Sul grande schermo del cinema Visionario di Udine, una proiezione speciale per un film molto atteso dagli appassionati e dai cinefili.

Andrej Arsen’evic Tarkovskij, sull’interpretazione critica dei suoi film, raccontava sempre un aneddoto. Dopo una delle prime proiezioni stampa del suo autobiografico Lo specchio (Zerkalo 1974) mentre i critici cinematografici e i giornalisti presenti in sala si stavano ancora accapigliando nelle più svariate analisi, discutendo accanitamente di filosofia, politica, sociologia, come ormai non si fa più (aimè), la donna delle pulizie, spazientita, intervenne intimando a tutti di lasciare la sala accusandoli di perdere tempo e comunque di non aver capito niente del film.

Gli accademici allora, in segno quasi di scherno, le chiesero di illuminarli con il suo parere. La donna molto semplicemente, lasciando tutti a bocca aperta, spiegò che il film trattava delle traversie della vita di un bambino malato che cresce e del difficile rapporto con i propri genitori negli anni della guerra mondiale.

Per Tarkovskij era l’unica che aveva colto nel segno senza troppe sovra-strutture interpretative o inutili interpolazioni. Diceva, infatti, “i critici cinematografici non capiscono mai nulla dei miei film” che vanno percepiti emozionalmente e non analizzati e interpretati con l’occhio della ragione ma sentiti con il cuore e con le viscere.

Sembra essere partito da considerazioni come queste Andreij Andreevic Tarkovskij, il figlio del grande regista russo, dedicando al padre un accorato documentario, presentato alla 76 mostra d’arte cinematografica di Venezia, che non è quasi per nulla una biografia o un’analisi scientifica del suo cinema ma un omaggio emozionante e pieno di sentimento ad un genitore che non incidentalmente era anche un grande artista.

A differenza di quanto sostenuto da alcuni, non si tratta di un film semplicemente biografico. Il racconto del transito terrestre del grande regista russo è poco più di un pretesto per esprimere il significato dell’arte, in generale, e soprattutto per rimemorare, rimembrare, ricordare, celebrare la presenza dell’eredità paterna da parte di un figlio devoto.

In questo senso il documentario è tutt’altro che scientifico ed equilibrato, anzi indulge su elementi della poetica e della vita di Tarkovskij che appaiono perfino marginali o troppo intimi e privati per essere davvero utili all’analisi feconda e approfondita delle opere d’arte che ci ha lasciato. Il dichiarato intento divulgativo è perfettamente riuscito ma senza gli approfondimenti del caso; la figura del regista rimane affascinante ma decisamente enigmatica.

Andrej Andreevic Tarkovskij, secondogenito del regista, direttore di un istituto internazionale di studi dedicato, rende omaggio al padre e ai sentimenti che li legavano; a propria volta quest’ultimo, nelle sue opere aveva onorato la figura e la poesia del proprio padre Arsenji importante poeta russo, figlio anch’egli di un filosofo di metà ottocento.

È una specie di storia di famiglia, insomma, un’eredità poetica che ormai si trasmette di padre in figlio da almeno 4 generazioni con tutto ciò che ne consegue.

Come più volte è stato ricordato anche durante le presentazioni ufficiali del film, l’opera del regista Andrej non può essere in alcun modo scissa da quella del padre, il poeta Arsenij della quale sembra quasi il compimento filmico.

Il tema dell’eredità è riassumibile nel meraviglioso aneddoto citato nell’ultima sequenza del film Sacrificio (Offret 1986) e riportato nel documentario. Un vecchio monaco pianta un albero secco sulla cima di un dirupo lasciando al proprio giovane discepolo l’obbligo di innaffiarlo costantemente dopo che se ne sarà andato. Dopo tanto impegno e speranza l’albero secco finisce per rifiorire.

Come si augura lo Stalker dell’omonimo magnifico film:

ÈChe si avverino i loro desideri, che possano crederci, e che possano ridere delle loro passioni. Infatti ciò che chiamiamo ÈpassioneÈ in realtà non è energia spirituale, ma solo attrito tra l’animo e il mondo esterno. E soprattutto che possano credere in se stessi… e che diventino indifesi come bambini, perché la ÈdebolezzaÈ è potenza, e la ÈforzaÈ è niente. Quando l’uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido, così come l’ÈalberoÈ: mentre cresce è tenero e flessibile, e quando è duro e secco, muore. Rigidità e forza sono compagni della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza, ciò che si è irrigidito non vincerà.

Decisive in questa interpretazione, che ha come baricentro il concetto dell’eredità paterna, la presenza, tra le immagini montate nel film di quelle assolutamente inedite dell’unica regia teatrale di Andreij Tarkovskij.

Dagli archivi russi, infatti, sono di recente riemerse le testimonianze preziosissime dell’Amleto che diresse nel 1976. Da quella esperienza si saldò ancora di più anche il rapporto umano e artistico con il grande attore Anatolij Alekseevic Solonicyn che fu magnifico e dolente attore in molti suoi film (Andrej Rublev 1966, Solaris 1972, Lo specchio 1975, Stalker 1979). Tarkovskij dichiarò che lo avrebbe voluto anche negli altri suoi lavori, lo impedì solo la sua morte improvvisa.

La tragedia Shakespeariana può essere agevolmente interpretata come la lotta di un figlio per fare giustizia della memoria del padre e allo stesso tempo per emanciparsene.

Il commento diretto del regista chiarisce anche un’altra prospettiva della messa in scena che ci fornisce un ottimo appiglio per guardare più in generale alla poetica di Tarkovskij.

Dice il regista: Amleto cerca di riportare equilibrio in quello che appare come “un tempo fuori di sesto”. Sappiamo bene quanto decisiva sia la questione del tempo nell’immaginario del regista. Secondo lui, il cinema è l’unica arte che ha come principale scopo quello non solo di rappresentare il tempo nel suo scorrere, ma quello di riportarlo ad una dimensione autenticamente umana e vissuta anche spiritualmente. Il mondo della produzione, delle macchine, della fabbrica e del Capitale ci ha trasformati in insensibili ingranaggi che rispondono a ritmi e meccaniche che di umano non hanno ormai che ben poco.

Sembra che perfino il nostro tempo per pensare, riflettere e ricordare sia ormai contingentato e schiacciato tra le performances lavorative e di consumo cui la tecnica ci ha abituato e costretto. Sottoposti a questa enorme pressione del contingente meccanico abbiamo escogitato un espediente artistico nel quale possiamo dare ricovero al nostro insopprimibile desiderio di ricordare e provare nostalgia sia per ciò che è stato sia per qualcosa che non si è mai dato ma avrebbe potuto.

Dice uno dei personaggi di Stalker, lo scrittore, interpretato proprio da Anatolij Alekseevic Solonicyn:

In ogni caso tutta questa vostra tecnologia, tutte queste fabbriche e marchingegni, e tutto questo agitarsi affannosamente per poter lavorare di meno e mangiare di più…non sono che stampelle, protesi. L’umanità, invece, esiste per creare…per creare opere d’arte! Questo per lo meno è disinteressato, a differenza di tutte le altre azioni umane. Grandi illusioni, fantasmi sfocati della verità in assoluto.

È proprio l’agire senza fini pratici nella fragilità e consapevolezza della propria fallibilità l’essenza della vita umana che in questo senso può essere avvicinata simbolicamente ad un fenomeno tipico dell’animo e della storia della religiosità russa che è quello dei Folli di dio

Ritornano ancora una volta i dialoghi del film Stalker che a detta dello stesso regista è il suo film più completo: il protagonista esprime con grande dolore quella che è la condizione esistenziale dell’artista e la sua necessaria dimensione di fallimento e di sconfitta che diventa l’unica vera possibilità per ognuno di noi.

Uno Stalker per se stesso non può chiedere niente…Si sono un verme, non ho combinato niente, e nemmeno qui posso fare niente. Non ho amici e nemmeno posso averne. Ma non toglietemi quello che è mio. Mi hanno già tolto tutto, la dietro quel filo spinato. Tutto quello che ho è qui, qui nella Zona! La mia felicità, la mia libertà, la mia dignità, tutto qui! Io porto qui solo quelli come me infelici e disperati che non hanno niente in cui sperare…e io posso capire, posso aiutarli. Nessuno può farlo, ma io, il verme, io si che posso! Ecco è tutto qui quello che ho, niente altro…e non voglio, non desidero nient’altro.

Alla disperazione dello Stalker risponde l’amore puro e doloroso della moglie, anche lei condannata alla solitudine e all’isolamento sociale per aver seguito l’amore della sua vita con abnegazione e speranza assoluta.

Allora egli si avvicinò a me e mi disse semplicemente queste parole: “Ti prego, vieni con me! Andai e non me ne sono mai pentita, e non ho mai invidiato nessuno, mai, in nessun momento della mia esistenza. Il destino è fatto così. Così è la nostra vita, non ci fosse il dolore non sarebbe meglio, sarebbe peggio: perché alllora non ci sarebbe la felicità né la speranza…ecco.

Il cinema nell’estetica di Tarkovskij ha il potere di rimettere in sesto il tempo, regalandoci nuovamente lo spazio necessario per la contemplazione delle immagini, dei ricordi e dei pensieri.

Non siamo più abituati all’idea spirituale dell’arte cinematografica. È diventato molto più facile consumare le immagini come si trattasse di qualunque altra merce o prodotto del nostro sistema industriale. L’arte è diventata per noi soprattutto ornamento; il bello è diventato semplicemente funzione del benessere, al servizio dei nostri desideri sempre più bassi e artificiali come del resto i nostri sensi sempre più ottusi.

Diceva il regista: Non credo nell’arte senza dio. La ragione d’essere dell’arte è la preghiera. É la mia preghiera, se i miei film possono portare la gente a dio, tanto meglio. La mia vita allora avrebbe adempiuto al suo senso che è essenzialmente “servire”. Ma non vorrei mai imporlo. Servire non vuol dire conquistare.

Per Tarkovskij l’arte è preghiera e speranza. Non sembra esserci niente di più anacronistico della preghiera nel nostro mondo opulento e distratto dalle meraviglie effimere della tecnica e artigliato dal fasullo desiderio di denaro e dalle sue diaboliche seduzioni.

Per quanto appariamo sempre alla ricerca di spazi psicologici per riflettere o crediamo di aspirare ad una dimensione spirituale della nostra esistenza, in realtà quello che cerchiamo è, nel migliore dei casi, giustificazione e rassicurazione alla nostra indolenza e alla nostra pusillanimità.

Mentre ci crogioliamo con le discipline della meditazione variamente declinate dall’esotismo allo pseudopsicoanalitico, nella realtà stiamo tutti collaborando alla distruzione della nostra nicchia ecologica senza minimamente rendercene conto. Nel film echeggiano alcune parole profetiche di Tarkovskij a questo riguardo. Proprio sul finire della sua fin troppo breve esistenza si era accorto che probabilmente non sarà una guerra a distruggerci ma la lenta inesorabile distruzione dell’ambiente vitale attraverso il suo incontrollato sfruttamento e per i veleni con cui lo insozziamo nella totale indifferenza della maggior parte di noi. Come dargli torto. Chi si ricorda ormai degli spaventosi incendi che hanno devastato il continente australiano o di quelli altrettanto apocalittici che hanno ridotto la foresta amazzonica e tante altre crisi ambientali che ormai trattiamo come solo fatalità.

Quella che Tarkovskij mette in scena è la sconfitta dell’uomo di fronte al male che lui stesso introduce nella creazione. Come prima accennavamo, l’archetipo di riferimento che può darci la chiave per i personaggi dei suoi film, è il Folle in Cristo, una figura di monaco vagante (Jurodivyj), tipico della mistica russo-ortodossa, che, in assoluta povertà, rinunciando alle seduzioni della materialità, testimonia la propria fede abbandonandosi totalmente alla misericordia di Cristo. Nel documentario, purtroppo, non si fa il minimo accenno alla regia scenica di Tarkovskij dell’opera Boris Godunov di M.P.Musorgskij che ha tra i protagonisti proprio uno di quegli anacoreti.

Nella Prima lettera di San Paolo ai Corinzi (4,10-13) è scritto:

Noi siamo gli Stolti per causa di Cristo, voi i sapienti in Cristo; noi siamo deboli, ma voi forti; voi siete onorati, noi reietti. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo con le nostre mani. Insultati benediciamo, perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti.

È proprio questa prospettiva che Tarkovskij ci mostra nei sui film: quella dell’uomo debole che avverte la nostalgia come un sentimento universale di speranza e di giustizia; che s’immagina sempre alla fine dei tempi e sull’orlo dell’Apocalisse. Il suo compito è aiutare il prossimo alleviando le sue fatiche prendendole su di se cercando di elevare il proprio spirito e l’altrui.

Per il regista sono veri pazzi posseduti da dio anche grandissimi artisti come Bresson, Tolstoj, Leonardo, Bach, eterni modelli di riferimento spirituale e artistico.

Il documentario è diviso in otto capitoli, tanti quanti film ci ha lasciato Tarkovskij. La cronologia è garantita da quello che è stato il materiale di partenza con il quale è stato costruito e cioè il corposo materiale audio che l’istituto internazionale Andrej Tarkovskij ha raccolto nella sua inesausta attività di catalogazione, acquisizione e scoperta del patrimonio del regista. Fino ad ora sono stati “sbobinate” oltre ottocento ore dei contributi più disparati e preziosi, dalle interviste che si spera vedano presto la luce della pubblicazione a letture poetiche, dialoghi con amici e parenti, pubbliche conferenze, ecc.

Nel primo capitolo che si apre con una dolcissima immagine del neonato Andreij che dorme beato nella sua culla si riflette sul significato assolutamente centrale dell’infanzia nel suo cinema. I bambini sono gli esseri umani più vicini al cielo e allo spirito per la loro capacità di meraviglia e per la loro mancanza di malizia intellettuale che gli permette di cogliere le sensazioni e le emozioni del vivere a cuore aperto e in pura innocenza. I piccoli custodiscono la capacità che perdono con il crescere di collegare il nostro mondo con quello trascendentale. È una concezione della prima età forse un po’ ingenua ma del tutto evangelica ed influenzata da una pura fede negli ultimi, nei più piccoli e nei più fragili. È nel Vangelo di Luca (18, 16-17) che si legge:

Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù al vedere questo, s’indignò e disse loro: Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite; a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entra in esso” E prendendoli tra le braccia li benediceva, imponendo le mani su di loro.

Di seguito, scorrono sullo schermo le luminose immagini del piccolo violinista protagonista dell’opera d’esordio di Tarkovskij, Il rullo compressore e il violino del 1960 e subito dopo quelle strazianti e livide de L’infanzia di Ivan (1962), meraviglioso capolavoro che gli causò non pochi grattacapi con il regime sovietico che lo riteneva un film troppo pacifista e che ebbe alcune critiche sprezzanti dal punto di vista ideologico anche in Europa tanto da meritare l’aperta difesa da parte di Jean Paul Sartre cui però il regista restò indifferente: Sono un artista non sono un filosofo” dichiarò.

I bambini inconsapevolmente sanno ancora distinguere tra la coscienza euclidea che li respinge e lo spirito assoluto che contiene e contempla tutti noi. L’immagine nell’arte deve conservare ed essere concepita come smaterializzata, del tutto metafisica. L’arte secondo Tarkovskij è il simbolo dell’infinito e la sua interpretazione non ha limite: è un’imitazione dell’atto creativo di dio e ne racchiude l’essenza.

Nel documentario grande enfasi viene riservata ai luoghi e ai paesaggi che hanno costituito gli scenari e i set en plain air del regista russo che ormai, per definizione, riconosciamo come Tarkovskiani, tanto l’impronta della sua arte ha influenzato il nostro immaginario.

Così luoghi abbandonati d’archeologia industriale, vecchi stabilimenti dismessi, le tante zone degradate delle nostre periferie urbane, gli interni di case abbandonate con i muri calcinati, i rigagnoli e le acque stagnanti su residui ferrosi e le rovine che le erbacce o il bosco stanno riconquistando, rimandano immediatamente alle atmosfere dei suoi film. Le stesse cui abbiamo tutti pensato guardando dalle nostre finestre di quarantena anti-covid le strade e le piazze delle nostre città svuotate dal traffico, senza alcuna presenza umana o rumore con solo qualche cane randagio a girare sconsolato alla luce di qualche raro lampione.

Nel documentario si insiste anche molto sul paesaggio naturale attraverso il quale è ancora possibile cogliere attraverso il cinema, il significato e la bellezza ineffabile della creazione.

Le alghe che sembrano lunghi capelli di una misteriosa danzatrice nella corrente lenta dei fiumi, le sorgenti brulicanti, gli alberi maestosi e la fitta vegetazione del sottobosco mossi dal vento, l’alba all’orizzonte di un nuovo giorno di un paesaggio desolato e brumoso che sembra promettere tutto ciò che invece negherà con il definitivo sorgere del sole, uno scroscio di pioggia improvviso, il riflesso nelle pozzanghere, il silenzio quasi minaccioso della foresta.

La sensazione che se ne trae non è però mai di quiete e di pace contemplativa, com’è, per esempio, nelle sequenze naturali assimilabili del cinema di Terrence Malick. La prima impressione che si ricava dai paesaggi di Tarkovskij è quella di assenza, di solitudine, d’abbandono. Sono sempre luoghi disanimati nei quali si avverte ancora la vibrazione, non sempre piacevole, di una vita che li ha abbandonati ma che se ne è appena andata. Sono luoghi abbandonati da un momento all’altro che vivono in una sospensione temporale che evoca inquietanti presenze e che sembra custodire un segreto funesto che annuncia o segue immediatamente una catastrofe apocalittica.

Nel documentario che sottolinea questi elementi soprattutto per quanto riguarda capolavori come Solaris, Stalker, Sacrificio vi è anche un breve, fuggevole ma altrettanto importante accenno all’incidente nucleare di Cernobyl che abbiamo nuovamente imparato a considerare grazie ad una splendida serie tv per certi versi molto Tarkovskiana. Ecco cosa scriveva nel suo diario (Martiriologio) il regista poche settimane prima di morire, tra il 26 e il 28 ottobre 1986; il disastro della centrale nucleare VI Lenin era del 26 aprile, non se ne sapeva ancora molto:

Gli uomini non sono moralmente pronti a sfruttare l’energia atomica. E mentre impareranno a farlo il mondo verrà distrutto dieci volte. Cernobyl ha spaventato tutti solo perché una semilibertà di stampa ha permesso a qualcosa di trapelare consentendoci di valutare le dimensioni della catastrofe. Ma le catastrofi con il benestare dei governi si succedono ormai da quasi cinquant’anni e restando nell’ombra è come se non esistessero. Da cinquant’anni le nazioni che posseggono l’arma nucleare compiono permanentemente dei crimini contro l’umanità, perché non abbiamo ancora compreso che con la scoperta dell’energia atomica è cominciata una nuova era per la scienza, un’era nella quale l’empirismo strisciante in campo scientifico è bandito. Forse una guerra atomica non ci sarà neanche, sarebbe troppo sciocco permetterla. Solo che non ce ne sarà bisogno. L’umanità sta già combattendo e morendo sul campo di battaglia nucleare. La guerra è cominciata. Solo i bambini e i pazzi non se ne sono accorti.1

Le tante immagini che oggi abbiamo a disposizione di quell’immane tragedia corrispondono sinistramente a quelle sensazioni derivanti dagli incantati paesaggi contaminati del regista. Anche se non sembra interessarci più, impegnati come siamo in altre catastrofi, la distruzione del nostro ecosistema e perfino dell’intero pianeta, è tutt’altro che scongiurata.

Per Tarkovskij è preciso dovere delle menti più sensibili fare tutto il possibile fino all’estremo sacrificio per salvare l’umanità sia dal punto di vista materiale che spirituale.

Tra le ultime sequenze dell’ultimo film di Andreij Tarkovskij vi è il rogo che un uomo appicca volontariamente alla propria casa, immersa nella natura desolata di un luogo isolato e remoto. Come sacrificio supremo anche di se che preferirà essere considerato pazzo. Quell’olocausto serve simbolicamente a salvare il mondo dalla catastrofe nucleare ed ha una valenza del tutto simbolica, religiosa e cristologica.

In uno straordinario romanzo di John Steinbeck carico di un potente afflato mistico, il protagonista sacrifica se stesso Al dio sconosciuto perché conceda la pioggia alla campagna riarsa dalla siccità. Perché germoglino i semi e fruttifichino nuovamente le piante non esita ad aprirsi le vene e a bagnare i solchi con il proprio stesso sangue.

Quando si fu riposato alcuni istanti, estrasse di nuovo il coltello e con attenzione e leggerezza si aprì le vene del polso. Il dolore fu acuto da principio, ma in un attimo la fitta si attuti. Guardò il sangue vivido sgorgare sul muschio, e sentì l’urlo del vento intorno alla pineta. Il cielo diventava grigio. E il tempo passò e anche Joseph divenne grigio. Era lì, coricato sul fianco con il polso steso e guardava l’oscura e lunga catena montagnosa del suo corpo. Poi il suo corpo si fece pioggia torrenziale. “Avrei dovuto saperlo” bisbigliò “Io sono la pioggia” E ancora guardava assopito le montagne del suo corpo da dove le colline precipitavano nell’abisso. Sentiva la pioggia cadere, la udiva battere violenta, percuotere il terreno. Vide le colline oscurarsi d’umidità. Poi un dolore lancinante attraversò il cuore del mondo, “Io sono la terra” disse. “E sono la pioggia. Tra poco da me crescerà l’erba” La burrasca s’addensò, abbuiò la erra, la sommerse nel frastuono delle acque.

1Andrej Tarkovskij, Diari-Martiriologio, Ed. La Meridiana, Firenze 2002, pag. 687.

© Flaviano Bosco per instArt

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