In questi ultimi tempi sono stati prodotti numerosi film di argomento storico, più o meno filologicamente corretti, ma “Il primo re” del regista Matteo Rovere è senz’altro originale per vari motivi. Prima di tutto il soggetto si riferisce per la prima volta o quasi alla fondazione di Roma (VIII secolo a. C.) con la mitica vicenda dei due fratelli Romolo e Remo, che tutti noi conosciamo fin dalle scuole elementari. Poi la lingua usata è il latino, anzi una sorta di protolatino. Infine un’età, in cui le azioni degli uomini erano condizionate dalle leggi divine immutabili, è finalmente rappresentata in modo fedele, senza riferimenti palesi ai giorni nostri. Il mito della fondazione di Roma è raccontato come una storia vera, quindi niente lupa che allatta i due fratelli e nessuna vendetta nei confronti di Amulio che uccise la loro madre Rea Silvia, lontana discendente di Enea. Romolo e Remo sono semplicemente due fratelli pastori che, travolti e dispersi da una piena del Tevere, sono catturati insieme alla loro gente dai soldati di Alba Longa, un villaggio al di là del fiume. Riescono a ribellarsi e vagano per i boschi del Lazio arcaico alla ricerca di una nuova sede, portandosi dietro una sola donna, una vestale che custodisce il fuoco sacro. Al momento di fondare una città, i due fratelli si scontrano all’ultimo sangue come vaticinato dalla vestale e prevale, come tutti sanno, Romolo che diventa il primo re di Roma. Non era facile raccontare questa storia così intrisa di leggende e verità tramandate dagli storici romani, ma il regista con l’aiuto di sceneggiatori esperti come Filippo Gravina e Francesca Manieri, è riuscito nella difficile impresa distaccandosi finalmente dalle banalità dei film “peplum”, anni 50/60. Dunque, una pellicola da vedere assolutamente perché si rivela come un “unicum” nel panorama piuttosto stantio del cinema italiano. Ma proprio perché “prototipo” non è privo di difetti. Per esempio, la lingua parlata nell’antico Lazio è un impasto semantico inventato dai consulenti del regista. Infatti si parla pochissimo, prevalgono soffi e grugniti in uomini seminudi sporchi e cattivi armati di armi preistoriche, di statura molto alta mentre gli antichi romani non superavano la media di un metro e cinquanta . Si evita di raccontare il “pomerium”, cioè il solco tracciato per delimitare il confine inviolabile delle città, come si vede anche in un bassorilievo custodito nel museo di Aquileia. Fermiamoci qui, forse non è il caso di essere troppo pignoli: Remo (Alessandro Borghi) e Romolo (Alessio Lapice) sono bravi quanto basta, gli altri interpreti hanno le facce giuste. La fotografia di Daniele Ciprì è suggestiva e misteriosa. La scenografia altrettanto. Insomma un film d’autore e una boccata di aria fresca, finalmente.

© Marcello Terranova per instArt

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