Dopo gli applauditi “Thanks for vaselina” e “Animali da bar” torna sul palco del Politeama Rossetti uno dei gruppi più interessanti del panorama teatrale italiano: Carrozzeria Orfeo. E lo fa con il suo stile ormai caratteristico: aggressivo, irriverente, sempre in bilico tra la caricatura e l’estremismo. E con un taglio fortemente cinematografico.

Tutti ingredienti presenti anche nella loro ultima creazione, dove però si può ravvisare una maggior consapevolezza nel loro uso. L’esperienza maturata con le opere precedenti ha certamente giovato al talentuoso gruppo, che mai come in “Cous Cous Klan” sa dare un ritmo ben cadenzato alle due ore di spettacolo: rutilante, a tratti bulimico di contenuti e di dialoghi ma senza mai cadere in una narrazione caotica che faccia perdere il filo alla platea.

Per l’occasione ci si sposta in una realtà distopica eppure fortemente attuale: siamo in un (im)probabile futuro in cui l’acqua è diventata un bene preziosissimo e la società si è spaccata tra i ricchi -che possono vivere agiatamente in zone dette “la recinzione”- e i poveri relegati in baraccopoli o peggio, in continua lotta per la sopravvivenza. E’ proprio su questa seconda realtà che Carrozzeria Orfeo sposta la propria attenzione, concentrandosi sull’esistenza di sei persone che vivono in roulotte vicine.

Sei emarginati, vessati e sconfitti dalla vita, che arrancano senza la forza di cercare un riscatto. Sei vite in bilico tra l’essere un’apparente caricatura (con forti venature da stereotipo, come per il musulmano Mezzaluna) e il nascondere demoni interiori da cui non riescono a scappare.

Vite che inizialmente si muovono stanche all’interno di una routine di autocommiserazione che alimenta i conflitti interni, come quello tra Caio -cinico ex-prete che non perde occasioni per ottenere profitto sulle spalle degli altri- e Mezzaluna, con in mezzo la sorella di Caio, innamorata del musulmano. Tutto viene però raccontato con forte ironia, con una serie di scene irriverenti e comiche che strappano molti sorrisi alla platea e ricordano a sprazzi le commedie nere all’americana, con però purtroppo qualche granello di troppo di stile televisivo “nostrano”. In particolare nel linguaggio molto spesso scurrile che se da un lato può considerarsi adeguato al contesto decadente e decaduto, dall’altro sembra in alcuni casi un po’ eccessivo e gratuito.

Rimane il fatto che si ride di gusto, con battute la cui qualità oscilla però tra il ricercato e il banale (come quelle relative al personaggio di Achille -peraltro splendidamente interpretato da Aleph Viola- e al suo essere gay).

Un primo scossone alla strana combriccola arriva quando di presenta alle loro porte Aldo, un ex abitante della Recinzione caduto in disgrazia per aver avuto una scappatella extraconiugale con una minorenne. Aldo è l’esempio perfetto del perdente: timido, insicuro eppure inguaribilmente ottimista e certo di essere un vincente, nonostante la vita continui a prenderlo a schiaffoni e a relegarlo sempre più ai margini.

Ma la vera svolta per i novelli perdenti sarà un secondo arrivo, quello di Nina, una ragazza misteriosa che non ricorda nulla dei suoi ultimi cinque giorni. Sarà lei il deus ex machina della situazione: con la sua esuberanza non ancora corrotta dalla rinuncia alla lotta, pian piano recupererà la memoria perduta e convincerà gli altri a cercare un poderoso riscatto tramite un “colpo” al limite dell’impossibile all’interno della Recinzione.

L’arrivo di Nina e il suo modo schietto di mettere ognuno davanti ai propri demoni interiori cambierà lo stile di narrazione, che pur rimanendo ironico e disincantato assumerà lentamente dei connotati più seri, mentre ognuno dei personaggi scaverà dentro di sé per trovare che sì, in fondo in fondo c’è ancora una piccola parte del loro animo che quel riscatto lo vorrebbe. E così Caio da cinico profittatore si scopre anima che ha paura di aprirsi per essere ferita e si nasconde dentro una scorza dura; o Aldo smette finalmente di porgere sempre l’altra guancia e rivela finalmente la sua rabbia per una vita di sacrifici che agli occhi della società vale così poco da poter essere buttata via in nome di un errore di una notte; o Achille mostra di non essere davvero quello sboccato disagiato che minaccia sempre di violentare tutti, quanto un’animo gentile che sogna di poter trovare il suo primo amore; o ancora, la non-più-giovanissima Olga (un’eccellente Beatrice Schiros) che vuole solo essere ingravidata prima che sia troppo tardi nasconde dentro di sé il rimpianto di aver invece voluto abbandonare la bambina che portava in grembo 25 anni prima . Le rivelazioni in merito a ognuno dei personaggi sono molto ben dosate e seppur intense e fortemente emozionali non minano per nulla la generale ironia dello spettacolo, anzi vanno su una virtuale altalena con questa e creano contrappunti molto godibili.

L’unica che lascia perplessi nella propria “evoluzione” è proprio Nina, che nel suo recuperare la memoria pezzo per pezzo risulta fortemente meccanica e quasi innaturale. Con il senno di poi, dopo aver assistito al finale dello spettacolo (su cui arriveremo a breve) si può affermare con certezza che questo non è un buco di scrittura o una sceneggiatura non adeguata, quanto una scelta ben precisa. Rimane però il fatto che la cosa acquista senso appena nella scena finale, quindi chi ancora non sa come la vicenda andrà a finire potrebbe non apprezzare la poca umanità (rispetto a quella mostrata dagli altri) di Nina. Con in più alcune scene francamente molto deboli, come quella dei baci al di lei seno, che a causa del sostanziale distacco mostrato da Nina manca l’obiettivo della vicinanza emotiva così ben raggiunto invece per le scene più intime degli altri personaggi.

Il finale, si diceva. E’ questo un punto un pò dolente, in quanto gli ultimi due avvenimenti (la rivelazione su Nina e ciò che accadrà dopo che lei se ne sarà andata) spaccheranno certamente la platea.

Il primo dei due elementi (cosa sia successo davvero a Nina) è infatti un tentativo di chiudere su una nota a metà tra il metafisico e il romantico ma può lasciare spiazzati per la sua totale disconnessione con l’atmosfera molto “reale” e marcia (in senso buono ovviamente) del resto dello spettacolo. In particolare l’ultimo incontro tra Nina e Olga pare fuori luogo e chiude in un modo troppo melenso e francamente non necessario la vicenda del rimorso della donna per la figlia abbandonata.

Il secondo elemento invece riguarda la reazione dei rimanenti “perdenti” dopo la scomparsa di Nina. Quest’ultima si è fatta guida dello squinternato gruppo, dando loro il coraggio di tentare un’impensabile ribellione. Ma -come lei stessa dice quando si accomiaterà da Mezzaluna- la scelta di portare a termine la redenzione o di rimanere ciò che sono spetta solo ed esclusivamente a loro stessi. E’ quindi un fortissimo pugno nello stomaco la scena finale in cui -disperato per la perdita della ragazza di cui si era nel frattempo innamorato- Caio torna a trincerarsi dentro la sua armatura da cinico profittatore e in questo gorgo porta con sé tutti gli altri, che nell’arco di poco più di cinque minuti vanificano tutto il buono fatto fino a quel momento e ripiombano nella miseria della loro routine da reietti.

In questo c’è sicuramente una forte critica nei confronti della necessità della società  attuale di avere un leader per poter trovare il coraggio di prendere in mano la propria vita e ciò va lodato. Ma siano preparati gli amanti dell’happy ending, perché il rapidissimo ribaltarsi di un finale che sembrava palesemente orientato a sentimenti positivi sarà certamente un duro colpo. Con come ciliegina sulla torta la scena forse più drammatica dell’intero spettacolo, che cerca timidamente di dare un’ultima flebile speranza ma in realtà lascia solo lo sgomento per una morte che pare francamente evitabile e messa lì solo per “chiudere col botto”.

Luca Valenta / ©Instart

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