Il proverbiale pubblico delle grandi occasioni intervenuto al Palamostre di Udine ha tributato il dovuto omaggio non solo ad un grande musicista, ma ad un uomo che ha dato il proprio nome ad un’intera epoca e a una battaglia di giustizia e di libertà straordinaria.

Adolphe Johannes Brand nacque a Kensington il 9 ottobre 1934, periferia di Cape Town in Sudafrica, noto fin dagli anni ’50 con lo pseudonimo di Dollar Brand, cominciò nel coro dell’African Methodist Episcopal Church che, in quella città, era stata fondata da sua nonna e nella cui chiesa principale la mamma suonava il piano.

Riferendosi agli anni di formazione del pianista sudafricano, nel suo imprescindibile “L’Africa e il Jazz”, Luigi Onori scrive:

“Il panorama stilistico va collegato, comunque, con la mutazione della società sudafricana ed il progressivo aggravarsi dell’apartheid. La politica di separazione si fece più dura negli anni Quaranta, in particolare dal 1948. Nel 1950 venne emesso il famigerato Group Areas Act che assegnava ai diversi gruppi razziali aree urbane differenziate. Ciò comportò l’eliminazione materiale di alcune township storiche (come Sophiatown o il District Six) dove si era realizzato quell’incredibile crogiuolo di razze e patrimoni sonori (indiani, africani, meticci, cinesi, mussulmani) che aveva generato le nuove musiche sudafricane. Cape Town, patria di Dollard Brand, fu privata dei luoghi urbanisticamente degradati ma culturalmente e musicalmente ricchissimi e fertilissimi. Inoltre la popolazione di colore non potè più circolare liberamente (specialmente dopo il massacro di Sharperville del 1960): musicisti e pubblico nero rischiavano l’arresto e il carcere solo per suonare o assistere a un concerto”.

A 16 anni ebbe il primo ingaggio come pianista al Martin’s Bar di Kensington nel quale intratteneva i marinai americani di passaggio al porto suonando lo swing imparato sui rari dischi o ascoltando la radio. Proprio da quell’esperienza gli venne il soprannome.

Da allora sono passati 74 anni e pochi altri musicisti ancora in attività possono vantare una carriera artistica così sfolgorante e carica di significato per il secolo che ha attraversato.

Nel 1962 fu costretto ad emigrare dal suo paese con la sua compagna, seguendo la diaspora di moltissimi musicisti sudafricani schiacciati dal regime. Come altri esuli trovò accoglienza al Club Africana di Zurigo dove si esibiva con il suo Dollar Brand Trio.

“Nel febbraio 1963 Duke Ellington suona a Zurigo e Sathima Bea Benjamin, dopo ripetute insistenze, convince il band leader ad ascoltare il futuro marito. L’africana ha appena chiuso quando Ellington arriva circondato dalla sua corte: si riapre il club e dopo l’audizione Duke è entusiasta. “Duke Ellington era un simbolo della musica per noi in Sudafrica, penso per tutta l’Africa. Noi non abbiamo mai guardato a lui come ad un americano; Ellington era il saggio anziano del villaggio, del villaggio esteso”.

“E’ il saggio anziano che porta – pochi giorni dopo – Brand e il suo trio a registrare per la Reprise a Parigi Duke Ellington Presents the Dollar Brand Trio.”(Onori, pag.221).

Con un viatico del genere Dollar Brand, che qualche anno dopo sarebbe diventato Abdullah Ibrahim dopo la conversione all’Islam, non poteva che diventare un gigante della musica e non smentì di certo il pronostico collaborando con John Coltrane, Albert Ayler, Cecil Taylor, Ornette Coleman, Sonny Murray, Elvin Jones e da quelle esperienze con l’Avant-garde seguì tutto il resto.

Il meraviglioso concerto del Palamostre di Udine ha avuto luogo, bisogna tenerne ben conto, a metà del mese sacro di Ramadan, ricorrenza annuale basata sulle fasi lunari, considerata uno dei cinque pilastri dell’Islam. La purificazione dei fedeli mussulmani avviene attraverso il digiuno, la preghiera e l’astensione da comportamenti peccaminosi come i peccati di parola, la fornicazione, la collera e le azioni violente.

Abdullah Ibrahim, vista l’età avanzata, probabilmente potrà anche astenersi dal digiuno, ma chissà come avrebbe reagito se avesse saputo che in una cittadina non lontana da Udine ai mussulmani vengono negati i luoghi per pregare pubblicamente e che solo dopo le “carte bollate” gli è stato proposto, quasi in segno di dispregio, un parco giochi o una bocciofila.

Chissà come avrebbe reagito sapendo che proprio nel capoluogo friulano da molti anni esiste una strisciante politica dei ghetti nei quali vengono “confinati” coloro che a qualcuno appaiono come indesiderabili o lesivi del pubblico decoro e della quiete pubblica.

Chissà cosa avrebbe detto sapendo che i libri che vanno per la maggiore in regione sono “Il mondo al contrario” del Generale Roberto Vannacci (quasi 300.000 copie in Italia) e “Ora basta. Immigrazione, islamizzazione, sottomissione” di Anna Maria Cisint con la prefazione di Matteo Salvini. Forse avrebbe ripetuto quello che fece scrivere sulla copertina di “Black Lightning” il suo album del 1976 contro il governo Afrikaner della White Supremacy: “The music speaks for itself. Nothing more needs to be added. All there remains to do is to do”.

A novant’anni suonati Abdullah Ibrahim con le sue dita sulla tastiera, ci indica ancora il sentiero da seguire.

“Basta parlare! Tutto ciò che si deve fare, va fatto!” Bisogna radicalmente opporsi allo scempio dei diritti dell’uomo con le armi della pace, della musica e dello spirito di fratellanza.

Chissà cosa avrebbe pensato del famigerato Silos di Trieste dove diventa evidente tutta la protervia e la sicumera di chi si pretende democratico, cristiano cattolico e rispettoso dei diritti dell’uomo per altro in piena Quaresima e a pochi giorni dalla santa Pasqua di resurrezione del Signore in un Paese nel quale la seconda carica dello Stato interviene con veemenza per censurare la libera decisione di un istituto scolastico di non fare lezione l’ultimo giorno di Ramadan in segno di rispetto e condivisione per l’Aid al Fitr, la rottura del digiuno da parte della maggioranza degli allievi.

Non sembrino domande capziose, ideologiche e orientate (anche se lo sono davvero), con riferimento alla sua inesausta lotta contro l’apartheid nel suo paese a rischio della vita è stato vicino all’African National Congress prima e dopo Mandela:

“Ibrahim in varie interviste rifiuta la funzione intrattenitrice in cui la società urbana occidentale ha relegato il musicista, e si batte concretamente per una musica che abbia valenze spirituali, terapeutiche e sociali, che sappia valorizzare la propria tradizione senza sentirla inferiore alla musica europea – Noi siamo diverse comunità di persone, fedi, culture, linguaggi, modi di concepire la vita, ma siamo la Nazione Sudafricana. E ciò che avviene fuori da questa situazione è veramente unico. E’ un’incredibile sfida per noi, come musicisti e artisti, l’essere in grado di forgiare questa materia e trarne fuori una voce”. (Onofri pag.230)

Le “valenze spirituali e terapeutiche” nel concerto di Udine si sono potute capire fin dalla non comune decisione da parte del musicista di suonare completamente in acustico, senza alcuna amplificazione, grazie all’ottima acustica della sala, al timbro del pianoforte Fazioli e al perfetto religioso silenzio del pubblico che, a parte alcuni malaugurati colpi di tosse nei momenti meno opportuni di qualche maleducato, ha dimostrato grandissima attenzione.

Il concerto per l’agitatore culturale Giancarlo Velliscig è un saluto al proprio pubblico nel quale il pianista tira le somme della propria lunghissima carriera, chi scrive non ci crede per niente, pur rispettando reverenzialmente le opinioni del patron di Euritmica. E’ pur vero che qualche anno fa Ibrahim pubblicò un disco dal titolo “The Balance”, per altro magnifico, nel quale, superata la soglia degli ottant’anni, tirava le somme della sua vita artistica soppesandone gli equilibri, ma con il concerto di Udine ha dimostrato di essere oltre qualunque nostalgia o rimemorazione. Ormai il pianista ha superato anche la stessa necessità della ricapitolazione del repertorio per una sintesi musicale che lo fa trascendere il contingente e lo trasporta in una dimensione del tutto astratta e spirituale, perfino al di là degli stessi suoni, che spetta solamente ai grandi sacerdoti della musa Euterpe.

Ibrhaim non sarà funambolico come tanti giovinastri teppisti degli ottantotto tasti, ma ha dalla sua una sensibilità e un istinto che ancora gli permettono di dialogare prima di tutto con se stesso attraverso la complessa macchina che la tavola armonica fa risuonare. Per tutto questi motivi, non si è trattato per nulla di un concerto d’addio anche se fosse stato l’ultimo. Come diceva Vera Lynn: “Let’s say goodbye with a smile…I know we’ll meet again some sunny day”.

Si fa accompagnare al piano da una gentile assistente che potrebbe essere sia sua figlia che sua moglie oppure anche sua nipote così come potrebbero essere tutti suoi figli la quasi totalità dei presenti in sala a parte i tanti giovanissimi che lo potrebbero riverire come Gran-Pa.

Possono sembrare leziose anche queste considerazioni sull’età, ma quando ci si trova davanti ad un autentico Patriarca, un vero Maestro del Jazz che incuriosì perfino Duke Ellington che gli permise di fare la prima incisione con il suo gruppo, come dicevamo più sopra, qualche domanda bisogna pur farsela.

L’attacco del concerto è stato dolcissimo e quasi esitante prendendosi il tempo delle cose migliori, contemplando la bellezza di quello che è in grado ancora di far scaturire dalle sue dita e quasi meravigliandosene.

Era una melodia dall’incedere sognante che sembrava provenire dalla volta celeste, solcata da scie luminescenti che scandivano silenzi e sorrisi ai quali s’accodavano pensieri e memorie lontane.

Suonava ed evidentemente si faceva trasportare in una regione iperuranica al di fuori del tempo ed è da lassù in alto che concedeva al pubblico le sue note e i suoi accordi, non per snobismo, ma semplicemente perchè la sua arte e lui stesso ormai appartengono al firmamento laddove risuona l’armonia delle sfere.

Ibrahim ha ragione da vendere quando non vuole definirsi come un musicista Jazz, nessuno ha mai saputo cosa vuol dire nemmeno la parola; a partire da Louis Armstrong, sono sempre e solo i giornalisti e i musicologi che hanno bisogno di saldare le emozioni ad una definizione che in realtà non ha alcun significato.

La sua musica è un’esperienza emotiva libera come una lieve brezza, un alito di vento, un battito d’ali, si confonde con il battito del cuore. Come dicevamo più sopra, a rompere l’incanto solo gli squallidi colpi di tosse di chi non riesce proprio a contenersi mai neppure di fronte alla bellezza assoluta.

Di certo Ibrahim non suona più per il pubblico e forse nemmeno per se stesso, suona per il mistero della Musica, anzi è la musa Euterpe che suona attraverso di lui ed è proprio nella sua arte che si ricapitolano tutte quelle influenze e contaminazioni che ha incontrato in tutta la sua carriera.

Si aiuta con qualche minimo vocalizzo, ogni tanto dal mare della sua esperienza e dei ricordi emergono degli accordi più riconoscibili come quelli scritti per l’inno non ufficiale del nuovo Sud Africa di Mandela, una melodia che segnò la fine del regime di Apartheid per milioni di oppressi.

La musica di Ibrahim è sincera e pulita, è quella di un uomo che ormai non ha più nulla da dimostrare, rimpiangere o rimproverarsi; non ha più bisogno di compromessi o di seguire le mode, i generi o gli stili, guarda gli spettatori direttamente nel cuore facendogli cogliere tutte quelle cose importanti che gli occhi non sono capaci di vedere.

L’esibizione ha visto un lungo set dove i brani in scaletta trascoloravano l’uno nell’altro senza fosse quasi possibile percepirne il passaggio. Era un’unica suite nella quale il pianista materializzava i propri sogni e quelli del pubblico in un flusso continuo, più che un concerto quello del Palamostre è stata una lezione di vita.

Quando, alla fine del set e dopo i bis, ha staccato le dita dai tasti senza più azionare i pedali il pianoforte Fazioli ha continuato a vibrare nel silenzio della sala in attimi di una bellezza eterna del tutto indimenticabili.

Sono state riflessioni e pubbliche meditazioni di un vero artista che non ha mai smesso di cercare il proprio sentiero nel fitto della foresta dei suoni. Sempre accompagnato, se ne è tornato alla fine, pian piano, un passo davanti all’altro, da dove era venuto, dal mistero della musica cui appartiene.

In un album del 1989 dal significativo titolo: “Blues for a Hip King” il pianista ha espresso con maggiore precisione uno dei suoi grandi carismi come musicista e come uomo: l’Eleganza.

La raffinatezza del tocco sulla tastiera di Abdullah Ibrahim resta assolutamente indimenticabile: God Save our Gracious King! Long live our noble King!

Scaletta: Trieste my Love, Nisa, Blue Bolero, In-tempo, Blues for a Hip-King, District 6, Tokai, Mindiff, Pula, Sotho Blue, Did you Hear that Sound, In the Evening, Once upon a Midnight, Signal on the Hill.

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©

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