Non lo nego: “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie è da sempre uno dei miei romanzi preferiti. Oltre a quello che ho riletto più volte -quindici finora, numero certamente destinato ad aumentare. Una macchina della tensione perfetta, che fa precipitare il lettore in un gorgo di tensione e di morbosa curiosità nello scoprire cosa succederà nella pagina successiva. E’ quindi con profondo interesse che mi sono avvicinato alla versione teatrale che in questi giorni si può ammirare al Politeama Rossetti di Trieste, mescolato ad un’eccitazione simile a quella di un bambino che non vede l’ora di scartare il regalo che già sa essere pronto per lui sotto l’albero di Natale.

Chi ben conosce il romanzo originale potrebbe (e anzi con ogni probabilità lo ha già fatto) pensare che la sua particolare struttura renda difficile una trasposizione sul palco. In primo luogo per tutti i “non detti” dei protagonisti, che tengono quasi sempre per sé i pensieri più oscuri in merito alle accuse rivolte loro, senza parlarne con gli altri. E poi per il fatto che in un giallo è relativamente facile “non raccontare” certi piccoli particolari fondamentali per la risoluzione del mistero, come ad esempio chi tra i personaggi si è avvicinato a una brocca in un certo momento, mentre sul palco ciò non può essere nascosto. Più in generale potrebbe esserci un certo scetticismo nel riuscire a ricreare in scena una tensione costante e sempre montante come quella del libro.

Eppure il rapporto tra “Dieci piccoli indiani” e il palco è antico e proficuo. La prima rappresentazione risale infatti al 1943, solo quattro anni dopo la pubblicazione del romanzo, e fu curata dalla stessa Christie. Che in quell’occasione decise il famoso cambio di finale, ritenendo quello originale troppo tragico e deprimente per un mondo sconvolto dagli orrori della guerra. E sostituendolo con uno nuovo, maggiormente edificante, che è poi diventato lo standard de facto per tutte le rappresentazioni successive, sia teatrali che cinematografiche.

Questo fino ad oggi. Perché la nuova versione, nella regia dello spagnolo Ricard Reguant chiamato poi ad adattarlo anche in italiano, ha un primo enorme merito nel tornare al finale originale. Perché diciamolo pure, senza paura di andare contro le volontà della Christie: il finale alternativo sa di posticcio, di un happy ending che non ha senso e che risulta forzato nel suo snaturare completamente la psicologia e il comportamento sia degli ultimi due “indiani” in vita, sia della mente dietro a tutto il mistero.

Primo merito, dicevamo. Ma non certamente l’unico: sebbene presenti alcune piccole ombre (su cui torneremo in seguito), l’adattamento di Reguant vive principalmente di luci e regala un’esperienza che sa ben rendere l’atmosfera di tensione originale.

Ma andiamo per ordine. Non ci si faccia ingannare dal restauro del finale originale, che può far pensare ad un’aderenza perfetta (o quasi) con il romanzo in ogni suo aspetto. Niente di più lontano dalla verità. Reguant ha lavorato sapientemente sui personaggi, andando oltre ciò che la Christie tratteggia ed espandendo (in alcuni casi cambiando lievemente) il loro carattere e la loro psicologia. Modificando anche le loro interazioni, rendendoli per esigenze di scena più “aperti”: laddove nel romanzo i malcapitati confessano solo a loro stessi le proprie colpe, qui quei monologhi interiori si trasformano in ammissioni di fronte agli altri ospiti della villa. A volte dopo dibattiti anche accesi, a volte come liberazioni, quasi con senso di sollievo. Ciò modifica inevitabilmente anche i rapporti tra i protagonisti, che interagiscono non più in base a semplici sospetti ma al sapere con certezza di cosa si sono macchiati.

Non sempre quest’opera di cesello psicologico è ampia, a volte si limita a particolari o velati accenni che però sanno dare un’ottica nuova e interessante al personaggio. Un ottimo esempio è Emily Brent: il modo lascivo in cui guarda Vera Claythorne o di cui parla della governante che cacciò di casa fa intuire un interesse ben poco casto nei confronti delle donne e questo ben stride con l’immagine da anziana bigotta e puritana che la Christie ha costruito per lei.

In altri casi le differenze sono più ampie. Ad esempio il generale McKenzie: nel romanzo completamente rassegnato alla morte, anche mentre rivela a Vera la sua colpa, mostra invece sul palco un’inaspettata rabbia e forza. Grazie anche a un fantastico Alarico Salaroli che sa riempire completamente la scena nella sua altalena tra scatti d’ira e desiderio di pace. Oppure il capitano Lombard: l’avventuriero è qui decisamente più scanzonato rispetto al libro, l’unico che manterrà una certa ironia fino alla fine e che si renderà protagonista di quasi tutti i momenti “leggeri”, con battute (sempre molto eleganti) che spezzeranno brevemente l’atmosfera sempre più greve delle vicende. Una specie di “canaglia buona”, con cui ci si trova inevitabilmente a empatizzare.

Un’opera simile è stata fatta per Blore ma qui con risultati meno convincenti. Originariamente investigatore serio e competente, in scena diventa un personaggio un po’ buffo, preso a volte in giro dagli altri, quasi una “macchietta” che sì, in alcune occasioni strappa qualche sorriso genuino ma in generale non si integra perfettamente nella generale dell’atmosfera di tragedia imminente.

Il ritmo dato alla storia e alle morti è invece molto ben studiato. La prima parte è stata allungata molto (il primo atto termina con il primo omicidio) ma ciò non la rende noiosa, tutt’altro: questo permette anzi un’ottima introduzione di tutti i personaggi, incluse quelle prime due vittime che -vista la loro velocissima dipartita- nel romanzo sembrano quasi delle comparse secondarie e che qui invece hanno dei momenti interessanti a loro dedicati. Ciò ovviamente porta ad un secondo atto sempre più “veloce”, dove i tempi tra una morte e l’altra si fanno sempre più stretti e che fa pienamente onore a quella sensazione di discesa in un gorgo, sempre più rapido e sempre più inevitabile, che permea tutte le quasi 140 pagine del libro.

Tutto oro quel che luccica, quindi? Non proprio. Ci sono infatti alcuni aspetti che lasciano qualche perplessità. Il primo è la fantomatica filastrocca dei dieci piccoli indiani (“soldatini” in questa versione). Che viene usata in maniera decisamente ossessiva ed esagerata. Efficace e d’impatto il fatto che sia sempre visibile sul palco, incisa su una colonna al centro della scena, e che le strofe si spengano man mano che gli omicidi avvengono. E interessante anche il coro di voci bambinesche che la recita per intero a inizio spettacolo, a sipario ancora chiuso, anche se l’effetto sarebbe stato migliore a luci di platea spente.

Non finisce qui, però. Ad ogni omicidio infatti il coro bambinesco ripeterà la relativa strofa, mentre gli attori sul palco si bloccano e le luci in scena calano, per lasciare solo un occhio di bue sulla vittima di turno. Un effetto un po’ troppo cinematografico e statico che stride con il forte dinamismo delle vicende. E che rende davvero troppo presente la filastrocca, quasi come fosse lei la vera assassina. Mentre nel romanzo essa aleggia sì nell’aria ma sempre come una minaccia di sottofondo, una specie di rumore di fondo fastidioso che non si riesce a mandar via. Mai come vera protagonista.

Il secondo aspetto non totalmente convincente è il già citato finale. Sia chiaro: da fan profondamente innamorato del romanzo non smetterò mai di elogiare la scelta di aver restaurato quello originale: spietato, sorprendente e appagante al tempo stesso. Ma a differenza del libro, in cui tutto viene spiegato dopo l’ultima morte, qui si è deciso di sciogliere l’enigma in parallelo ad essa, con inoltre l’assassino impegnato in un’opera di convincimento nei confronti del superstite (un po’ come accadeva nel finale alternativo, per chi lo conosce).

E’ probabile che all’origine ci siano pure esigenze di scena: spiegare un mistero così ingarbugliato tramite un dialogo (quasi una lite) tra due protagonisti è più “dinamico” e riempie di più la scena rispetto ad un monologo forse troppo lungo e statico da attuare su un palco. Anche se la cosa avrebbe forse potuto essere risolta con dei controcampi in cui gli altri attori rimettono in scena le varie morti e in cui stavolta l’intervento dell’assassino sia ben evidente, mentre lui stesso lo confessa e lo dettaglia.

Quella messa in scena è quindi una soluzione che snatura, ridimensiona e toglie peso alla machiavellica intelligenza dell’assassino e al suo piano. Che non appare più così perfetto fino al minimo dettaglio (tanto da permettere all’omicida di limitarsi ad essere uno spettatore) se per essere sicuro di  portarlo a compimento si rivela necessaria una così forte presenza e influenza di chi l’ha congegnato. Peccato inoltre per il fatto che -a differenza del romanzo, in cui ogni assassino viene spiegato- qui ci si militi a rivelare all’attonito sopravvissuto come siano state possibili solo le ultime tre morti.

Al netto di questi aspetti ci troviamo comunque di fronte ad una versione molto convincente, che riesce a tradurre con efficacia l’atmosfera originaria e che è in grado di conquistare sia chi il romanzo già lo conosce e lo ama, sia chi non ha ancora potuto leggerlo. La miglior dimostrazione di ciò sono stati tutti gli “oooohhh” di sorpresa in platea (principalmente delle scolaresche presenti alla prima, ma non solo!) quando viene finalmente rivelato il volto del colpevole.

Che siate appassionati di libri gialli o meno, quelle messe in scena da Reguant sono due ore abbondanti di qualità pura, che sapranno tenervi incollati alla poltroncina fino all’ultimo istante.

Luca Valenta / ©Instart

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