© photo by Lee Millward

L’album dei Genesis del 1973, Selling England by the Pound (Svendere l’Inghilterra un tanto al chilo) è un immortale, assoluto capolavoro dell’arte contemporanea e non si discute! La recensione potremmo già chiuderla qui, visto che il concerto di Pordenone di Steve Hackett, Genesis Revisited Tour 2019 ha riproposto in modo filologico, letterale e interlineare, con fedeltà praticamente assoluta, quella meraviglia della musica. E, invece, non bastano le parole per tutto ciò che quell’opera d’arte immensa suscita ad ogni nuovo ascolto.

Esagerazioni, si dirà; farneticazioni da fan dei Genesis e della musica progressiva. Molti enobarbi, non attribuiscono ancora al rock quell’importanza cruciale nella storia della musica con la maiuscola che si merita, non vogliono ammettere che, da tempo, si è guadagnato un posto di primo piano anche nei confronti della musica colta o d’arte.

Con i Genesis del periodo prog (1969-1976) non c’è proprio da sbagliarsi, già ad un primo distratto ascolto si capisce bene di trovarsi di fronte a qualcosa di completamente diverso dalla musica pop, era così cinquant’anni fa e lo è incredibilmente ancora oggi.

Steve Hackett, formidabile chitarrista, che di quella stagione è stato uno degli alfieri, già da diversi anni rende omaggio a quelle composizioni che gli appartengono di diritto perchè in gran parte scritte di suo pugno e delle quali è ancora, naturalmente, uno dei migliori e insuperati interpreti.

Questo non vuol dire che si sia fermato li in passiva rimemorazione dei bei tempi andati. La sua carriera solistica, dopo la fine dell’esperienza con i Genesis (1977) è stata lunga, intensa, feconda e lontana dall’essersi conclusa; ha pubblicato 22 album da solista più un centinaio di varie incisioni in una lista interminabile di collaborazioni, partecipazioni, raccolte, live.

Infatti, il concerto di Pordenone è stato diviso i due set, nel primo l’artista e la sua band hanno degnamente celebrato i 40 anni dalla pubblicazione del suo terzo solo album, il pregevole Spectral Mornings, eseguendone alcuni brani; per poi presentare una parte del nuovissimo fiammante lavoro The Edge of Light.

Nel secondo attesissimo set la band ha eseguito integralmente Selling England by the Pound con l’aggiunta di alcuni generosi bis.

Ma andiamo con ordine. Prima cosa da notare è che tutta l’esibizione all’aperto, nello splendido spazio del parco San Valentino, si è svolta sotto l’influsso dell’eclissi lunare che è iniziata alle 20:44 ed ha raggiunto il suo massimo alle 23:30. Sappiamo bene quanto certi scenari e orizzonti sempre un po’ misteriosi e inquietanti siano stati utilizzati della musica progressiva. Sempre nel 1973 usciva anche l’epocale Dark side of the Moon dei Pink Floyd così come Larks’Tongues in Aspic dei King Crimson e come capolavori, anche sul piano astrale, siamo proprio a posto.

Preceduto da queste suggestioni e da un folto pubblico in trepida attesa, puntualissimo, alle 21:15, Hackett è salito sul palco con la sua band.

L’inizio è stato sfolgorate con Every Day, canzone da Spectral Mornings del 1979. La line up sul palco non è molto diversa da quella vista a Lignano nel 2017 in uno splendido concerto in riva al mare o da quella del teatro Verdi sempre di Pordenone del 2014.

Roger King fantastico tastierista che non ha sfigurato di fronte alle originali composizioni di Tony Banks; Craig Blundell alla batteria che sfoggiava un’enorme batteria a doppia gran cassa con un vasto assortimento di aggeggi, piatti e ammennicoli vari che farebbero la gioia di ogni percussionista; Rob Townsend al sax soprano, tenore e ai flauti, vera rivelazione di questo tour, efficacissimi i suoi interventi anche nei nuovi arrangiamenti delle vecchie canzoni; Jonas Reingold al basso e alla chitarra 12 corde nonché alla Double Neck (6 corde + 4 corde) perfetto accompagnatore ed esecutore dei voleri del band leader; ultimo ma non certo per importanza e bravura, il cantante Nad Sylvan cui tocca l’ingrato condanna di essere sempre paragonato a Peter Gabriel, intelligentemente non cerca di imitare l’unico e inimitabile ma, con grande talento, presta la propria splendida voce a quel repertorio senza forzare o voler essere quello che non è.

I brani si susseguono impetuosi e seppur alcuni siano risultati del tutto sconosciuti al pubblico con l’ultimo album uscito solo poche settimane fa, il divertimento era palpabile in ognuno dei presenti, se ne stavano zitti e attenti perfino quelli che avevano esagerato con le birre dei fornitissimi chioschi del festival.

Si sono fatte notare Under the eye of the sun, emozionante canzone del nuovo album che ha subito fatto capire, a chi aveva ancora qualche dubbio, che Hackett in tutti questi anni non ha perso un grammo del suo smalto e che, alle soglie del settantesimo compleanno, continua a sfornare musica piacevole e interessante che meriterebbe maggiore attenzione dai media nostrani che continuano a rimpiangere ancora stupidamente l’età dell’oro del vecchio prog.

Ancora da Spectral Mornings è stata presentata una versione tutta strumentale di Tigermoth contro tutte le guerre delle quali fa percepire con i suoi crescendo, le sue esplosioni e la tremenda quiete tutta l’assurda crudeltà. E poi la track omonima, anch’essa priva di cantato, che da il titolo all’intero album, delicata ballad dalle armoniose tessiture che rivela quella che è sempre stata la caratteristica principale del chitarrista e cioè la vena melodica e sognante fatta di note lunghe e tirate dal gran riverbero e di un virtuosismo mai fine a se stesso o eccessivamente pirotecnico ma sempre equilibrato e puntuale.

Durante la prima parte dello show i musicisti della band hanno potuto anche fare sfoggio della propria perizia tecnica con alcuni esplosivi assolo come quello della batteria che ha preceduto di poco l’intervallo.

Tra il pubblico, l’emozione e l’attesa durante la pausa cominciavano a farsi spasmodiche fino a quando, alle 22.25, la band è tornata sul palco ed è stata di nuovo magia.

Can you tell me were my country lies? Puoi dirmi dove si trova la mia patria? Disse il fauno in uniforme agli occhi del suo vero amore . “Sta con me!” Gridò la Regina del può essere. Con questi misteriosi versi cantati a cappella, comincia Dancing with the moonlight Knight e non ci poteva essere canzone migliore sotto un’eclissi di Luna.

Su questi brani è stato scritto talmente tanto che è difficile trovare qualcosa di assolutamente inedito però non tutto è ancora così noto al grande pubblico. E allora come recita una rubrica della Settimana enigmistica, Forse non tutti sanno che: la canzone è dichiaratamente ispirata all’inno patriottico Land of Hope di Edward Elgar (1857-1934) con versi del poeta A.C.Benson (1862-1925) espressamente citati. L’inno del 1902 magnificava le sorti del regno di Albione. Peter Gabriel e lo stesso Hackett per contrasto intendevano criticare, sferzando con caustica ironia la perdita degli antichi valori d’integrità, onestà, speranza e gloria (Citizens of Hope & Glory) e la loro svendita a peso insieme all’intera nazione. Epocale il solo di Hackett che reinventò le tecniche chitarristiche del Tapping e dello Sweet-Picking e continua a farlo. Sentire risuonare anche al parco San Valentino quelle note ha fatto vibrare il cuore di tutti.

Seconda canzone dell’album è I know what I like (in your wardrobe). In qualche modo riferita alla prima racconta di un buono a nulla che per sopravvivere è disposto a tutto. E’ la storia di un Accattone senza futuro e senza onore, squallido prodotto della società corrotta in cui vive. In origine, per cantato e melodie, era una canzone d’ispirazione beatlesiana che piaceva molto a John Lennon. Il nuovo arrangiamento mininvasivo introduce i fiati che pur cancellando l’eredità di Mc Cartney e soci regalano una nuova dimensione ad un brano che si credeva perfetto.

Segue Firth of Fifth, tra i vertici assoluti della produzione dei Genesis e, senza tema di smentita, tra i brani più importanti di sempre del rock. Per quanto distaccati e critici si possa essere, dopo i primi accordi del pianoforte nell’introduzione, si smette di ragionare e ci si lascia trasportare in una dimensione di pura, assoluta bellezza. Tutti conoscono, oppure dovrebbero, l’epico assolo di Hacket tutto incredibili arpeggi e colori psichedelici. Sentirlo dal vivo dalle dita del Maestro è un’emozione impagabile. Lacrime hanno rigato, ancora una volta, le guance irsute dei vecchi fan e hanno suscitato sorrisi di gioia sui visi delle nuove leve del prog.

More Fool me è uno strumentale intimo e molto dolce che, in qualche modo fa da preludio ad una delle canzoni più controverse della storia dei Genesis. The Battle of Epping Forest, in buona sostanza, racconta dell’epico scontro di due gang rivali (Cause they disagree on a gangland boundary) E un brano magnifico e divisivo che provocò non pochi problemi al gruppo e fu una delle prime avvisaglie delle tensioni che ne provocarono un primo tracollo.

Concepito dai quattro quinti della band come un lungo strumentale sinfonico, vide Peter Gabriel imporre un fluviale testo che lo trasformò in una piccola straordinaria pièce teatrale ispirata vagamente agli scontri tra bande di West Side Story di Bernstein che agli attuali spettatori compulsivi di serie tv fa venire in mente alcune sequenze di Peaky Blinders. Chi l’ha sentita al concerto di Pordenone non ha percepito minimamente l’assurda polemica di tanti anni fa ma ha apprezzato solamente la forza teatrale di un’eccezionale partitura per voce e gruppo rock; il resto sono solo chiacchiere.

Alla lunghissima suite è canonicamente seguito After the Ordeal una sorta di terzo tempo pacificato e mesto, la quiete dopo la tempesta. Pur essendo solenne e poderoso ha un respiro largo e sembra lo scorrere di un gonfio fiume di pianura che, dopo un temporale, porta le sue placide acque al mare.

The Cinema Show, canzone tra le più amate in assoluto del gruppo, ha per tema il rapporto uomo-donna che tratta con riferimenti al cinema, al teatro elisabettiano (Romeo e Giulietta) e alla mitologia classica facendo rivivere l’indovino cieco Tiresia, unico essere umano ad aver provato la trasformazione in entrambi i generi. Molti tra il pubblico, conoscendo l’opera a memoria nota per nota, accordo per accordo, a questo punto del concerto, sapevano bene che si stava scivolando verso la conclusione.

Senza por tempo in mezzo, infatti, ci si è trovati immersi nelle ultime note della geniale Aisle of Plenty che recita, letteralmente, la lista della spesa di una vecchia signora (Old Tessa) completamente alienata dentro ad un supermercato dove può comprare di tutto tranne la felicità. Musicalmente si riprendono gli accordi del brano di apertura quasi a voler chiudere il cerchio del racconto che a molti critici miopi è parso disgregato e sconclusionato.

In realtà, pur nella sua complessità il discorso è unico: fare un ritratto in musica della decadenza dell’Inghilterra. La vecchia Tessa, in questo senso, è proprio l’antica gloriosa nazione che da splendida culla del diritto e della giustizia si è tramutata in una landa desolata (The Waste land di T.S.Eliot è tra le fonti dichiarate d’ispirazione) in balia di accattoni, gang criminali, nella quale nessun patto e rispettato e non vi è rispetto ne per gli uomini, ne per le donne ma dove tutto ha un prezzo e dove tutto è in vendita, come la famosa libbra di carne umana nel Mercante di Venezia di Shakespeare che, giustamente, Shylock pretende.

Se l’esecuzione dell’intero album si è così conclusa non è però finita la meraviglia che è continuata con un brano scartato dalla scaletta originale e rielaborato anni dopo dallo stesso Hackett e da Peter Gabriel (Déjà vu) e con due corposi bis che hanno estasiato il pubblico che, onestamente, non poteva pretendere di più.

Lo show di Steve Hackett e della sua band è stato, al solito, musicalmente perfetto, matematico e di una precisione geometrica. Ai pochi detrattori tanta perfezione appare come algida, glaciale freddezza fino alla snobistica cerebralità; ai più, al contrario, sembra una delizia di purezza cristallina, una sorgente d’acqua rigenerante mentre le sabbie del tempo sono state erose dal fiume del cambiamento costante (The sands of time were eroded by the river of constant change).

Memorabile!

© Flaviano Bosco per instArt

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