© Foto Davide Carrer

Cosa abbia portato i teutonici Notwist dal furioso hardcore metal degli esordi ad un pop sofisticato ed ammaliante, culminato con il capolavoro del 2002 Neon Golden, non si sa. Certo è che il gruppo dei fratelli Micha e Marcus Archer ha influenzato tutta la scena di fine millennio, grazie anche a diversi side project presso etichette come Morr Music e Kollaps e collaborazioni varie. Film già visto peraltro negli anni settanta, quando i connazionali Can, Faust, Popol Vuh, Neu! e compagnia impollinavano sia la nascente scena d’Albione, sia un certo David Bowie, mentre dai laboratori di Kraftwerk e Cluster/Harmonia (con Brian Eno) uscivano i codici della musica elettronica moderna. Cosa abbia invece portato i Notwist a Sexto ‘Nplugged può essere invece considerato una naturale conseguenza del fatto che il gruppo bavarese incarna lo spirito ed i contenuti della rassegna di Sesto al Reghena: passione, melodia e grande spirito di ricerca. Il tempo tra l’altro è stato galantuomo con la band, visto che il recente Vertigo Days è una pietanza pop rock di rara grazia, condita da ingredienti stuzzicanti: elettronica vintage, jazz, melodie a presa rapida, suoni avvolgenti. L’assetto del gruppo a sette elementi ha favorito questa ricetta e ne abbiamo avuto conferma nella serata agostana di sabato: sul palco si son viste tastiere analogiche di ogni tipo, organetti, due melodica, diavolerie assortite, un vibrafono, chitarre, sassofoni (perfino una tuba), che i musicisti sovente si sono scambiati senza che il risultato finale ne fosse compromesso. Nella serata di sabato 7 agosto quelli che sono saliti sul palco avevano l’aspetto di un gruppo di turisti tedeschi di mezza età in gita nel Belpaese appena scesi dal pullman, ma hanno mostrato subito di che pasta sono fatti. La partenza di Into Love Stars, delicata e suadente ha fatto da preludio a Exit Strategy To Myself, un’ apocrifo della Sheffield fine settanta: tastierina acida, ritornello ossessivo e claustrofobico e chitarra tagliente, Kong ha mantenuto lo stesso registro alzando il tiro con l’organo a inseguire i coretti irridenti e la ritmica sostenuta. A seguire Pick Up The Phone, la perfetta pop song che smuove anche le montagne. A farla da padrone nel set, come visto all’inizio, sono state le canzoni dell’ultimo lavoro, seguite numericamente da quelle del masterpiece Neon Golden. Marcus Archer, ha cantato e suonato chitarra e tastiere, alternando il trasporto controllato del crooner al ballo sincopato stile  Ian Dury sotto anfetamina”, curvandosi ogni tanto sulle tastiere, scratchando con un giradischi e campionando la sua voce. Ad un certo punto addirittura ha reso Piazza Castello un rave party dirigendo il ritmo su coordinate techno, tutto questo in apparente contrasto con il flemmatico Cico Beck con il quale ha condiviso la parte frontale del palco. Nella dimensione live i Notwist hanno messo in risalto una attitudine più diretta (quasi punk), in cui le melodie delle canzoni si sono evolute in suoni al contempo aggressivi e coinvolgenti. A tratti è parso di rilevare l’attitudine melodica e grintosa dei gruppo della prima new wave americana. Tale torrida atmosfera ha coinvolto il numeroso pubblico composto da molti fan anche di vecchia data: è confortante sapere che queste proposte sonore hanno un riscontro di affluenza. Non di sola melodia e grinta è vissuto il concerto, vista la ricchezza strumentale, rara di questi tempi, che ha ulteriormente impreziosito le canzoni. Valga come esempio l’incedere di sax su batteria incalzante (fate un monumento ad Andreas Haberl) di Into The Ice Age, ai quali si è aggiunta nel finale la tuba suonata da Micha Archer o l’organetto che ha impreziosito e caratterizzato Into Another Tune. Interessante anche il ruolo spesso di primo piano del vibrafono del norvegese Karl Ivar Refseth, che ha dona peculiari accenni jazz ai brani. Che dire poi delle cadenze dub di This Room introdotte da un piano elettrico notturno? E della ritmica “disturbata” da toni sintetici che introduce Only with the Freaks? La conclusione di Gravity, con profluvio di percussioni e suoni assortiti di sottofondo sfociato nel sabba sonoro scatenato da un gruppo rodatissimo, ha ricordato le poliritmie e gli esperimenti dei primi Talking Heads diretti da Brian Eno. E qui il cerchio si è chiuso. Anzi no. C’è stato l’encore partito con la dolce Sans Soleil, per poi omaggiare il “neon dorato” con le melodie avvolgenti di Pilot e Consequence.

Cosa si vuole di più da un concerto ?

© Daniele Paolitti per instArt

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