La prima cosa che si nota dei paris_monster, quella che attira subito l’attenzione ancora prima di vederli sul palco, è il nome. Volutamente tutto minuscolo e con l’altrettanto voluto lowercase a unire due parole. Primo indizio di una personalità molto decisa e ben definita, che si riflette in ciò che il duo newyorkese propone sul palco.

Sin dai primi brani il loro sound si mostra infatti brani estremamente personale, risultando nuovo e originale pur proponendo un mix di generi già ben conosciuti. Innanzitutto il garage rock (il primo riferimento che può venire in mente -rimanendo nella storia recente- sono i Black Keys), che fa da fondamenta al tappeto sonoro estremamente potente che Josh e Geoff sono in grado di generare, pur essendo solo in due. Su questo però si innestano, fondono e intersecano elementi funk e soul, più tutta una serie di strati di synth pop che stanno in continuo bilico tra gli stilemi di questo genere così florido nei primi anni ’80 ed influenze psichedeliche più tipiche delle grandi band anni ’70.
Pur essendo tutti questi elementi ben noti e già sentiti molte volte in diverse band, ciò che contraddistingue i paris_monster e li eleva è l’abilità con cui i due sanno dosarli, creando un mix che risulta sempre fresco e nuovo, e che fa battere il piede dall’inizio alla fine del concerto.

Merito certamente anche dell’abilità dei due musicisti, entrambi veri virtuosi dei loro strumenti eppure così diversi come attitudine sul palco. Da un lato Geoff Kraly, bassista e produttore: sempre concentratissimo sul suo strumento, testa bassa a guardare le quattro corde, le pedaliere o la gigantesca console piena di cavi e connessioni con cui trasforma continuamente il suono del suo “normale” basso con distorsioni a volte davvero estreme e sempre dal sound avvolgente. Sembra quasi un alieno, incurante del pubblico che lo applaude e lo incita, tanto da dare spessissimo le spalle alla platea.

Dall’altra parte, in completa antitesi troviamo Josh Dion: una vera furia, una forza della natura che per quasi due ore si scaglia con fervore e potenza sulla batteria. Le sue mille intense smorfie ed espressioni sono una miscela di gioia, rabbia, energia e una completa fusione con la musica che è in grado di generare. E dal punto di vista coreografico certamente aiuta la sua chioma leonina, mai ferma nemmeno per un attimo.

Non va inoltre dimenticato che Josh sul palco ha addirittura tre ruoli: oltre alla batteria suona infatti anche una tastiera ed è la voce della band. Non a turno: tutto contemporaneamente. Penso chiunque possa immaginarsi quanto sia elevato il grado di difficoltà di una simile performance, che unisce in un’unica persona parte vocale, strumentale melodica e strumentale ritmica. Si rimane davvero a bocca aperta nell’osservarlo, sia nel vederlo riuscire a fare tutto senza sbagliare nulla per quasi due ore, sia per la qualità della sua voce. Non è infatti semplicemente “un batterista che si improvvisa anche cantante”: la sua è una voce dalla potenza e estensione invidiabili, che non perde mai un colpo nemmeno negli acuti più azzardati (e ce ne sono stati parecchi) e in più occasioni ricorda i grandi cantanti delle band dell’epoca d’oro del rock anni ’70, con quel loro modo di cantare sempre “borderline”.

Ancora un gran colpo per il Teatro Miela, che di nuovo ci permette di scoprire un nome poco conosciuto (perlomeno in Italia) ma dalle possibilità e prospettive davvero impressionanti. Certamente un ottimo modo per inaugurare la minisezione “Modern Drumming” del cartellone di quest’anno, e che continuerà Venerdì 20 Aprile con l’attesissimo arrivo dell’enfant prodige Jojo Mayer con il progetto Nerve.

©Luca Valenta / Instart

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