Concludiamo con qualche ritardo la recensione di parte dei film presenti all’ultima edizione del festival udinese sul cinema asiatico. Negli ultimi mesi alcune pellicole presentate, soprattutto nella canonica retrospettiva, hanno acquisito una straordinaria attualità.

La rassegna indagava la rappresentazione nel cinema occidentale di tematiche e personaggi asiatici; come si è potuto vedere l’incontro tra Oriente e Occidente sul grande schermo non è sempre stato facile tra stereotipi e pregiudizi da entrambe le prospettive.

Non è cosa nuova, fin dai tempi di Alessandro Magno, il problema si presenta come un autentico “nodo di Gordio”, la settima arte è una delle ultime ad essersi occupata della questione. Ciò nonostante è un punto di vista di straordinario interesse che può aiutarci, in modo determinante, a cercare di capire il nostro sfortunato presente e quello che ne seguirà.

Tra i tanti film uno in particolare è sembrato avere caratteristiche e contenuti adatti allo scopo. Inutile ribadire in questa sede la grandezza assoluta come opera d’arte di “Hiroshima Mon Amour” di Alain Resnais basato su un soggetto e la sceneggiatura di Marguerite Duras, sarebbe come continuare a discutere dell’importanza di “Guernica” di Picasso per l’arte contemporanea, del resto ci aveva già pensato lo stesso Resnais in un omonimo cortometraggio del 1950. Il film complesso e stratificato affronta temi esistenziali di grandissima importanza che non possiamo tematizzare in questa sede, dovendone scegliere solo uno, non è tra i più marginali quello dell’oblio.

Per quanto siano profondi, drammatici e duri i nostri ricordi finiamo per dimenticare e sopravvivere a qualunque cosa.

master

Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais (1959)

L’incubo della guerra nucleare sembrava parte di un vecchio delirio da “Guerra Fredda”, una specie di anacronismo a cui nessuno pensava più. L’ultima volta se ne era parlato, a livello planetario, due decenni fa dopo lo sciagurato intervento degli Stati Uniti in Afghanistan. Allora forse per la prima volta si era utilizzato forse per la prima volta il sciagurata, demenziale concetto: di “Intervento preventivo di bombardamento chirurgico con armi nucleari tattiche a impatto limitato e circoscritto” quello altrettanto folle della cosiddetta “Guerra preventiva” era già stato utilizzato decenni prima. Proprio negli ultimi giorni il cow boy Joe Biden ha ricominciato a vaneggiare sul “First nuclear strike” in risposta al delirante “Protocollo nucleare” dei criminali russi.

Chi ritiene accettabili considerazioni del genere, prima di rivolgersi ad uno psichiatra di quelli bravi dovrebbe ritornare di filato al cinema a vedersi lo straziante capolavoro di Resnais/Duras. Come dicevamo, il FEFF 2022 ci ha dimostrato e offerto l’occasione di riflettere nuovamente attraverso la VII arte sui temi dell’attualità più roventi e sui principi esistenziali inalienabili.

Nelle indicibili, celeberrime prime sequenze del film, si vede una coppia mentre fa l’amore e sussurra dell’orrore di Hiroshima; lei occidentale, la meravigliosa Emanuelle Riva, racconta delle sue quattro visite al museo memoriale che ricorda i 10000 gradi scatenati dall’esplosione che hanno incendiato il metallo, vaporizzato i corpi e trasformato l’erba in cemento.

“Ho visto tutto questo con i miei occhi” – dice lei -”Non hai visto niente” – risponde lui, un prestante e cortese come solo un giapponese sa essere.

Nessuno ha ancora mai visto niente di che cos’è l’orrore nucleare vero; è talmente enorme e spropositato che non è nemmeno descrivibile, la sua stessa natura ci rende muti e ciechi e la sua maligna coltre ci avvolge completamente.

Le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki sono state letteralmente tenebra di luce. Niente potrà mai sanare quella ferita inferta alle ragioni dell’umano oltre che ai corpi e all’ambiente tutto. E’ stato un punto di non ritorno sia per i figli di Abramo, sia per quelli di Amaterasu.

Al centro dell’orrore, nel luogo esatto dove il sole nucleare ha vaporizzato in un istante centomila anime, possono rinascere l’amore e la passione? E che senso hanno? Lei, nel film non ha nome e viene indicata solo come “Elle”, si trova a Hiroshima per girare un film (Cosa si può girare a Hiroshima se non un film sulla pace?) viene da Parigi, ma in realtà, è originaria di Nevers una città sulla Loira dove, durante la II Guerra Mondiale, ha subito un gravissimo abuso che emerge, in forma di angosciosi flashback, nel dipanarsi della sua storia con il giapponese che è diventato il suo amante durante la permanenza nella città della bomba.

Il vero dramma rappresentato dal film, non è solo quello della mostruosità di quel genocidio che di per se sarebbe sufficiente a dannare l’umanità tutta intera ai gironi più infimi dell’inferno dantesco, ma visto che all’orrore non c’è mai fine, ci si mette anche nostra propensione all’oblio.

Dal mito di Pandora alla difesa psichica della “rimozione” sembra che siamo condannati a vederci svanire nella nostra pusillanimità, Riuscendo perfino a godere delle disgrazie altrui.

Così nel film, riguardo alcuni fatti relativi alla Secondo Conflitto mondiale, si afferma che: “Il mondo intero ne fu felice. Era un bel giorno d’estate a Parigi quando scoppiò la Bomba.” Come dicevamo più sopra, a qualcuno la Bomba sembra ancora oggi un modo “razionale” di risolvere i problemi.

Un’ altra frase dai dialoghi del film, apparentemente superficiale, contiene in essenza tutta la nostra contemporaneità: “Se potessimo fare pubblicità alla pace come a un detersivo, allora chissà”. Non riusciamo più a pensare ad altro che alla mercificazione e alla commercializzazione di qualunque cosa riguardi la nostra esistenza; il concetto stesso di far conoscere e apprezzare un valore universale inalienabile come la pace, attraverso il marketing come si trattasse di un prodotto di un qualunque supermercato, è di per se aberrante. Non se ne dovrebbe nemmeno discutere e le cosiddette “campagne di sensibilizzazione” o quelle che un tempo si chiamavano “pubblicità progresso” sono il segnale di un intimo, paradossale stato di corruzione.

La città di Hiroshima che oggi è un’enorme metropoli, vive nonostante le migliaia di morti vaporizzati in qualche istante. L’amore è di certo possibile, anche noi siamo come le essenze che hanno ricominciato a fiorire subito dopo l’olocausto nucleare; oppure siamo come le formiche e i vermi che subito cominciarono ad uscire da sotto la cenere.

Anche gli esseri umani hanno la straordinaria, ferina capacità di sopravvivere nonostante tutto anche davanti all’orrore più radicale. E’ la medesima questione dei “Sommersi e dei salvati” di Primo Levi cui Alain Resnais aveva alluso nel suo “Notte e nebbia” (1955). Ci ostiniamo a voler vivere anche quando non ha più alcun senso, come pesci fuori dal loro elemento, boccheggianti cerchiamo in ogni caso di respirare fino all’ultimo, “À bout de souffle”.

Nella pellicola sono indimenticabili le riprese alternate delle vie di Hiroshima e Nevers desolatamente vuote e disanimate, deserte come l’anima delle persone che ci abitano. Quello che ha lasciato la guerra è incomunicabile, è un orrore muto, uno spaventoso horror vacui.

Nel finale molto significative le sequenze nelle quali si vedono i due protagonisti seduti su una panchina alla stazione con in mezzo a loro, una vecchina in abiti tradizionali giapponesi. E’ una chiara metafora che dice che tra lei e lui la distanza culturale è davvero enorme e probabilmente incolmabile. “Non sapremo più nominare ciò che ci unisce” dice lei.

Pale Flower di Shinoda Masashiro (Jap 1964, 96’) Il film che sa anche essere fastidioso e perfino vacuo, ha però in se l’essenza stessa del cinema del nostro tempo. Attraverso il tema del gioco d’azzardo, infatti, si sottolineano i grandi temi dell’autoritarismo insensato, la pratica violenta del potere, la competizione e l’omologazione massificante, la crudeltà sadomasochistica. Tutte queste e molte altre sono prospettive attraverso le quali è possibile inquadrare la luce scura che permea l’esistenza di ognuno di noi, certo la pellicola non è un saggio sociologico e nemmeno una riflessione psicologica intimista e sentimentale ma ha la forza di entrambe e il coraggio di essere disperato e insensato come solo la vita sa essere a volte.

La sequenza del bowling, per esempio, che precede il tentativo d’accoltellamento del protagonista da parte di un giovinastro che poi diventa suo amico, ha in sottofondo una versione per archi molto sdolcinata di ‘O Sole mio”, ma è di certo il jazz nelle sue declinazioni più lancinanti e cool a farla da padrone con decise virate verso l’avant-garde più cupa e straziante. Nel nostro paese manca totalmente uno studio organico sulla storia del jazz del Sol Levante nei suoi rapporti con il cinema di quel paese.

E’ un argomento veramente affascinante, e chi abbia una qualche nozione dei noir e dei gangster movies nipponici degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, sa bene quanto decisive fossero le colonne sonore di derivazione afroamericana con eccezionali misconosciuti musicisti giapponesi che declinavano secondo il loro talento, l’avanguardia musicale più radicale.

Non c’è niente di più adatto e appropriato per un film come “Pale Flower”, scuro e notturno, tutto contrasti e taglienti luci elettriche zenitali, in cui l’azione è sempre fatta di veloci inseguimenti, brevi esitazioni e lame nel buio.

Spesso l’intreccio diventa claustrofobico, chiuso in se stesso con le sue inquadrature strette fisse sui personaggi. Un incubo in piena luce malata, con le sue sequenze oniriche al rallentatore chiaramente ispirate a Godard “buon’anima”, con scene polarizzate in negativo come quella nella quale il protagonista s’immagina di vedere un tipo losco che inietta una dose di droga alla bella della quale lui si è invaghito.

E’ lei il “fiore pallido” del titolo internazionale, pupa da gangster, viziosa e priva di alcuna inibizione, fredda e distaccata. L’ambientazione è quella tutta maschile, sordida e sudata, della Yakuza, la mafia giapponese con le sue crudeli leggi ispirate al Bushido Samuraico, in sintesi: fedeltà assoluta al proprio capo clan e totale, indifferente disprezzo per la morte propria e altrui.

Girato come un tardo polar francese, tutto in chiave “nouvelle vague” con sequenze al limite del neorealismo più rigido, a tratti ricorda le cose migliori di Louis Malle. La sequenza dell’inseguimento notturno sull’autostrada deserta, per esempio, fa venire alla mente quelle analoghe di “Ascensore per il patibolo”.

La storia è poco più che un pretesto e racconta di un killer yakuza spietato, ma dal cuore e dal sentimentalismo spiccato, che s’innamora perdutamente di una giovane ricca e di buona famiglia, ma depravata e coinvolta in ogni sorta di brutture conseguenza al gioco d’azzardo e della tossicodipendenza.

Lui è svelto di pugnale e fuori categoria come assassino, magistrale la scena nella quale ferisce a morte un avversario sotto gli occhi di lei, anaffettiva e amorale, fredda come una pietra con in sottofondo echi d’archi bachiani.

Tutta la vicenda è tesa, secca e serratissima, non c’è proprio niente da ridere mai, tutto è disperato, criminale, sordido, senza via d’uscita e va bene così, c’è poco altro da dire.

© Flaviano Bosco – instArt 2022

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