ore 19,40 Teatro Nuovo Giovanni da Udine

Hard-Core (Irriducibili) di Yamashita Nobuhiro (Japan 2018)
Apparentemente incomprensibile, eccentrico e surreale è, al contrario, una riflessione profondamente morale sul senso autentico dei rapporti umani nel nostro tempo e sul significato dell’amicizia e dell’etica.
Per cercare di comprenderlo non è possibile semplicemente dipanarne l’intreccio della trama che senza alcune chiavi d’interpretazione appare del tutto ermetico e perfino assurdo. È necessario per questo fare alcune piccole digressioni.
L’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo che contiene l’antico codice morale samuraico non era solo una serie di regole ma il sunto di una predisposizione teorica e pratica alla dedizione assoluta al miglioramento personale al vivere il presente, alla gestione e al superamento della paura per perseguire l’obiettivo e il fine della loro esistenza.
Le tre leggi della robotica di Asimov sanciscono che 1) Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che a causa del proprio mancato intervento un essere umano riceva danno. 2) Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani purché tali ordini non contravvengano alla prima legge. 3) Un robot deve proteggere la propria esistenza purché questo non contrasti con la prima e la seconda legge.
È proprio tra questi due estremi, il Bushido e l’etica dell’intelligenza artificiale, entrambi esplicitamente citati a più riprese nei dialoghi, che si situa l’orizzonte narrativo dell’opera di Yamashita, riuscito live action dello strepitoso manga Hard-Core Eisei Hell’s Bros.
Già nelle prime battute del film si afferma che la storia dei due fratelli protagonisti della vicenda, Ukon e Sakon, ricorda una storia del Giappone feudale; il primo vive come un miserabile emarginato perché non accetta alcun compromesso dalla società moderna che lo vorrebbe avido, efficiente e performante, il secondo è, al contrario, perfettamente integrato e approfittatore anche se, in fondo, leale a suo modo.
Ukon vive come un samurai decaduto e misero al servizio di un vecchio militare nostalgico del Giappone imperiale detto il Presidente che possiamo considerare come uno Yukio Mishima senescente ma ancora con il sogno di educare i giovani al senso autentico della via della spada.
Un’altra persona condivide la sua disgrazia è Ushyama, figlio di una ricca famiglia altolocata, ritardato mentale in seguito ad una forte depressione causata dalla pressione psicologica e dallo spirito di competizione della società moderna.
Il Presidente è fermamente convinto di poter trovare nel fondo di una miniera abbandonata l’incredibile tesoro dello Shogun con il quale potrebbe mettere in pratica il suo sogno di riforma militare dei costumi Giapponesi, insegnando ai giovani i sani valori tradizionali. Esattamente come cercò di fare tragicamente Mishima con la sua Società degli scudi.
Ukon e Ushyama, nella cadente fabbrica abbandonata nella quale vivono, fanno una scoperta incredibile: Un bizzarro e stravagante robot senziente che sembra l’uomo di latta del mago di Oz e che li aiuta nella loro impresa.
È proprio la celeberrima favola di L.Frank Baum che ci fornisce un’altra chiave per cercare di capire le complicate trame di questo splendido film. I compagni di viaggio di Doroty la protagonista sono paragonabili ai personaggi di questo film: lo Spaventapasseri che vorrebbe avere un cervello (leggerezza di pensiero e azione) l’uomo di latta che vorrebbe avere un cuore (capacità di amare, di provare passioni) il Leone che vorrebbe avere fegato (capacità decisionale, di rischio che permettono di cogliere le occasioni della vita).
Nella vicenda è presente anche una divertente sottotraccia erotica che contribuisce a dare una dimensione scanzonata e ironica alla trama ricordando l’ironia tipica di un grande mangaka giapponese, Go Nagai da cui l’autore ha tratto evidentemente ispirazione.
Nel film I nostri eroi riusciranno a trovare l’oro ma, dopo alcuni turbamenti morali ed etici relativi alla fedeltà verso l’impegno preso con il Presidente, in pieno stile Bushido, saranno coinvolti, dal precipitare degli eventi, nel brutale omicidio del medesimo e da terribili accuse di terrorismo. Il Robot, tenendo fede alle regole della robotica con le quali è stato programmato, unitamente ai sentimenti della compassione e della pietà che ha imparato dai suoi compagni umani, finirà per sacrificarsi e salvare le loro vite in un finale del tutto inaspettato che si lascia alla gioia degli spettatori che vorranno andare a scoprirlo.

Ore 22,00

ThreeHusbands (Tre mariti) di Fruit Chan (Hong Kong 2018)
Un autentico capolavoro del cinema che già da ora è consegnato alla gloria immortale delle cineteche insieme alle altre opere d’arte cui appartiene la sua ispirazione. Certo non è una pellicola facile, a tratti è provocatoria, disturbante, perfino disgustosa; dolce, sapida, aspra e amara proprio com’è la vita vera e la poesia più pura.
Anche in questo caso il film è fortemente simbolico, a tratti contorto e psicoanalitico, e non può essere in alcun modo essere decifrato nelle brevi righe di questa recensione. Si tratta, tra l’altro, anche di una rappresentazione dell’origine e del destino della Cina a partire dal significato della rinnovata politica imperial-capitalistica di questi anni e degli enormi sforzi d’urbanizzazione che stanno cambiando il volto millenario del suo paesaggio, in questo caso, soprattutto, per quanto riguarda le grandi città costiere come Hong Kong e Macao.
Per fare questo il regista sceglie di adattare in chiave moderna un’antichissima leggenda risalente al periodo dei Regni combattenti (V a.C.), quando l’impero cinese era in formazione (successivamente si arriverà al periodo dei Tre regni cui il titolo potrebbe alludere).
La leggenda vuole che in un’isola non lontana da Hong Kong esistessero delle donne sirena dalla libido irrefrenabile che i marinai cercavano di soddisfare con tutta la loro virilità, generando il popolo dell’oceano che avrebbe dominato sul continente. E’ una storia sull’origine mitica del popolo cinese destinato a un grande futuro.
Il tutto s’incarna in Mei, un’insaziabile, giovanissima prostituta dei giorni nostri sfruttata dai suoi tre mariti che altri non sono che il padre che le ha dato un figlio, suo zio che l’ha avviata al mestiere ed un cliente innamoratosi di lei.
Evidentemente la prostituta ninfomane è un’allegoria della Cina attuale, una forza della natura la cui energia è irrefrenabile e che, nonostante tutto nessuno, è in grado di incatenare. Il regista simboleggia tutto questo attraverso le pratiche sessuali cui Mei si sottomette con gioia e non è necessario elencarne le prodezze.
In realtà, le scene in questione non hanno per niente carattere erotico e tanto meno pornografico, rappresentano solo l’energia ctonia della natura e la vulcanica, magmatica forza vitale del femminile.
La protagonista è magnificamente interpretata dalla disinibita Chloe Maayan che ha presentato il film sul palco del Nuovo con un abito bianco dalla scollatura profondissima e indossando una mascherina di raso acquistata a Venezia. Nella sua provocante esibizione ha citato volutamente il cinema di Fellini come punto di riferimento interpretativo del film, ha aggiunto di sentirsi come una delle attrici del regista riminese. Ha fornito, in questo modo, soprattutto ai cinefili incalliti, una straordinaria chiave interpretativa per il film.
In un attimo la Maayan si è trasformata in una perfetta Sandra Milo asiatica (l’abito bianco ricordava quello indossato dall’italiana in 8 1/2) e il personaggio del film è apparso immediatamente come una Saraghina o una Volpina, le procaci femmine dell’immaginario Felliniano, donne sessualmente insaziabili e pericolose come animali selvaggi e feroci che rappresentano la forza della natura.
Da qui l’associazione è stata facile ed immediata con uno degli immensi capolavori del Maestro. Nella prima, celeberrima sequenza del Casanova si mostra la nascita di Venezia dalle acque con un’enorme testa di donna (Venusia-Venere -Venezia) che emerge dalla Laguna.
Andrea Zanzotto scrisse versi memorabili che vengono recitati nel film dalla folla festante. E’ proprio il caso di citarne alcuni perché davvero possono aiutarci a comprendere il film cinese:…

Par sposa e mare, mora e comare,
sorela e nora, fiola madona,
onzete, smolete, sbrindola in su
nu par ti, ti par nu
aah Venessia aah Venoca, aah Venessia

Mona ciavona, cula cagona
baba cataba, vecia spussona
Toco de banda, toco de gnoca,
Squinsia e barona, niora e comare,
sorela e nona, fiola e madona,
nu te ordinemo, in suor e in laor,
che su ti sboci a chi te sa tor.

Venezia è una donna vogliosa che sorge dal mare che invita tutti a congiungersi con lei per generare il futuro. In una scena del film di Fruit Chan si paragona, in questo senso, la vulva di Mei ad una particolare insenatura della costa cinese; più volte viene detto esplicitamente che lei è una donna pesce e il suo sesso è associato oltre che alla papaya, all’Abalone, un particolare mollusco che ricorda moltissimo i genitali femminili; la prima sequenza del film, infatti, vede proprio un allusivo primissimo piano del gasteropode marino che morendo si contorce.
Straordinariamente significativa a questo proposito, sempre inseguendo le associazioni iper-cinefile, un’altra sequenza del casanova di Fellini: la visita nel ventre della balena spiaggiata, la grande Mouna da un testo di Tonino Guerra. Casanova, in una sorta di visionario circo, visita l’interno di una grande balena che viene descritta come l’origine della vita, l’enorme vagina che ha partorito il mondo intero, memorabili a questo proposito i disegni di Topor che si vedono nel ventre del cetaceoche associano il sesso femminile agli animali del mare. E’ dalla Muona che è venuto fuori il mondo, con gli alberi, le nuvole, gli uomini; uno alla volta, di tutte le razze: dalla Muona è venuta fuori anche la donna…Evviva la Muona, la Muona, la Muona…
Tutto questo e molto altro incarna cinematograficamente la prostituta Mei con i suoi tre mariti. Nell’ultima sequenza la si vede navigare sul piccolo battello al largo nella baia di Hong Kong, sullo sfondo il ponte che unisce la città a Macao, orgoglio della Cina ipermoderna. La scena è girata in bianco e nero con un’unica nota di colore: il rosso sgargiante come quello di una bandiera che la donna indossa standosene dritta a prua scrutando l’orizzonte, simboleggiando la Cina intera in navigazione verso il futuro.
Sempre ai cinefili più scafati, saranno di certo venuti in mente i famosissimi ultimi fotogrammi di un altro capolavoro del cinema che mostrano la bandiera rossa svettare sul pennone della Corazzata Potemkin di Sergej M. Ejzenstejn che solca le onde vittoriosa verso l’orizzonte.
Alla fine della proiezione, quando si sono accese le luci in sala è riapparsa la splendida Maayan che teatralmente indossava proprio un enorme mantello rosso… Applausi scroscianti e meritatissimi.

© Flaviano Bosco per instArt

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