Ph © Alice BL Durigatto

ore 16,10 Cinema Centrale

– The Body Confession di Jo Keung_ha

Inizia con il botto la ventunesima edizione del blasonato Festival udinese sulle cinematografie asiatiche. La prima pellicola proiettata, che in realtà è un audiovisivo su supporto digitale come tutte le settantasette opere della rassegna, è stata un melodramma a sfondo politico-sociale girato in Corea del Sud nel 1964. The Body Confession di Jo Keung-ha (1919-1982) è una straordinaria denuncia della corruzione dei costumi e della morale dei coreani in seguito alla crudele guerra fratricida contro il Nord voluta dalle superpotenze di allora e dalla Guerra fredda. Il paese subì un’americanizzazione forzata in nome di una battaglia ideologica che ancora lacera profondamente la nazione coreana spezzata in due da una cortina di ferro srotolata al 38° parallelo come racconta anche l’ultimo film di Kim ki duk, Il prigioniero coreano (2018). Nella società Sud coreana venne instillato il veleno del profitto ad ogni costo e della ricchezza a prezzo di qualunque sacrificio. Le persone che avevano vissuto i drammi della guerra erano disposte a fare qualunque cosa pur di risollevarsi dalla miseria e dall’abiezione seguite al conflitto. Qualunque sacrificio era permesso per far vivere le nuove generazioni senza le privazioni delle precedenti. Una situazione che fu comune a molti paesi nel dopoguerra compresa l’Italia.

La protagonista del film è una vecchia signora che per mantenere le tre figlie all’università non ha esitato a percorrere fino in fondo le strade del vizio e della depravazione. La signora Presidente, come si fa chiamare, è diventata, dopo anni di stenti, la tenutaria storpia e spietata di un famoso bordello della città portuale di Busan, il Blue Angel in Texas Street, naturalmente, all’insaputa delle figlie che la credono proprietaria di una boutique del centro. La prima sequenza ci mostra un gruppo di marinai americani, già piuttosto alticci appena sbarcati, che, insieme alle prostitute dei bassifondi, in un osceno corteo, si recano a proseguire la gozzoviglia e la crapula nel locale della Presidente. Una volta dentro, mentre un’orchestrina suona il Jazz, scoppia la rissa di prammatica tra americani ubriachi che sfasciano il locale. La Presidentessa interviene d’autorità prima che arrivi la polizia militare a sedare la rissa a colpi di manganello. I marinai si calmano al solo sentire la sua voce imperiosa che li redarguisce, rivelando sotto traccia le vere intenzioni del regista, sempre molto critico contro l’americanizzazione e la fasulla democrazia per procura coreana. Come ha raccontato la figlia presente in sala, il padre morì d’infarto a causa dei tanti soprusi che dovette subire per la propria dissidenza. La presidentessa rivolta ai marinai dice: “Siete venuti nel nostro paese per difendere la democrazia e combattere i comunisti non per distruggere la nostra casa. Se fate dei danni dovete rimborsarci.” Il regista evidentemente paragona il proprio paese al Blue Angel in preda ai capricci e al vizio di coloro che pretendono di esserne i prodi e virtuosi liberatori. La presenza americana aveva evidentemente corrotto la società dissolvendone i valori e le qualità morali. E vengono subito in mente i versi della famosa invettiva di Dante nella Commedia (Purg,VI) : “Ahi serva Italia, di dolore ostello/nave sanza nocchiere in gran tempesta/ non donna di provincie, ma bordello!”

Non sembri un paragone assurdo perché il film dimostra grandi debiti nei confronti sia del melò americano classico alla David O. Selznick, sia del neorealismo italiano anche tardo; vengono in mente capolavori di Rossellini come Paisà (episodio Roma), Scuscià e La Ciociara di De Sica, e infine Mamma Roma di Pasolini uscito solo due anni prima. L’Italia viene citata direttamente nel film, con le tre figlie, ancora ignare della doppia vita della madre, che cantano felici Funiculì Funiculà in coreano, con un effetto davvero straniante. La Presidentessa pensa solo ad accumulare denaro con le sue attività illecite che, oltre alla prostituzione, contemplano anche il contrabbando, al solo scopo di veder maritate le figlie a dei ricchi imprenditori che possano dare loro agi e lussi da gran signore. Le figlie in realtà la pensano in altro modo e percorrono vie più virtuose. Una diventa una famosa violinista, l’altra moglie di un grande scrittore, la terza e preferita che aveva seguito i consigli interessati della madre per alcune sventure diventa anch’essa prostituta ma con in compenso il cuore d’oro. Le nuove generazioni sono la speranza della Corea, quelle che, nonostante tutto, riescono a creare un nuovo futuro, le vecchie generazioni rappresentate dalla madre muoiono in disgrazia, non prima però di essersi accorte dei loro errori e di aver goduto del successo dei figli. Un’ottima dolorosa riflessione su quel periodo della storia coreana che apre la retrospettiva del festival che celebra i cento anni del cinema di quel paese.

Ore 22,45 Teatro Nuovo Giovanni da Udine

Bodies at Rest (Corpi che riposano) di Renny Harlin, Hong Kong 2019.

A chiudere la serata Renny Harlin, finlandese, regista di blockbuster hollywoodiani come Die Hard 2, Cliffhanger, Driven, Cleaner in trasferta ad Hong Kong, confeziona un Action dai ritmi serratissimi e iper adrenalinico in grado di tener incollati gli spettatori alla poltrona per tutti i 94 minuti della pellicola, in una corsa forsennata tra continui cambi di ritmo e colpi di scena. La vicenda prende avvio precisamente il 24 dicembre 2017 attorno alle 20,00. La vigilia di Natale, nell’imponente obitorio comunale della città di Hong Kong due anatomo patologi continuano indefessi a fare le loro autopsie sui cadaveri di omicidi e incidenti vari perché, come dicono: “Si muore anche a Natale”. Quando stanno quasi per andarsene a santificare la festa, nell’edificio fanno irruzione tre loschi individui travisati con delle maschere che, armi alla mano, pretendono di recuperare un proiettile dal cadavere di una ragazza che li lega alla scena di un delitto. Si apre una lotta all’ultimo sangue che sembra un remake asiatico di Die Hard, con un medico al posto di Bruce Willis. Naturalmente, dopo infiniti combattimenti al cardiopalma, esplosioni, sparatorie, calci e pugni come se non ci fosse un domani, tutti girati all’interno dell’edificio, la situazione si risolve per il meglio e i nostri eroi prevalgono su quelli che si scoprono essere poliziotti corrotti dalla mano pesante, coinvolti in una storiaccia di droga. Il film è un concentrato di citazioni incrociate tra i migliori action americani (Michael Mann, Brian De Palma, Richard Donner) e quelli della città del dragone (Ringo Lam, Johnnie Too, John Woo) con un tocco personale di Harlin che però funziona solo da collante tra le varie sequenze intelligentemente rubacchiate qua e la. La pellicola è un Guilty pleasure che diverte e conquista, non bisogna però pretendere troppo perchè rimane sempre un film, come si dice in gergo: “De menare”.

© Flaviano Bosco per instArt

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