Dopo aver lasciato passare qualche tempo, ritorniamo a mente fredda a ripensare ad alcuni film dell’ultima edizione del festival udinese che meritano qualche considerazione in più anche se esclusi dai premi ufficiali.

Si sa che, questi ultimi, in qualunque rassegna, raramente vanno ai film più interessanti presenti in cartellone e anzi, di solito, sono solamente frutto di compromesso tra la giuria del momento e le pressioni delle case di produzione e distribuzione e, a volte, di ragioni extra-cinematografiche e perfino geopolitiche. Sembrerà un caso ma, ultimamente e in linea generale, vanno per la maggiore le opere artistiche ucraine, molto meno quelle russe.

Il Feff non è diverso dagli altri festival, così è, così deve essere. In ultima analisi, è sempre e solo questione di gusti. La vera magia del cinema, nonostante tutto, continua ad essere sempre la medesima anche in questa fase di digitalizzazione e di fruizione sulle piattaforme on line. Nessun critico o esegeta dell’immagine potrà mai sostituirsi allo sguardo, per quanto ingenuo, di ognuno degli spettatori che, in ogni caso, continueranno a vedere i film secondo la propria indiscutibile prospettiva, fregandosene dei premi, dei consigli e delle sinossi. Viva il cinema!

Satoshi Kon: The Illusionist di Pascal-Alex Vincent (2021)

I titoli degli anime di Kon si contano sulle dita di una mano, la quantità dei suoi lavori nel breve spazio della sua esistenza, morì a soli 46 anni, è molto limitata rispetto alla produzione fluviale e magmatica di tanti suoi compagni di matita.

Eppure un’aura di leggenda aleggia su di lui e sulle sue opere addirittura da quando era ancora in vita. Basta guardare qualche fotogramma di “Perfect Blue” o di “Paprika-Sognando un sogno” per capire di essere davvero di fronte a qualcosa di completamente originale.

Il prezioso documentario biografico di Pascal-Alex Vincent, per quanto classico e senza grandi rivelazioni, basato su materiali d’archivio, per lo più interviste televisive al regista e a chi lo ha conosciuto, ci permette di dare uno sguardo generale all’interno di quell’immaginario così particolare. A guardarlo sembra proprio di essere proprio in un film dello stesso Kon nel quale s’indaga dal di “dentro” la vita e i sogni di un artista, una finzione nella finzione, puro metacinema.

Colpiscono molto le testimonianze di vari registi asiatici e non che si dicono influenzati dal suo stile. Il più svergognato di tutti è Darren Arnofsky che per anni ha negato gli autentici plagi diretti e pedissequi da “Paprika” per “Inception” o da “Perfect Blue” per “Black Swan” e oggi li ammette con candore virginale. Probabilmente la fama raggiunta grazie al latrocinio lo mette ormai al sicuro da cause milionarie, ma non si sa mai.

Moltissime anche le influenze cinematografiche dichiarate dallo stesso Kon per i propri lavori: da Hitchcock di “Vertigo” a Tarkovsky di “Stalker”, passando per “Suspiria” di Argento fino al Lynch di “Mulholland drive”.

Da non sottovalutare nemmeno i suoi adattamenti dalle opere letterarie dello scrittore Yasutaka Tsutsui, i cui romanzi sono quasi del tutto inediti in Italia, soprattutto per il tema del doppio e del confronto tra realtà e finzione dai confini labili e mai certi una volta per tutte, spesso facendo ricorso, per descrivere situazioni e personaggi, all’onirismo e allo stratagemma delle personalità multiple borderline.

Fondamentale in questo senso, sempre dal punto di vista cinematografico, il riferimento al film “Mattatoio n°5” di George Roy Hill (1972) tratto dall’omonimo romanzo di Kurt Vonnegut, così come quello a “The Three Godfathers” di John Ford (1948) che Kon trasformò nel bellissimo “Tokio Godfathers”.

Molto interessante il riferimento al suo forse troppo sottovalutato “Millenium Actress” ispirato alla storia di Setsuko Hoara, meravigliosa attrice del cinema classico giapponese, famosa soprattutto per le sue interpretazioni nei film di Yasugiro Ozu. Questo toccante lungometraggio animato ebbe la grande sfortuna di uscire lo stesso anno dell’inarrivabile “La città incantata” di Myazaki che lo schiacciò sia al botteghino, sia per la fama planetaria.

Quello che colpisce ascoltando le interviste di Kon, è l’introversione e l’evidente difficoltà nelle relazioni umane dell’artista che sembra sempre a disagio quando si trova in pubblico proprio come i personaggi dei suoi capolavori. Per sua stessa dichiarazione, Mima la tormentata protagonista di “Perfect Blue” è una trasposizione di se stesso e delle proprie idiosincrasie.

Di certo il documentario di Pascal-Alex Vincent è rivolto ai cinefili e alla grande schiera di Nerds vecchi e nuovi che “s’intridono” d’Anime e relativi manga, ma può servire anche come vademecum per i fortunati neofiti che ancora devono accostarsi alla meravigliosa arte del disegnatore giapponese. A loro spetta ancora scoprire tante grandi emozioni e l’unico rimpianto della fine prematura di un genio del cinema.

The Killer di Choi Jae-hoon (SK 2022, 95’) alla presenza del regista e dei produttori.

Sul grande schermo del Teatro Nuovo Giovanni da Udine ancora immerso nell’oscurità, l’ascensore arriva al piano. Non appena si schiudono le porte un’ascia lanciata a tutta velocità entra violentemente in campo. Segue una violentissima rissa in atrio a colpi di coltello, mannaia, spari a bruciapelo, calci volanti. Inizia così e prosegue senza un attimo di respiro il film di Choi Jae-hoon, maestro del nuovo action sud-coreano.

In “The Killer” non c’è proprio niente di nuovo, è davvero il classico film spara-tutto adrenalinico nel quale il cattivo è proprio un irredimibile mostro senza cuore e il buono è un sicario dal cuore di cavaliere errante che vorrebbe finalmente vivere in pace ma che, giocoforza, deve salvare una giovin-fanciulla sequestrata nella tentacolare foresta di cemento armato, coltelli e cellulari.

Il plot è molto simile al cupo e nervoso “Deliver us from Evil” di Hong Won Chan della scorsa edizione del festival udinese.

E’ invece qualcosa di radicalmente nuovo o quanto meno assolutamente insolito, il lavoro di montaggio. Il film è un continuo fast forward contrappuntato da incessanti flash back. La narrazione, in questo modo, con lo svolgersi del film, può agevolmente dislocarsi su più piani temporali.

Lo spettatore, quando iniziano alcune sequenze, crede di conoscerle a menadito perché gli sono state mostrate in anticipo e invece ogni volta la prospettiva cambia in un twist narrativo continuo davvero avvincente che regala una piacevole sensazione di spaesante deja-vù. La morale è: in una società corrotta, per definizione, non esistono persone immacolate, anzi tutti sono continuamente disposti a vendersi e a tradire, niente di straordinariamente nuovo nemmeno in questo caso.

Il sicario protagonista, interpretato da un algido e legnoso Jang Hyuk, confida solamente nei più stretti affetti familiari. In un mondo in cui come dicono i francesi: “Tout Passe, tout se casse, tout ne Lasse” è l’amore per la petulante moglie a sostenerlo. Proprio per questo si fa convincere a fare da baby sitter temporaneo ad una terribile diciassettenne in fregola (Punk Ass) figlia adottiva di un’amica della gentile consorte, mentre le due si concedono una breve vacanza balneare.

Male gliene “incoglie” perché la piccola teppistella viene coinvolta, suo malgrado, in un giro di prostituzione minorile nel quale si rapiscono giovani vergini da vendere al miglior offerente. Si perdoni lo spoiler, ma alla fine si scopre che il cliente più danaroso e in vista, è un importante ministro del governo, spalleggiato dal capo della polizia, e che la maitresse dell’orrendo meretricio è proprio l’amica della moglie del protagonista, detta non a caso “Mama Pig”, disposta a vendersi perfino la figlioccia pur di far soldi, “pecunia non olet.”

Naturalmente, giusto in tempo, il sicario riesce a risolvere l’inghippo, che a tratti, bisogna pur riconoscerlo, diventa parecchio confuso, a suon di “mazzate” e proiettili nel cranio. E’ spietato come devono essere gli sgherri come lui ma qualcosa ha davvero cambiato la sua percezione degli affetti.

In alcuni attimi ritorna con la memoria ad un ricordo molto doloroso. Una dolcissima ragazza, con gravi problemi di depressione, lo aveva ingaggiato tempo prima, per farsi assassinare. Da vero professionista aveva eseguito ma l’ultimo sguardo di gratitudine della piccola l’aveva turbato nel profondo.

Nel cinema action asiatico quello delle persone che pagano un killer per se stesse, è quasi uno stereotipo tanto che lo scorso anno al FEFF 23 si era potuto ammirare lo splendido “Time” di Ricky Ko tutto basato su una vecchia gang di spassosi ex assassini matricolati che torna insieme proprio per specializzarsi, con un certo successo, nel “ramo eutanasia” dopo che una ragazzina aveva chiesto a uno di loro di porre fine alle proprie sofferenze.

“The Killer” colpisce il nostro immaginario contemporaneo che ha ritrovato i propri nemici malvagi nei russi come durante la Guerra fredda. Nel film l’importante traffico di esseri umani a fini sessuali che si scopre essere internazionale, è gestito dalle mafie di quel paese e il classico antagonista dell’eroe, un tostissimo butterato dall’aria truce, utilizza di preferenza per i suoi omicidi un pugnale balistico in dotazione agli Specnaz, gli spietati incursori della marina, prima sovietica e ora russa, che lo hanno addestrato.

Come in tutti i film di questo genere non mancano i riferimenti a sistemi d’arma modernissimi che fanno la gioia di tutti gli appassionati. In questo caso, fa bella mostra di se, il fucile di precisione M200 Cheyenne Tactical Intervention di fabbricazione statunitense, l’arma dei “buoni” per eccellenza. Il fucile, impiegato da molti reparti speciali Nato, è un Long Range Rifle System che utilizza cartucce Wildcat supersoniche letali e precise fino a tre chilometri.

Il brutale coltello dei malvagi assassini cosacchi contrapposto al prodigio della tecnologia degli angelici difensori della libertà e della democrazia, ma “vuoi mettere?” Non c’è proprio storia.

Year of the Dragon di Michael Cimino (L’anno del dragone, USA 1985, 135’)

A proposito di “guerre giuste e democratiche” la retrospetiva del Feff 24 ha presentato una copia restaurata del classico di Micheal Cimino che continuava con quella pellicola la propria riflessione cinematografica sulla tragedia dei reduci del conflitto che interessò la sua generazione: “Questo è un altro Vietnam, un’altra guerra che nessuno vuole vincere”.

Cimino dichiarò che il suo film ambientato tra i gangster delle Triadi nella Cinatown di New York era semplicemente un war movie d’ambientazione urbana; possiamo tranquillamente aggiungere che per gli evidenti riferimenti diegetici che si spingono fino all’autocitazione, “L’anno del dragone” potrebbe essere considerato un ideale seguito de “Il cacciatore” (1978). Nel film si dice tra l’altro: ”Ecco cosa siamo, quattro uomini in una stanza con una pistola puntata in fronte” e sembra quasi l’evocazione di quel terribile gioco di morte della roulette russa di “The Hunter”.

Cupo, spigoloso, livido il film di Cimino è schizofrenico, frontale e diretto fin dalle prime sequenze. Il conflitto del Vietnam ossessiona il protagonista, un’incorruttibile capitano di polizia, reduce di guerra dal cuore marcio, il polacco Stanley White, interpretato da un disilluso Mikey Rurke (Nei dialoghi: “Sei stato nel Vietnam? – Si – Lo sapevo, ti ha rovinato”).

Nel frattempo, tra i mafiosi della comunità cinese si fa strada il giovane ambizioso e sanguinario Joey Tai (John Leone), perfetto antagonista del capitano, che sconvolge gli equilibri del traffico di droga a proprio favore scatenando l’inferno anche contro i padrini di Cosa Nostra.

Sceneggiatura e soggetto, seppur di ottimo livello, sono assolutamente convenzionali e l’ambientazione tra la Chinatown di New York e una fantasiosa Thailandia, paradiso dell’eroina, del tutto pretestuosa, inconsistente e strumentale.

Le triadi, i ristoranti cinesi, il traffico di droga, la mafia cinese e italiana sono esotismi e strizzatine d’occhio al botteghino cinematografico; l’eco di capolavori e successi commerciali come la saga del “Il Padrino” e “Apocalypse Now” ancora risuonava e Cimino è stato spesso considerato a torto una sorta di Francis Ford Coppola minore.

Il 1985 quando il film uscì si trovò in diretta concorrenza con assoluti blockbuster come “Rocky IV”, “Commando”, “Rambo 2 – La vendetta”, era evidente che un certo detective movie, a tinte fosche e psicologico, non poteva funzionare perché del tutto fuori tempo massimo.

Infatti, il film fu un totale disastro sul mercato americano (costo 24 milioni, incassi 18 milioni). La responsabilità però non va rubricata del tutto al regista, ma in larga misura alla produzione e alla distribuzione.

La mano pesante, in certe cadute di gusto è di certo di Dino De Laurentis, il “dinamitardo” produttore del cinema mondiale, in grado negli anni ‘80 di rovinare con i suoi tagli, pressioni, riscritture, attricette imposte, anche la storia potenzialmente perfetta per il grande schermo (vedi il “Dune” di David Lynch).

Fu De Laurentis, per esempio, a volere fortemente l’inserimento in sceneggiatura di un fascinoso quanto insipido e inutile, personaggio femminile di origine asiatica. La giornalista cinese Tracy Tzu, interpretata dalla statuaria Ariane Koizumi che qualcuno vuole amante di De Laurentis, è assolutamente decorativa e solamente parte del sofisticato inutile arredamento della casa in cui abita: il Tracy’s Loft dei titoli di coda designed by Lembo – Bohn design inc. In un dialogo serrato il capitano White le urla: “Sai cosa sta rovinando questo paese? – Non è la droga, sono i mass media, sono quelle come te”. Non si sbaglia in senso assoluto.

Fatta la tara alla “confezione regalo”, il contenuto del film è tutt’altro che da scartare.

Cimino continua, anche in questo suo lavoro che potremmo considerare “minore”, nella demolizione dell’idea, già ormai decrepita del sogno americano che però, proprio in quegli anni di reganismo tutto coca cola e missili intercontinentali, continuava ad essere riproposto come immaginario a livello planetario.

Al vertice degli incassi cinematografici di quell’annata c’era proprio il tanto osannato “Back to the Future” del pessimo Zemekis. Anche se il film può vantare legioni di critici compiacenti e di fan adoranti, resta sempre un’opera di becera propaganda e mistificazione della storia; tecnicamente perfetto ma di infimo livello ed intenzioni.

Esattamente proprio il contrario della poetica di Cimino, sempre oltre ogni aspettativa e smisurata come in Heaven’s Gate (I cancelli del cielo, 1981) o raccogliticcia come nel caso del nostro “Year of the Dragon”. Se a questi aggiungiamo “The Hunter” abbiamo un’ideale trilogia di realistica e dolente contro-storia americana in grado di cancellare la prosopopea zuccherosa e ipocrita di Zemekis, dalla saga del Tempo con la DeLorean DMC-12, agli indigesti cioccolatini di Forrest Gump.

Tra stereotipi, scene d’azione e patetici intermezzi amorosi L’anno del dragone ha un andamento circolare, tutto sommato, piuttosto piacevole, non è certo memorabile ma nemmeno da buttar via. Inizia con il funerale tradizionale di un vecchio capo mafia cinese, si conclude con quello del nuovo il giovane irruento Joey Tai di cui dicevamo e tutto ricomincia come prima senza che niente si sia risolto, nell’eterno ritorno dell’uguale.

(Continua)

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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