A Cinemazero si è conclusa nel segno dell’acqua e del centenario dell’Istituto Luce la XVIII edizione di una delle rassegne più importanti nell’ambito del documentarismo d’inchiesta nel nostro paese.

Come ha ricordato l’illustre presidente della giuria il regista Marco Bellocchio, in realtà, non c’è alcuna differenza tra fiction cinematografica e documentario giornalistico o naturalistico per quanto riguarda l’enorme lavoro d’immaginazione che serve a realizzare entrambi.

Molto spesso ci illudiamo che quello che vediamo sui nostri schermi, da quelli “panoramici” delle multisale più evolute fino ai 2 pollici dei nostri smart watch, abbia a che fare con la realtà ma ci sbagliamo di grosso. Tutto è finzione e rappresentazione anche una chat in presa diretta live, come si diceva una volta: “Niente è vero, tutto è possibile”.

Infatti, mentre i lampi cupi di un’altra guerra tingono di sangue l’orizzonte e i caccia e gli aerei da bombardamento scaldano i motori a bordo pista della vicina base militare di Aviano, Pordenone riflette e pensa a come raccontare i tempi e le storie che stiamo attraversando attraverso il suo festival del documentario.

Nonostante alcuni recenti fatti di cronaca nazionale gettino una luce sinistra sull’attuale amministrazione comunale della città del Noncello (il taglio dei tigli dell’ex-fiera sanguina ancora) di certo le energie positive e sorgive della città non sono state eradicate, per adesso.

Il teaser del festival era molto chiaro sul fatto che è necessario togliere il bavaglio all’informazione, parlare senza più filtri, raccontando fatti e situazioni esattamente così come si presentano. Ma è davvero possibile? Possiamo ancora illuderci che esista qualcosa che possa essere definito “oggettivo, imparziale, obiettivo, onesto, equanime?”

La filosofia da almeno cento anni ci dice che sostanzialmente l’essenza della realtà è per noi inattingibile, ma quella, si sa, non è mai servita a niente con i suoi ragionamenti assurdi.

Però, basta ripensare all’uso distorto delle informazioni e delle immagini filmate nell’ultimo secolo per farsi venire almeno qualche dubbio. Gli esempi possibili e plausibili sono davvero tanti: dalla tragica messa in scena del “Ghetto modello” di Terezin durante l’infamia della Shoah, alla criminale propaganda durante la Guerra Fredda, fino alle migliaia di casi di depistaggio e crimini di guerra messi in luce da Wikileaks e Julian Assange.

La lista sarebbe ancora molto lunga, ma basta semplicemente pensare all’attuale, bestiale genocidio del popolo palestinese che viene descritto da gran parte dell’informazione mondiale come un’azione di pacificazione e difesa nazionale a protezione dei civili contro i terroristi.

Certamente tutti questi quesiti e molti altri ben più profondi, gli organizzatori del festival se li sono posti e si sono risposti ragionevolmente che, in ogni caso, è necessario continuare a credere che i documentari possano cambiare il mondo proprio come è stato detto durante la serata finale delle premiazioni.

Dopo tante interessanti proiezioni, panel, workshop, concerti jazz e molto altro, la serata conclusiva è servita a puntualizzare alcuni concetti, sottolineare l’importanza dell’evento e naturalmente snocciolare dati.

Bene ha fatto lo speaker della serata, con voce molto impostata e attoriale, baffetti da sparviero e farfallino, a far riflettere sullo sproposito di un termine che è passato dall’anonimato allo stereotipo in un battito di ciglia. La parola “inclusione” che riempie la bocca di molti (pure troppi) non fa parte della cosiddetta comunicazione efficace o non ostile, al contrario, è altamente discriminatoria e seleziona alcuni respingendo tutti gli altri. Includere qualcuno significa escludere qualcun altro.

Per quanto riguarda i numeri, sono stati di tutto rispetto con 6000 presenze, ricadute su tutti i media nazionali con vari riconoscimenti da parte della critica e degli appassionati. Senza parlare dell’indotto che per una piccola città come Pordenone garantisce un ritorno d’immagine immediato e introiti commerciali e di servizio alla persona.

Senz’altro una bella festa durante la quale tra uno spritz e un aperitivo si riesce ancora a pensare e a guardarsi in faccia affrontando tutte quelle nostre reticenze ed esitazioni davanti alla censura di sistema che per vigliaccheria non vuole farci vedere quello che succede. Ognuno di noi è atterrito dal dover riconoscere le proprie responsabilità e connivenze con un potere che in cambio della libertà ci ha venduto il benessere ed ha sostituito il naturale timore verso l’ignoto con la pusillanimità e l’indifferenza della nostra obesità di consumatori compulsivi.

La manifestazione ha avuto l’alto patrocinio del Parlamento europeo e un bel video messaggio della vicepresidente in carica Pia Picerno, che ha citato perfino Pasolini con una qualche cognizione di causa, è stato di certo un buon viatico.

Tacendo però il fatto che il medesimo consesso democratico ha parecchie responsabilità nell’incancrenirsi di spaventosi conflitti e nel fallimento dei necessari processi d’accoglienza dei migranti. Gli enormi stanziamenti per il riarmo a livello continentale dello scorso anno, per esempio, non hanno alcun precedente nemmeno durante il Terzo Reich. A peggiorare alcune situazioni che poi vengono documentate dai reporter sono proprio determinate decisioni degli ottusi burocrati di Bruxelles.

In ogni caso, l’altissima qualità dei film della rassegna pordenonese ha saputo far giustizia di tante perplessità, documentando casi concreti di autentico, meritevole impegno sociale e civile con spesso un gran gusto per l’immagine e una raffinatezza compositiva un tempo del tutto impensabile.

Molto intenso il dovuto omaggio a Franco Basaglia nel centenario della nascita con una teoria di corto e mediometraggi, interviste e materiali d’archivio che non solo hanno documentato l’unica vera rivoluzione italiana che abbia dato qualche risultato, ma che ha liberato dalla polvere delle cineteche anche molti di quei film girati dai cosiddetti “matti”, “persone con esperienza” alle prese con la libertà di espressione attraverso l’occhio della macchina da presa.

Emotivamente quasi insostenibile per le tematiche trattate, il Podcast (documentario sonoro) “Proibito! Cronache di processo per stupro”, narrato da Irene Tommasi, prodotto dal Pordenone Docs festival, sulle storture del processo penale italiano per quanto riguarda alcuni clamorosi casi di violenza carnale, a partire dal cosiddetto “massacro del Circeo”, per mano di alcuni delinquenti neofascisti della Roma Nera degli anni ’70, con speciale attenzione a quello per lo stupro di gruppo subito da Fiorella (il cognome non viene reso noto).

Davvero scioccante ascoltare le motivazioni di accusa e difesa che in sintesi finivano per colpevolizzare le vittime e giustificare i carnefici. Basta guardare ai clamorosi casi di violenza di genere degli ultimi anni per capire che purtroppo poco è cambiato.

Tra i film più significativi presenti alla rassegna di certo “Real People” di Olmo Parenti (Italia 2024, 27′) che documenta senza filtri il salvataggio di 114 migranti nel Mediterraneo da parte della Ocean Viking. Nel 2022 lo stesso regista aveva vinto il premio Cipputi con “One Day, One Day” con interviste e storie da Borgo Mezzanone. Parenti in un sentito video messaggio ha ricordato quel film, tutta l’avventura produttiva e le grandi difficoltà di gestione del suo “seguito”.

Il famigerato “Borgo” è un’enorme baraccopoli in provincia di Foggia dove cercano di sopravvivere migliaia di braccianti sfruttati nelle campagne circostanti. Le istituzioni del nostro paese fanno finta di non vedere e di non sapere perchè, in sostanza, sono conniventi con le organizzazioni criminali che li sfruttano per la raccolta degli ortaggi. Il Ghetto riceve attenzioni soprattutto mediatiche solamente quando si verificano cicliche tragedie.

Il filmaker insieme ad altri volontari ha fondato all’interno della baraccopoli la Scuola Fatoma nella quale si insegna gratuitamente la lingua italiana ai migranti “La vita è capire, l’amore è capire. Se non ti capisci a vicenda come fai a volerti bene?”, come diceva Tomas protagonista del film, morto in un incidente stradale mentre si recava a lavorare come bracciante.

Baraccopoli di Borgo Mezzanone (FG), scuola di italiano intitolata al bracciante morto investito in bicicletta Fatom Yaiw 2024-03-11 © Massimo Sestini

L’insegnamento della lingua veicolare è un’azione concreta d’aiuto nei confronti degli ultimi e dei dimenticati, di coloro che Foucault avrebbe chiamato i “senza parola” e ai quali abbiamo il dovere di restituire diritti, visibilità e per l’appunto parole. Se non siamo capaci di comprendere questo non possiamo più considerarci umani. Human Rights but before … Human.

Mentre ministri della Repubblica e candidati alle elezioni pensano alle classi differenziate per i non parlanti italiano o per quei cittadini con qualche problema d’apprendimento, il film di Olmo Parenti, dopo aver girato per festival e sale d’essai, è stato applaudito da migliaia di persone in piazza Grande a Bologna, ma soprattutto, grazie al film, centinaia di persone di Borgo Mezzanone hanno ora accesso al diritto primario all’istruzione che fino ad ora lo Stato gli ha negato.

In questo senso il forte impatto sociale dei documentari è in grado davvero di cambiare il mondo come sostengono, a ragione, gli organizzatori del festival.

Significativo anche il premio a “The Giants” di Billiet/Antony all’attivista Bob Brown che crede fermamente che il mondo può essere cambiato solamente con la gentilezza. Ha per questo costruito una casa per i gentili di cuore per salvare il tesoro naturalistico della Tasmania insieme a tanti giovani volontari, e ci è riuscito finora.

Ringraziando per il premio, Bob Brown ha tenuto a dire che in un mondo nel quale ci sono molti giovani arrabbiati, tristi, depressi, è bello vedere altri giovani positivi tolleranti e pieni di speranza nel futuro come quelli che hanno deciso di isolarsi nella foresta della Tasmania per difenderla dalle motoseghe e dalle ruspe. Il premio Young Audience Award e il Green Documentary Award sono per loro.

Il Gran Jury Award è andato a “Mediha” di Hassan Oswald, il film racconta le persecuzioni subite dalla minoranza yazida del Nord dell’Iraq, attraverso gli occhi di un’adolescente. Come recita la menzione della giuria “Mediha racconta una realtà che va oltre ogni finzione. Racconta l’atrocità dell’Isis attraverso un video diario che ha dato alla protagonista la forza di affrontare un trauma devastante e la forza di reagire. In “Mediha” il cinema è stato terapia ed è diventato autoguarigione”. Non che sia chiarissimo, ma lo prendiamo per buono.

Non è indispensabile dar conto anche di tutte le altre suggestioni venute dai tanti materiali ed eventi della rassegna, del resto sarebbe impossibile restituire in modo appropriato tutte quelle emozioni che è necessario vivere in sala condividendole con gli altri spettatori, perchè il cinema non è un’esperienza individuale ma è un’opera collettiva che si compie solamente quando si abbassano le luci in sala e il proiettore comincia a ronzare.

A concludere la serata uno splendido cine-concerto prodotto per l’occasione da Cinemazero e commissionato dallo stesso Festival.

Screenshot

Acqua, Porta Via Tutto.

Un film di montaggio che ci racconta l’acqua attraverso diversi materiali dell’Istituto Luce nei cent’anni dalla sua fondazione (1924) e nell’anno internazionale dell’acqua, con il montaggio di Luca Onorati e la regia di Ronald Sejko.

Una vera e propria elegia dello scorrere del tempo nel fiume della vita italiana del secondo dopoguerra. Bellissime immagini di un paese ancora non industrializzato e nel quale la mutazione antropologica dovuta al consumismo di cui parlava Pasolini doveva ancora avere luogo. I frammenti d’epoca restituiscono un orizzonte cristallizzato e piuttosto stereotipato come spesso sono i collages visuali tratti dagli archivi Luce.

A emergere davvero sono i volti e le figure delle persone che nel nostro immaginario corrispondono a quelle del neorealismo. Solo dopo qualche sforzo riusciamo a capire che quelle facce dure e quegli abiti lisi, le scarpe grosse e i cervelli all’ammasso sono quelli della “gente nostra” che ha scavato la sepoltura del presente che le salme che siamo, abitano.

Gian Mario Villalta, poeta e mente pensante di PordenoneLegge, ha scritto e letto un piacevole commento in versi a quelle acque su pellicola a partire da una composizione in forma di figura retorica che vola pindaricamente da Francesco d’Assisi alla definizione del vocabolario. Qua e là ci sono anche i cuccioli e i teneri animaletti così tipici della poetica di Villalta, tra fontanili e benedizioni.

A rendere davvero piena e arricchente la visione del film è stata di certo la sonorizzazione di Teho Teardo e dei suoi musicisti eseguita dal vivo. (Laura Bisceglia e Flavia Massimo violoncello, voce. Igor Legari: contrabbasso + live electronics)

Il film parte inevitabilmente da immagini “turistiche” della fontana di Trevi dalla quale zampilla l’acqua del 1950, davvero suggestiva la musica di Teardo fluida e narrativa con suoni di glockspiel elettronici e violoncello.

Risuona ancora la voce di Villalta: “… madre di tutte le metamorfosi, acqua utile et humile et pretiosa et casta” mentre nel mondo contadino, sullo schermo, si vedono le donne attingere l’acqua al pozzo e trasportarla con le anfore sulla testa come migliaia di anni fa, quando invece è solo la Calabria dell’altro ieri.

Come scriveva Ungaretti in altro contesto: “Questo è il Serchio al quale hanno attinto duemil’anni forse di gente mia campagnola e mio padre e mia madre”

Vocalizzi delle violoncelliste, vita agreste e pastorale tra lavandaie di Pascoli “E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene” pecore, bovini e miseria di braccianti con le loro pale e carriole.

Centinaia di cafoni con le vanghe per costruire canali di bonifica a forza di braccia. Proprio come quelli di cui ci ha parlato Silone: “Il cafone, invece, ragiona. Il cafone può essere persuaso a digiunare. Può essere persuaso a dar la vita per il suo padrone. Può essere persuaso ad andare in guerra” E così fu ed è.

La Musica di Teardo si faceva ipnotica alla vista delle draghe sullo schermo che affondavano le fauci nel fango dei canali e poi immagini di macchine a vapore, trattori con aratri mostruosi alla Dziga Vertov, mentre la voce di Villalta recitava: “Siamo aria che trascorre, siamo foglie nell’aria, ma abbiamo macchine, abbiamo mani che scavano e acqua forzata dai motori in tubature possenti”, il sudore del ferro e dei muscoli.

Affascinanti, come la musica del performer pordenonese, le sequenze della grande scoperta archeologica delle magnifiche navi romane nel lago di Nemi degli anni ’30 poi andate distrutte durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale (31/05/44). Le navi furono incenerite da un devastante incendio che qualcuno attribuisce alla cattiveria di una pattuglia di artiglieri tedeschi per togliere il fango della responsabilità all’aviazione anglo-americana.

Tra le tante memorie filmiche sono sembrate particolarmente inquietanti nella loro flagranza la musica, i suoni e le immagini della tonnara con i pescatori che si preparavano al massacro, mangiando “pane e formaggio nelle carte gialle” della Profezia di Pasolini. La quiete prima della mattanza e poi d’un tratto il dramma tinto di cremisi in tutto il suo orrore sanguinolento.

Oniriche e astratte apparivano poi le figure spettrali di relitti di nave semiaffondati in un porto, navi da guerra in disarmo con bambino che s’aggirava da poppa a prora come unico segno di vita: i violoncelli piangevano in istanti elettrici.

Strapaesano e forse un po’ banale l’irrompere sullo schermo delle mondine su un treno a vapore felici verso i campi con il loro “riso amaro”, i caratteristici cappelli di paglia a larghe tese e la loro gioventù “posteriore” in aria come nel più vieto stereotipo cinematografico.

Rincarava la dose il poeta con rara raffinatezza: “E noi ragazze con le gambe nude schierate come uomini in battaglia, nei gesti sempre uguali del raccogliere mostriamo gambe nude e in alto il culo, le schiene curve mentre i pochi uomini portano gli occhi altrove per pudore” Amen. Non si risparmia nemmeno di citare Luigi Nono che imparò dalla pioggia le sue dissonanze, i tintinnii e i battibecchi.

Dopo le mondine non potevano mancare, anche per semplice assonanza le saline siciliane, d’un bianco abbacinante come la lunga teoria di piacevoli luoghi comuni che il montaggio d’artista di questa pellicola ha continuato a scovare. Mulini nel vento per le saline, siciliane e braccianti con le schiene curve ma con gli occhiali da sole per non bruciarsi le cornee con il riverbero del bianco abbacinante di quei deserti di sale.

Quasi a fare da contrasto al racconto delle acque che fanno fruttare la terra e il mare si è vista sullo schermo la forza distruttiva e la minaccia che l’acqua può costituire per le società dell’uomo, come dice Villalta: “L’acqua che ha portato negli anni vigneti frumenti foraggi e ha portato vitelli, figli, nipoti, sciami di api, stormi di uccelli, oggi porta via, porta via tutto.”

Immagini di fiumi ingrossati e allagamenti che in Italia c’erano ben prima del cambiamento climatico senza voler negare l’attuale evidenza del dissesto idrogeologico che ha radici antiche e le cui condizioni, nell’attuale stato di emergenza, sono solo di gran lunga peggiorate.

L’alluvione del Polesine con o senza don Camillo e Peppone ci ha lasciato un gravissimo monito per l’immediato presente e per il futuro.

Un’umanità sugli argini, con l’acqua fino al tetto delle case. Siamo sempre gli stessi profughi in fuga solo che non ce lo ricordiamo: “Cosa vuol dire arrivare se la meta resta sempre dove siamo partiti?”

Dopo aver sonorizzato le immagini per un’esibizione che è l’anteprima di un breve tour, per la prima volta, Teardo ha suonato a Cinemazero musica non sua, ma di “uno bravo davvero” come ha detto schernendosi rivolto al pubblico.

Le luci sul palco si sono fatte rosse ed è esploso nella memoria di tutti i presenti il tema di Twin Peaks di Angelo Badalamenti. Teardo è l’unico che può permettersi di suonare un brano così scolpito nell’immaginario collettivo senza apparire uno snob o peggio un piacione, ma semplicemente un musicista con la magia nel cuore e sulla punta delle dita.

Emozioni rare, applausi meritati.

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©

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