Il quartetto d’archi, la regina delle formazioni cameristiche, ha trovato la scorsa sera al Palamostre in una serata organizzata congiuntamente dall’Ente Regionale Teatrale del FVG e dagli Amici della Musica, la sua più alta celebrazione con il concerto che ha visto protagonista il Quartetto Prazák (Jana Vonàškova e Vladimir Holek violini, Josef Kluson viola e Michail Kanka al violoncello) con un programma che nella seconda parte ha visto la partecipazione del celebre pianista francese Philippe Entremont.

Il concerto si apre, dopo i saluti del direttore dell’ERT Renato Giuseppe Manzoni e della presidentessa degli Amici della Musica Luisa Sello, con il Quartetto op. 77 n. 2 in fa maggiore di Franz Joseph Haydn, il “padre” di questo genere strumentale e del classicismo viennese.

In questa splendida composizione, giustamente considerata una delle più importanti di Haydn, fin dalle battute iniziali dell’Allegro moderato che ne rappresenta l’apertura, il Quartetto Prazák crea una specie di incantamento fra il pubblico. Incantamento fatto di un colore strumentale di grana raffinatissima, di attacchi e sfumature calibrati al millimetro, di un’intesa che permette ad ogni componente di sapere cosa fanno gli altri per riprendere, o proseguire, con la medesima intenzione espressiva. Insomma, il lavoro d’insieme di oltre quarant’anni – questo quartetto è attivo dal 1972 – si sente tutto. Verrebbe da dire, chiudendo gli occhi, che si tratti di un unico strumento formato da sedici corde e suonato da un solo strumentista, tanto profonda è nei componenti il quartetto, la condivisione dello stesso pensiero musicale. Il loro fraseggio delinea una esecuzione che assomiglia a quei quadri che visti da vicino rivelano quantità insospettabili di particolari. Qui, Haydn, nella sua apparente semplicità, viene reso con una leggerezza ed una luminosità inconsuete che lo fanno rassomigliare ad un quadro di Watteau. Un’esecuzione di grandissimo livello che lo scarso pubblico presente – purtroppo i concerti di questo tipo scontano il generale analfabetismo musicale degli italiani – apprezza moltissimo.

Il primo tempo di questo entusiasmante concerto è chiuso dal bellissimo Quartettensatz in fa maggiore B 120 di Antonín Dvorák, una breve composizione in un solo movimento, dove i Prazák sono maestri nello scolpirne la complessa struttura interna così impregnata di umori popolari. Anche qui una straordinaria prova interpretativa che lascia interdetti per la sua bellezza e illumina la felice scrittura di Dvorák. Caldissimi applausi salutano la fine del primo tempo della serata.

La seconda parte del concerto vede affiancarsi al Quartetto Prazák l’ottantacinquenne pianista Philippe Entremont per eseguire un brano di raro ascolto come il Quintetto in fa minore per pianoforte e quartetto d’archi di Cesar Frank.

L’inserimento di Entremont nella formazione non passa inosservato perché, con la sua irruenza magniloquente, spariglia quell’equilibrio che fino a quel momento i Prazák avevano dimostrato. Intendiamoci, si tratta di una esecuzione di altissimo livello, ma che sconta quasi una sorta di contrapposizione fra il pianoforte e il quartetto. Rapporto dialettico, certo, ma l’unicità del pensiero musicale di cui parlavamo a proposito di Haydn non c’è più. Resta la bellezza di un suono che entrambi, il quartetto ed il pianista, hanno e la musicalità prorompente di Entremont che si contrappone a quella più meditata degli archi. Il risultato di questa contrapposizione dialettica è un’esecuzione contraddistinta da una tensione fra le parti che affascina il pubblico udinese che alla fine tributa ai musicisti caldi, calorosi e prolungati applausi, non ricompensati, però, dal rituale bis.

Sergio Zolli  © instArt

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