Il palcoscenico del Teatro nuovo Giovanni da Udine ha ospitato l’allestimento dell’Operetta più celebre di sempre, “La vedova allegra” di Franz Lehár nell’adattamento della Compagnia Corrado Abati. Il successo di pubblico è stato travolgente e l’effetto voluto perfettamente raggiunto.

Lo stesso capocomico che vanta una carriera più che trentennale ha scritto che: “L’intento di questa nuova produzione è proprio quella di creare uno spettacolo capace di suscitare ancora l’entusiasmo del pubblico e di risvegliare la voglia di far festa assieme. E dunque, che festa sia.” Con queste premesse e con tutta la grande esperienza della compagnia era difficile sbagliare.

A garantire la riuscita della pièce di certo il grande talento degli interpreti, straordinario lo scambio di battute anche nella loro “semplicità telefonata” tra Corrado Abbati nei panni di Njegus il cancelliere dell’ambasciata e il barone Mirko Zeta interpretato da Fabrizio Macciantelli, due veri istrioni che portano avanti una comicità lieve e garbata davvero d’altri tempi che si scopre subito di rimpiangere, abituati come siamo al vuoto spinto di quella televisiva “cotta e mangiata” da slogan tutti urlati da venditori di pentolame. I due ricordano una coppia comica, oggi completamente dimenticata, come Ric e Gian dalla comicità elegante e lieve da sabato sera sul divano.

Ottime anche le interpreti femminili che, naturalmente, hanno le parti principali in commedia, da Antonella Degasperi (Valencienne) con la sua straordinaria verve e i suoi gridolini sovracuti di prammatica e Mariska Bordoni affascinante Anna Glavari, giovane vedova spericolata e desiderata.

L’altro personaggio centrale, Il conte Danilo, ha preso vita attraverso la duttile voce di Davide Zaccherini; non ricorderemo tutti gli altri che sono una costellazione di ottimi professionisti, molti dei quali giovanissimi, che regalano serenità e felicità al pubblico e attimi di pura, infantile felicità.

Tipico di questo genere musicale, che richiede doti canore notevoli e uno spiccato talento per la recitazione, è la sua spigliatezza e grande vitalità con i continui cambi di tonalità e di espressione e la sua inestinguibile allegria espressa anche dalle guizzanti coreografie e dagli immancabili balletti.

Riassumiamo l’intreccio che, anche se molto noto, val la pena di ricordare. Nei primi anni del secolo XX°, a Parigi, all’ambasciata del Pontevedro, immaginario paese balcanico, l’ambasciatore è preoccupato perché la sua giovanissima connazionale Anna Glavari, dopo aver sposato un vecchio ricchissimo banchiere del paese, è rimasta presto vedova e minaccia, risposandosi con uno straniero, di sottrarre l’immenso patrimonio ereditato alle casse del proprio paese.

Si tiene un ballo con il preciso intento di far incontrare la vedovella con il conte Danilo, suo ex-amante di pura razza Pontevedrina. L’operazione si interseca con una frizzante serie di eventi che girano attorno all’infedeltà coniugale di Valencienne, moglie dell’ambasciatore e delle sue tresche con il diplomatico francese Camille de Rossillon.

Continue canzoni e balletti anche forsennati si susseguono ad un ritmo che non lascia prender nemmeno fiato al pubblico, trascinandolo prima in veloci giri di valzer e poi in uno scatenato cancan. Naturalmente tutto va a buon fine e dopo le prime, solite schermaglie amorose la trama si dipana in un lieto fine che vede la protagonista convolare a giuste nozze proprio con il conte Danilo preservando così il patrimonio del Pontevedro. Nell’intreccio il centro del contendere è un ventaglio che rischia di compromettere e svergognare la moglie dell’ambasciatore ma che, infine, servirà a cementarne l’unione.

Tutto sul filo dell’ironia e di una ostentata e compiaciuta ipocrisia borghese sotto il segno della quale ogni inganno e ogni sotterfugio è accettabile per ottenere i propri obiettivi e non pagare il fio delle proprie colpe. Se, tra una risata e l’altra, ci pensiamo solo un attimo, capiamo immediatamente che gli intenti di Franz Lehár forse non erano così disimpegnati e leggeri come siamo abituati a pensare e che, nel caso dell’Operetta in generale è perfettamente applicabile il senso della locuzione latina presente nelle Satire di Orazio (Lib I, 1,24): “Ridentem dicere verum, quid vetat? (Chi ci vieta di dire la verità ridendo?) oppure l’altra, molto più recente: “Castigat ridendo mores” (Castiga i cattivi costumi ridendo).

Prima dell’inizio dello spettacolo, a sipario ancora chiuso, una sinistra e lugubre sirena d’allarme ha risuonato d’un tratto nella sala gremita del teatro Giovanni da Udine; la sensazione che si diffonde immediatamente tra gli spettatori accomodati sulle poltroncine è agghiacciante, a nessuno viene in mente che si tratti di una burla, qualcuno pensa perfino al peggio e si accerta della posizione delle uscite d’emergenza.

Nel cuore di ognuno pulsano gli angoscianti eventi della brutale aggressione all’Ukraina che ci riporta indietro alle tragedie più cupe della storia europea. Dopo il secondo squillo e un attimo d’inquietante sospensione una voce riferisce che è stato un modo per tributare a quel popolo che soffre tutta la solidarietà possibile del mondo dello spettacolo e del popolo italiano tutto che riconosce, come recita l’articolo 11 della Costituzione della Repubblica: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”

L’effetto del messaggio è stato decisamente forte, bene ha fatto la direzione del teatro a pensare di scuotere il pubblico in questo modo, così efficace e inaspettato. Molto spesso gli omaggi estemporanei o il classico minuto di silenzio lasciano il tempo che trovano tanto sono diventati consueti perdendo il loro significato iniziale. Quelle sirene, al contrario, rimarranno a lungo nella memoria di molti presenti come monito indimenticabile.

Sembrerà strano o irrispettoso ma questa grave crisi internazionale da fine dei tempi, è proprio la condizione ideale per introdursi all’operetta più famosa di tutti i tempi. La prima di “La vedova allegra” del 30 dicembre 1905 si rivelò un successo travolgente, clamoroso e acclamato consolidando la carriera di Lehár, mentre tutta l’Europa stava per prendere fuoco e il mondo era sull’orlo del baratro. Si ballava metaforicamente sull’orlo di un vulcano in eruzione come si canta spensieratamente nella pièce tra ballerine e gagà:

“Si, noi siamo le grisettes dei cabarets di Parigi! Lolo! Dodo! Jou-Jou! Frou-Frou! Clo-Clo! Margot! Et Moi!”

Come dicevamo più sopra, se guardiamo in profondità ci accorgiamo che alcune operette sono tutt’altro che frivole e possono essere considerate a più di cento anni di distanza non solo come documenti di un’epoca decadente tra “Felix Europae” e “Finis Europae”ma anche come una sottile, intelligente critica a quel gusto e a quella società.

I maggiori autori del genere Lehár, Offenbach, Strauss, mettendo in scena con gran divertimento i vizi e le virtù della grassa e gaudente alta borghesia di allora, finiscono per burlarsene anche involontariamente.

Allora solo pochi lo comprendevano o si sforzavano di farlo, ridendo alla gioia della primavera, della vita e della giovinezza ma non sarebbe durata a lungo e tutti l’avrebbero scoperto da lì a qualche anno nel modo più tragico.

“Mi ha sempre affascinato la forma dell’operetta, a mio modo di vedere una delle più belle che il teatro abbia prodotte. Se l’opera ha qualcosa di goffo, di irrimediabilmente pretenzioso, l’operetta nella sua sublime idiozia vola sulle ali del canto ed è secondo me, teatro perfetto.”

Scrive così Witold Gombrowiz nel suo “Operetta” che evoca lo stato di euforia che trascinò le persone di tutta Europa nella vertigine della danza di canzonette e situazioni amene, mentre l’Europa correva verso il suicidio delle trincee della prima guerra mondiale. Non è un caso se la grande stagione del teatro leggero europeo, dai Caffè concerto o chantant all’operetta propriamente detta, sia compreso, in buona sostanza tra il conflitto franco-prussiano e il trattato di Versailles.

Quasi per contrappasso viene in mente la tragedia di Friedrich Dürrenmatt “La visita della vecchia Signora” nella quale un’altra ricchissima ereditiera decide le sorti del proprio paese natale, castigandone davvero l’ipocrisia e la pusillanimità. Certo il contesto è diverso e, in questo caso, la satira diventa grottesca e tragica ma se si confrontano i due personaggi ci si accorge che le contiguità sono molte di più delle differenze.

Non dobbiamo intristirci troppo per ciò che ormai è del tutto irreversibile ma non ci è permesso nemmeno abdicare al nostro senso critico.

Per tornare nel solco del seminato bisogna riconoscere che il pubblico dell’operetta è del tutto particolare, sa perfettamente cosa aspettarsi e pretendere ed ha voglia di divertirsi e di essere divertito secondo precisi canoni che hanno le loro radici in un senso di nostalgia per qualcosa di vago e scintillante che forse non si è nemmeno mai dato ma che ha lasciato la sua scia di essenze inebrianti.

È il vagheggiamento di un’idea di felicità quasi infantile dove tutto è di zucchero e marzapane o meglio caviale e champagne. E’ un pubblico consapevole e partecipe di quello cui sta assistendo e si prepara, a volte anche nell’abbigliamento, a farsi proiettare in una realtà di fantasia diversa e migliore da quella quotidiana, “Larger than life”. E’ quello un luogo di sogno nel quale si vuole essere sospesi, una dimensione fasulla , piacevole, leggera e svagata o addirittura, il più delle volte, sciocca e implausibile dove si “giustifica e perdona tutta la vita mascalzona” come dice il Poeta.

Lo si creda o no, in platea al Giovanni da Udine si sono visti omoni azzimati in grisaglie sartoriali di lana pettinata, panciotto con catena e cipollotto, cappotto di Astrakan o di cammello con collo di volpe e bastone, sembravano usciti da un qualche film d’antan sulla Vienna di Francesco Giuseppe.

Inizialmente, qualcuno ha pensato ad una qualche trovata scenica che però non si è palesata. In questo senso, si vuole dire che il pubblico dell’operetta fa parte davvero dello spettacolo, in una sospensione dell’incredulità che diviene vita pulsante in un surreale teatro dell’assurdo del tutto pirandelliano.

“Eterni dei! E’ scabroso le donne studiar. Son dell’uomo la disperazion. Dentro e fuori un mistero esse son. Donne donne, eterni dei! Cherubin dal visin tutto ciel dallo sguardo soave e fedel. Rosse, brune oppure biondine, che fa? L’uomo sempre burlato sarà!”

Flaviano Bosco © instArt

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