misteriose voci aliene che si burlano di noi.

Un altro grande assolo alla chitarra slide fino al riesplodere del tema principale in cui il decimino d’ottoni dell’orchestra dell’Accademia Musicale Naonis si mette in luce per la rotondità e profondità dei suoni distinti nettamente in due parti quasi contrapposte dalla partitura che, in origine, per quanto riguarda i fiati, fu aggiunta da Ron Geesin a quella nuda iniziale che prevedeva solamente il gruppo rock senza orchestra o coro.

Tra le parti più strabilianti eseguite nel concerto, il movimento Mind Your Throats, please ha dimostrato tutta la meravigliosa competenza del gruppo. Il brano è sostenuto da un caos rumoristico che rende acusticamente la distruzione della guerra e l’orrore della devastazione nucleare. I quattro Pink Size hanno riprodotto esattamente quello che su disco appare come il clangore di una bolgia infernale. Per avere un sound dalla resa così intensa non basta semplicemente copiare l’originale e sarebbe già un miracolo, è necessario un talento musicale autentico, coltivato e affinato in modo corretto nel corso degli anni. Eccezionale, non solo in questa occasione, il percussionista Manuel Smaniotto dalla battuta senza una sbavatura quasi indistinguibile da quella di Nick Mason.

Gran finale di suite con Remergence, la nuova emersione mette in risalto la straordinaria sinergia di tutte le componenti della falange orchestrale, dai corni alla batteria passando dalle voci e dal Direttore che si sono impegnati in un crescendo emozionante che ha pochi paragoni per quanto riguarda il rock sinfonico.

Si arriva allo strappo finale con il cuore in gola, le pulsazioni fuori controllo e una strana luce negli occhi che contiene e compenetra l’emozione di tutti i presenti.

Dopo cinquant’anni Atom Heart Moter, nonostante gli stessi Pink Floyd l’abbiano più volte pubblicamente rinnegata (testualmente Gilmour: “Una vera porcheria” Waters: “Una mezza schifezza”) e abbia annoiato a morte Leonard Bernstein in persona, rimane un’opera di grandissima potenza e visionarietà, più attuale di allora, dimostrando che un autentico capolavoro è in grado di svincolarsi perfino dai propri autori prendendo vita e proseguendo autonomamente il proprio cammino per le strade del mondo.

Ma la mirabolante serata non si è conclusa qui, i bis sono sembrati quasi altrettanto interessanti con una stappacuore Wish you where here alla quale ha partecipato di nuovo il chitarrista Bianchi questa volta in duetto acustico con Matteo Ballarin da brividi. Al pubblico in estasi e mai sazio di tanta meraviglia è stata donata anche una versione semi-orchestrale di una delle canzoni più belle di tutti i tempi Confortably Numb che ha trasportato tutti con le sue onde e le sue nuvole di memoria.

Il terzo encore è stato ancora una volta il movimento finale della suite Remergence che non si smetterebbe mai di ascoltare.

Questo concerto ha dimostrato ampiamente che il pubblico ha ancora tanta voglia di ascoltare della grande musica ben suonata ed eseguita anche se non facilissima. Non è vero per niente che funzionano solo le canzonette e le faccine carine dei talent, se la proposta musicale è di alto livello si possono avere ugualmente le lunghe file ai botteghini e le folle che accorrono.

La nostra Regione è piena di grandi talenti, come dimostrano gli straordinari musicisti di questo concerto, speriamo che chi di dovere capisca che una miniera d’oro come questa va sfruttata a fondo perché è in grado di far riaffiorare le energie ideali e positive di cui abbiamo estremo bisogno, soprattutto in questo momento.

La forza della musica può abbattere ogni ostacolo e vincere tutto le malattie e i morbi letali della nostra società che sono in primo luogo morali ed etici. L’ultimo ispirato album in studio di Roger Waters, ex leader e mente dei Pink Floyd, ha per titolo una domanda retorica e provocatoria: E’ davvero questa la vita che vogliamo? (Is this the life we really want?), intendendo il mondo degenere del profitto, del sopruso, della violenza, del razzismo, della prevaricazione.

La risposta dei tanti in Castello di Udine è stata decisamente negativa. Il mondo che tutti vogliamo è quello della pace, della fratellanza e della musica. Un concerto come quello diretto dal Maestro Paolo Paroni ci permette sia di sognarlo ancora, sia di imparare a costruirlo.

A tutti quelli che si sono persi questa meraviglia in musica non ci resta che dire: How I wish, how I wish you were here.

© Flaviano Bosco per instArt

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