Franco Fabris: piano Fender Rhodes, Synth. Gianni Iardino: sax alto e soprano, flauto traverso, synth. Piero Liut: basso elettrico, fretless. Maurizio Fabris: percussioni, batteria, Kalimba, cetra.
Scrive Okakura Kakuzō, nel suo celeberrimo “Lo zen e la cerimonia del tè”: «Il tè è un’opera d’arte, e solo la mano di un maestro può renderne manifeste le qualità più nobili. Ci sono tè buoni e cattivi, così come ci sono dipinti belli e brutti… Ogni preparato di foglie ha la sua individualità, una particolare affinità con l’acqua e il calore, un patrimonio ereditario di ricordi da rievocare, un modo personale di narrare. In esso la vera bellezza deve essere sempre presente».
Si sa che la vera bellezza per lo zen è nelle cose semplici, piccole e quotidiane che racchiudono le autentiche gemme luminose dell’esistenza. Fin dalla copertina, il nuovo Cd dei GreenTea inFusion fa parte di quella schiera, per un ascolto che libera l’immaginazione e regala attimi di una delicata felicità. Il disegno di una tazza di tè in un verde acquerellato, che presenta la confezione, è di Stella, l’incantevole nipotina di cinque anni di Franco, tastierista della band. Una cosa apparentemente minima ma che, in realtà, contiene di per sé tutta la bellezza del mondo nella sua purezza e semplicità.
Certo non si può giudicare un disco solamente dalla copertina ma quando questa ultima è parte integrante di un’opera artistica stratificata, multiforme e, in questo senso, collettiva e condivisa, non è proprio possibile considerarla solamente packaging.
La dimensione amichevole, confidenziale, friendly è quella che meglio si attaglia al gruppo; la loro musica va dritta al cuore ed è da lì che proviene. Sono melodie e ritmi sofisticati nati dalla passione che non disdegnano per nulla l’intrattenimento del pubblico. Il disco, registrato in presa diretta con takes sempre buone alla prima, dimostra l’assoluta vocazione dell’ensemble per la musica dal vivo. Le loro composizioni non sono mai concettuali, cervellotiche o autoreferenziali, sono sempre concepite per essere godute e condivise con il pubblico dei locali anche relativamente piccoli delle nostre città alla provincia dell’impero; i quattro cercano programmaticamente un contatto diretto con chi li vuole ascoltare, annullando ogni distanza, liturgia da palcoscenico e verticalità. La band è musicalmente divertente e viva senza mai apparire disimpegnata o superficiale.
I GreenTea inFusion negli ultimi mesi hanno avuto una frenetica attività live di promozione del loro nuovo lavoro in molti locali della regione ricevendo ovunque consensi ed apprezzamenti per la rigenerante vividezza della loro proposta musicale.
Tra “Le trentasei vedute del Monte Fuji” (1831), capolavoro immortale della storia dell’umanità del maestro giapponese Katsushika Hokusai (1760-1849) quella dell’onda di Kanagawa (La grande Onda) possiede una tonalità espressiva inaudita e unica.
Il brano “Waves”, immancabile nei live della band, è ispirato ad una visione del dipinto che inaspettatamente possiede anche una forza drammatica e una cinestesia misteriose e uniche. È un’immagine che comunica una grande energia e movimento ma anche, come dice Paolo Conte, «Un’aria di naufragio, un volo». Sulla tela il punto di fuga è occupato dal monte Fuji che appare in lontananza alla convergenza delle linee prospettiche, l’attenzione degli spettatori si concentra sulla straordinaria bellezza della grande onda che riempie gran parte dello spazio del dipinto senza quasi accorgersi delle due imbarcazioni con gli atterriti equipaggi in primo piano in completa balia della furia delle acque.
Il brano dei GreenTea inFusion ha una misteriosa energia molto simile. Alcune sonorità, come per esempio l’inciso di tastiera di Franco Fabris, sono tipicamente “french touch” e ricordano piacevolmente le sonorità degli Air di “Moon Safari”, distese e placide, fino a quando l’onda prende forza e monta in cavalloni assecondati dagli strumenti che si sovrappongono, fino a suscitare l’impressione di una forza che sta per abbattersi ma che ci lascia come sospesi un attimo prima dell’irreparabile. È una composizione di gradevolissimo ascolto che però sa nascondere sotto l’apparenza di una luce scintillante anche segreti inconfessabili.

Ottimo lo slapping del bassista Pietro Liut, talentuoso allievo del Maestro Giovanni Maier, che contribuisce nettamente al sound anni ‘80 del gruppo, sfruttando tutte le migliori intuizioni della fusion d’epoca fino ad alcune incursioni dal sapore tropicale con piacevoli intarsi al flauto traverso ed arabeschi alla tastiera dai suoni caldi di cristalleria, vetrosi e luminosi come quelli del Korg di Gianni Iardino dai suoni di corda percossa del Dulcimer martellato. Quest’ultimo, musicista che si divide tra sax e tastiere, compone molti brani, arrangiati poi da tutto il gruppo, e dimostra una particolare versatilità alle ance che gli permette di sfruttare a fondo soprattutto le caratteristiche più romantiche e sognanti dei suoi strumenti.
È sempre un gran piacere ascoltare un basso elettrico che “cammina” e parla come quello di Liut; in uno dei recenti concerti se n’era accorta anche una piccola bambina con un caschetto biondo che guardava incantata i musicisti, è stato bellissimo vedere riflessi nei suoi occhi la gioia e la felicità semplice e pura che i quattro musicisti sanno trasmettere.
Il gruppo rivela la propria anima gaudente in alcuni pezzi come “B.B. (Brigitte Bardot)” divertente e scanzonata, e “Viva Cuba” con tanto “Sudamerica” nel sangue e suoni caraibici allo zucchero di canna; il loro baricentro ritmico rimane centrato sul bassista che costruisce le sue spericolate e taglienti geometrie delle quali la fusion non può fare proprio a meno; attorno a lui gravitano le intuizioni degli altri che sanno inseguirsi e prendere spunto l’uno dall’altro senza sovrapporsi o risparmiarsi.
Il vero talento di una live band di ottime prospettive ma ancora di fama di provincia, si misura anche sulla capacità dei musicisti di adattarsi a suonare nei luoghi più bizzarri ed estemporanei. In un locale di Udine dagli spazi risicati, i musicisti si sono trovati sistemati con alle spalle la porta della toilette, cosicché ogni tanto venivano intersecati dalla traiettoria di qualche gentile signorina che doveva “incipriarsi il naso”.
Non è certo una novità per chi suona il jazz; chi visita il Quartiere Latino di Parigi può ancora oggi fermarsi per una “birretta” al Le Duc des Lombards, glorioso e storico locale, grande come un francobollo che ha visto e vede ancora esibirsi i mostri sacri della musica internazionale in un ambiente tutto sommato misero e scuro.
Poche cose sono più piacevoli che starsene in un bar tra amici con poco o nulla da fare, con la giornata di lavoro alle spalle nell’attesa di quella successiva, mentre qualcuno suona come sottofondo alle nostre chiacchiere. La musica profana nell’Occidente moderno nacque proprio nelle osterie; durante pranzi e banchetti i musici potevano dimenticarsi le liturgiche “laude e osanna” e concentrarsi sulle libagioni. Il vociare del locale, gli avventori che si muovono, discutono, brindano garantiscono una situazione di divertimento e di piacevolezza che potrà anche disturbare alcuni puristi della musica ma che è, al contrario, una vera delizia e restituisce il ricordo dei tempi in cui si suonava sempre e ovunque. Il Jazz non è nato di certo nelle sale da concerto e nemmeno negli auditorium, vive di gente che sa divertirsi come nelle Barrelhouse degli afroamericani dove tra un Bourbon, uno scotch e una birra tutto vide la luce.

La composizione dal titolo “Sei (6)” contiene un assolo frutto d’improvvisazioni di Franco Fabris che con le sue tastiere evoca paesaggi lunari, atmosferici esoterici e sospesi. Il continuo vociare degli avventori rende ancora più straniante un brano nato per essere a tratti malinconico e pensoso. Appare all’immaginazione come fosse la traduzione sonora di alcuni pensieri tristi di grana indefinibile come di qualcuno che vorrebbe essere da un’altra parte, senza sapere nemmeno dove, e l’effetto del sax soprano sa condurci a naufragare cullandoci dolcemente.
Si fanno ricordare piacevolmente molti altri brani venati di prog con il sax alto a fare da traino in riff intriganti e spesso confidenziali. A rendere setose le atmosfere dell’album ma anche dei loro concerti ci pensano soprattutto le tastiere, ma anche il delicato, prezioso percussionismo di Maurizio Fabris, sotto il segno di morbide emozioni che di colpo possono virare in un imprevedibile incedere deciso ed elegante.
Quello che è certo è che i quattro hanno trovato il giusto equilibrio tra l’energia creativa del loro talento e una meditativa giovialità e rilassatezza che li contraddistingue sia come persone, sia come artisti.
Quella del gruppo è una vena compositiva matura che viene da una passione e da un’esperienza, affinata nel corso degli anni, di una personale ricerca musicale che coinvolge e intreccia le vite di ognuno dei componenti dell’ensemble.
Quello che i quattro regalano è un ascolto piacevole e prezioso, lo spazio dei virtuosismi e degli eccessivi protagonismi è ridotto al minimo in favore di un’eleganza raffinata e dai tenui colori acquerellati, proprio come sulla copertina del cd o nei brani come “Tafraoute” ispirato ad un paesino della catena dell’Atlante in Marocco, le cui melodie evocano gli esotismi e i ritmi arabeggianti che i quattro traducono in musica senza però mai andare troppo sopra le righe con inutili barocchismi di maniera.
Cavallo di battaglia delle esibizioni dal vivo è “Let’s Dance” una piacevolissima, originale improvvisazione su temi propri che ricorda il capolavoro di Bowie solo nel titolo e che è una fusione tra vari generi che permette a Franco Fabris, con il suo Fender Rhodes, di scatenarsi e far danzare le dita ad un ritmo indiavolato.
I GreenTea inFusion sono dei veri e propri artigiani della musica che sanno trasmettere tutta la loro abilità nel cesellare il loro repertorio fatto di note ma soprattutto di grande passione e voglia di stare assieme condividendo il loro talento e la loro genuina voglia di divertirsi e di divertire.

Flaviano Bosco / instArt 2022 ©

Scaletta: The Level Way, Always the same, Waves, Bossa da República, Batukada, B.B (Brigitte Bardot), Viva Cuba, Thinking of the Past, QM (question mark), 6 (sei), Tafraoute, Millo Bossa, Blues lento, Shivers, Let’s dance.

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