“Il jazz è quello che sei. Se sei il nulla, suoni il nulla”.
Una frase in sé semplice, quella pronunciata da Alessandro Averone/Chet Baker sul palco, eppure così incisiva nel definire l’essenza di un genere musicale che ha segnato un’epoca e un mondo. E che risulta particolarmente significativa se proveniente da una figura che è stata tutt’altro che il nulla: Baker è stato tanto, dentro e fuori di sé. Una personalità tormentata che si rifletteva nell’intensità della sua musica. Un talento cristallino che l’ha portato a suonare nell’ensemble di Charlie Parker a soli 22 anni e successivamente a essere considerato il miglior trombettista d’America, superando anche Dizzy Gillespie e Miles Davis.

Era tanto, addirittura troppo. Troppo anche per sé stesso, un’anima sensibile forse incapace di sopportare tutto ciò che il suo talento gli portava, o forse troppo avida di vivere una vita al limite. Ma che in ogni caso l’ha portato sempre più verso l’autodistruzione, con una tossicodipendenza durata oltre trent’anni che ha quasi distrutto la sua carriera e seminato la sua strada di continue cadute e tentativi di rialzarsi, senza riuscirci mai del tutto ma senza nemmeno rinunciarci.

E’ dedicato alla sua figura così controversa “Tempo di Chet”, lo spettacolo di Leo Muscato e Laura Perini con le musiche live di Paolo Fresu -trombettista di fama internazionale che di certo ha Baker tra i suoi ispiratori, se non altro per le movenze e le contorsioni durante le loro performance- accompagnato da Dino Rubino al pianoforte e da Marco Bardoscia al contrabbasso.

Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, arriva al Rossetti di Trieste grazie a Generali, che con il suo programma “Valore cultura” mira a portare grandi eventi culturali nel capoluogo giuliano a prezzi decisamente competitivi. Ed è una particolare e certamente affascinante fusione di arti: scrittura drammaturgica e partitura musicale non sono infatti separate, e -per quanto ci siano momenti dedicati alla sola musica- per buona parte della performance gli attori recitano su un sottofondo musicale continuo. Recitazione e musica si intersecano, uniscono e confondono per cercare di raccontare su più piani i tormenti dell’anima di Baker.

Perché è chiaro sin dai primi minuti che vuole essere questo il focus dello spettacolo: l’aspetto umano di Chet. Non ci si aspetti quindi una biografia tradizionale, che segua punto per punto la vita e la carriera del grande musicista. Né una altrettanto tradizionale interazione con i -seppur molti- personaggi che popolano il palco. Tutto assume toni molto più marginali per lasciare sempre al centro dell’attenzione Alessando Averone e il modo in cui il suo Chet reagisce e incassa i colpi datigli dalla vita.

Cerchiamo di spiegarci meglio. Da un punto di vista biografico, gli episodi citati o descritti sono davvero tanti. Ma la narrazione muta fortemente da uno all’altro di essi, a volte espandendosi e a volte contraendosi, come nelle fasi di un respiro. A volte dando origine a scene anche piuttosto lunghe in cui compaiono sul palco i vari attori, altre venendo solo raccontati -in maniera anche sbrigativa- da diversi personaggi.

Gli eventi principali vengono comunque per lo meno citati tutti: il padre spesso ubriaco ma che alimenta il suo talento introducendolo al mondo della musica. La serie di concerti sulla West Coast nella band di Charlie Parker. L’esperienza nel quartetto del sassofonista Gerry Mulligan, che contribuì sensibilmente alla notorietà di entrambi in quanto per la prima volta un quartetto jazz non presentava un pianoforte (è questo il periodo in cui Baker inizia a venir riconosciuto come l’inventore del cool jazz). Il quartetto a suo nome e il tour in Europa durante il quale il pianista Dick Twardzik morì per overdose: primo dei momenti a segnare profondamente Baker, a provocare in lui enormi sensi di colpa e forse a iniziare la sua personale discesa nel gorgo dell’eroina. Il ritorno negli Stati Uniti, l’inizio del declino e la gogna sociale per la sua tossicodipendenza. Il trasferimento in Europa e l’apparente rinascita, fino all’apertura del “Chet Baker Club” in Italia. Il nuovo tracollo nella morsa della droga, la carcerazione a Lucca. I continui salti da un paese europeo all’altro, gli arresti per droga e le conseguenti estradizioni. Il matrimonio con l’attrice inglese Carol Jackson. Il nuovo ritorno negli USA, dove viene sfruttato da un nuovo produttore. Il ritiro a causa della perdita dei denti per cause mai accertate del tutto: una rissa post-concerto nella sua versione ufficiale, un regolamento di conti per della droga non pagata a sentire diverse fonti a lui vicine. Il ritorno alla città natale e il lavoro ad una pompa di benzina. La costruzione di una dentiera e la lenta riabilitazione (partendo dalle basi e dalle scale) per reimparare a suonare nella sua nuova condizione. L’ennesimo ritorno sulle scene, l’ennesimo trasferimento in Europa. Le continue tappe ad Amsterdam, per poter soddisfare la sua mai sconfitta dipendenza dall’eroina. Fino alla morte, precipitando dalla finestra di un hotel della capitale olandese, per cause mai completamente chiarite.

Sono stati qui tutti elencati in modo molto sommario volutamente, perché è ciò che accade spesso sul palco. Molto più spazio viene invece dato alla reazione di Averone/Chet, tramite dialoghi o monologhi che trasmettono a fondo la sofferenza della sua anima, il suo sentirsi preso da un gorgo destinato all’autodistruzione ma il non riuscire ad uscirne, abbandonandocisi anzi a volte con tristezza, a volte quasi con compiacimento.

Questo tipo di narrazione, per quanto molto scenico, rende in alcune occasioni difficile seguire il filo dell’esistenza di Baker, soprattutto se non si conosce già almeno qualcosa della sua biografia. Dall’altro lato permette però di creare un forte legame empatico con il protagonista e di provare molto spesso solidarietà, compassione o anche rabbia di fronte a quelli che vengono quasi sempre descritti come colpi bassi inferti da una vita crudele, in un facile delinearsi del “buono” contro un mondo “cattivo”.

Diciamolo chiaramente: da questo punto di vista lo spettacolo è certamente di parte nel costruire un Baker vittima, del mondo quanto di sé stesso. Piccolo esempio: in merito alla notte in cui perse i denti, non viene fatto cenno alla doppia versione ma lo si attruibisce direttamente all’ipotesi del regolamento di conti con uno spacciatore. Va sottolineata però anche l’onestà intellettuale degli autori, che sin dal sottotitolo (“la versione di Chet Baker”) hanno dimostrato l’aperta volontà di seguire questa strada. E non si vuole qui giudicare sul fatto che sia giusta o sbagliata: è un modo di vedere una storia, un modo indiscutibilmente non “giornalistico” e asettico ma fortemente d’impatto. E che permette di portare su un piano più umano un personaggio spesso etichettato in vario modo (dal “drogato” al perdente, al perseguitato) ma mai capito -e nemmeno tentato di capire- veramente.

Tornando alla precedentemente citata interazione con gli altri attori, anche qui si è voluto mantenere Chet al centro e sfumare tutto il resto. Molto spesso i personaggi entrano in scena timidamente, rimangono in disparte e si rivolgono direttamente alla platea, presentandosi con nome e cognome e raccontando la loro esperienza con Baker, come l’hanno conosciuto, qualche aneddoto che hanno condiviso. A volte fungono da semplici narratori per raccontare dei tratti della vita del trombettista. Ci sono ovviamente anche molte scene in cui diversi personaggi lo avvicinano e dialogano con lui, ma anche qui il focus è sul musicista: sono sempre discussioni in cui Chet si dimostra “forte”, vuole convincere gli altri della correttezza del suo modo di vivere. E avvengono principalmente nella prima parte dello spettacolo: più le due ore passano e più Baker viene lasciato solo sul palco, mentre i personaggi raccontano la sua vita seduti sul divanetto all’angolo del proscenio. A mostrare un crescente senso di solitudine, di sconfitta e di abbandono da parte del mondo.

Ottima in generale la prova degli attori. Alcuni personaggi risultano un po’ sopra le righe e non molto coerenti con la loro versione storica “reale” (su tutti Gerry Mulligan) ma va certamente lodato l’impegno di Rufin Doh, Simone Luglio, Debora Mancini, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Graziano Piazza e Laura Pozone, che pur essendo solo in sette danno vita a una quantità decisamente superiore di identità, riuscendo a distinguerle tutte solo con un cambio d’abito.

La parte del leone la fa però -ovviamente- Alessando Averone, un Chet Baker profondamente umano, fragile e sempre più spaesato. Allibito e spesso senza fiato di fronte a una vita dura, eppure alla fine sempre capace di rialzarsi, per poi cadere di nuovo. Particolarmente toccante la scena in cui incontra i genitori di Dick Twardzik dopo la morte del pianista: di fronte alla loro insistenza nel fargli confessare ciò che loro credono sia accaduto realmente (e cioé che Baker fosse stato col figlio al momento della sua morte e non fosse stato in grado di rianimarlo) Averone li affronta inizialmente quasi con spavalderia ma si fa via via più incerto e fragile, mostrando tutto il tormento di un uomo che vorrebbe dire qualcosa che dia pace almeno alle anime dei genitori di Twardzik ma che non riesce a farlo. Perché al di là di cosa sia successo davvero – la scena non svela nulla sulla veridicità dell’ipotesi avanzata dei genitori- Baker era ormai un uomo devastato dal senso di colpa e con la sola necessità di fuggire da essa.

Legata indissolubilmente alla parte recitata c’è la musica. Il trio guidato da Fresu accompagna con le sue note tutti i dialoghi e i monologhi, sia con brani storici di Chet sia con composizioni originali del trombettista italiano. A volte delicate e rarefatte, a volte più rudi, sempre in linea con il mood di ogni scena e utili a sottolinearlo. Tra una scena e l’altra il palco viene inoltre lasciato interamente ai musicisti, ed è qui che si può assaporare meglio il grande lavoro realizzato da Fresu: il trombettista italiano non cade infatti nel facile tranello di un’imitazione (peraltro impossibile) di Baker ma da una sua personale impronta ai suoi storici pezzi. Impronta molto presente anche nei pezzi originali, non semplici cloni dello stile di Chet e sempre permeati da quell’equilibrio musicale tipico di Fresu.
L’unico difetto della serata riguarda la parte tecnica, con una differenza di volume tra musica e voci non ben regolata e che ha portato più volte le voci degli attori -pur microfonati- a essere sovrastati dalla musica, con la conseguente impossibilità di udice cosa dicessero.

Complessivamente uno spettacolo convincente, che sa emozionare e catturare. Come già detto non è né vuole essere la biografia di un artista, quanto la discesa in un’anima tormentata. E in questo riesce appieno, creando un forte legame tra platea e attori. E lasciando quell’amarezza divisa tra curiosità e rispetto che, una volta tornati a casa, vi farà aprire più di un sito di informazione musicale per approfondire la conoscenza della vita di Chet, per capire qualcosa di più del Baker “uomo”, prima ancora del “musicista”.

Luca Valenta / © Instart

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