
In un suo saggio pubblicato nel giugno 1955 dai “Cahiers du Cinema” e poi nel suo epocale “Che cos’è il cinema?” (1961) Andrè Bazin paragonava il Festival di Cannes ad una liturgia da ordine religioso; scriveva: “Per averli “fatti” pressochè tutti dal 1946, ho assistito alla progressiva messa a punto del fenomeno festival, all’organizzazione empirica del suo rituale, alle sue gerarchizzazioni necessarie. Oso comparare questa storia alla fondazione di un Ordine religioso e la partecipazione totale al festival all’accettazione provvisoria della vita monastica. In verità il palazzo che si erge su La Croisette è moderno monastero della cinematografia.”
Il suo non troppo bizzarro paragone continua accostando la vita del cinefilo a quella dei monaci che durante la giornata contemplano, pregano e meditano, così gli spettatori per la durata del festival officiano precisi rituali trascendentali completamente dediti al proprio officio sacro: venerare l’immagine cinematografica durante le tante funzioni.
Certo è un paragone esagerato e forse anche un po’ assurdo, ma Bazin voleva solo essere un po’ provocatorio e forse dissacrante anche se nella sua scrittura l’ironia è davvero impercettibile.
Chi scrive frequenta con una certa assiduità le Giornate del Cinema Muto dal 1987. Prima come semplice curioso spettatore, poi come appassionato e ora anche come giornalista, ho seguito l’evolversi della manifestazione, da ritrovo per un ristretto manipolo di cinefili sfegatati a evento mondano che monopolizza l’attenzione dei media per settimane con un grosso giro d’affari, ricadute per l’indotto della città di Pordenone e, come è sempre stato, un’importanza culturale incalcolabile.
Quello che non è mai cambiata nel corso degli anni è una meravigliosa atmosfera che si respira durante il festival e che ha davvero qualcosa di religioso. Trovarsi in platea al teatro Verdi di Pordenone durante le proiezioni delle Giornate del Muto è una vera e propria esperienza mistica. L’atmosfera vibra della luce dei proiettori nel brusio a bassa voce degli spettatori in un rispetto assoluto per le opere che si stanno per vedere. Per gli appassionati l’esperienza cinematografica nelle sale commerciali è diventata una sorta di incubo tra popcorn, mostaccioli, caramelle, telefonini, bibitoni gassati in luoghi che sembrano squallidi parcheggi di un aeroporto.
Il Teatro Verdi di Pordenone durante le Giornate sembra un tempio sacro all’arte dove chi partecipa non ha come primo obiettivo il mero divertimento che comunque non manca mai, ma la partecipazione ad una sorta di rito collettivo nel quale la libertà e il piacere dell’altro iniziano dove finiscono i miei. Libertà di vedere, ascoltare, ridere ed emozionarsi prestando la giusta attenzione a quello che passa sullo schermo, riflettendo sulle immagini, sui suoni e sui significati in un’esperienza unica e irripetibile di gioia e condivisione.
Le Giornate del Cinema Muto non hanno un tema preciso ma sono il contenitore per pregevoli retrospettive e approfondimenti. In questa edizione, ancora una volta, si sono potute vedere insolite e rare pellicole dai Chaplin Archives di ogni parte del mondo, questa volta inserite nella pluriennale ricerca del Festival sulle Origini dello Slapstick che ha messo in luce le influenze dell’opera di Chaplin sull’arte contemporanea e i suoi tanti imitatori.




The Bond di Charles Chaplin (Us 1918) eccezionale film di propaganda che vede Charlot alle prese con i prestiti di guerra. Giocando con la parola Bond, che in inglese vuol dire “Legame”, si mettono in scena piccoli sketch e siparietti ironici che hanno lo scopo di attirare l’attenzione del pubblico e convincerlo a comprare i buoni del prestito di guerra.
Il primo legame è di certo quello dell’amicizia. Due s’incontrano vicino ad un lampione all’incrocio di una strada di città, il luogo è evocato da una scenografia minima espressionista. L’uno chiede all’altro un prestito convincendolo che è una questione di vita o di morte, in realtà vuole solo berseli a garganella.
Naturalmente anche il legame dell’amore ha il suo posto in questa breve serie di allegorie, pensiamo a quante divertenti sciocchezze può combinare un barbiere innamorato cui Cupido ha trafitto il cuore. Tra le tante sequenze emozionanti da ricordare sicuramente quella in cui Charlot appende il suo cappello e il bastone alla falce della luna.
Il matrimonio è il più profondo e indistruttibile dei legami e anche il più costoso; una giovane coppia sta per sposarsi ma deve affrontare un sacco di spese che finiscono per rovinare l’idillio.
I bond della libertà sono decisamente i più importanti. La libertà in persona, minacciata dal Kaiser tedesco viene soccorsa da Charlot. Il clochard, simbolo del popolo, dona un piccolo gruzzolo allo zio Sam che lo consegna ad un nerboruto operaio che rappresenta l’industria degli armamenti e che produce soldati pronti a difendere la patria.
E’ singolare vedere Chaplin fare propaganda alla Grande Guerra quando solitamente lo ricordiamo per il suo accorato appello alla pace nel finale del Grande Dittatore: “Tutti noi esseri umani dovremmo unirci, aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifca ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell’odio…” Quello però era forse tutto un altro contesto.
His day out di Arvid E. Gillstorm (Us 1918) Nel mondo dello spettacolo avere degli imitatori è sempre sinonimo di successo e di grande notorietà. Charlie Chaplin ha ancora oggi un’influenza determinante sul nostro immaginario tanto che legioni di artisti gli sono debitori. Naturalmente non si contano i suoi sosia nemmeno all’inizio della sua carriera quando il personaggio di Charlot cominciava ad essere noto in tutto il mondo. Tra i migliori allora ad interpretare la sua maschera vi fu di certo Billy West, il cui vagabondo (Escaped Loony) era in tutto e per tutto identico a Charlot, dai baffetti alle scarpe sfondate, dal bastone di canna alla bombetta, tranne che per il carattere decisamente meno dolce e più aggressivo. In questo film in particolare interpreta un malato psichiatrico che, scappato dal suo istituto, ha una serie di peripezie talmente assurde che alla fine decide di ritornare in manicomio per trovare un po’ di serenità. Davvero esilaranti le scene in cui si finge barbiere per far colpo sulla sua bella; molto interessante un personaggio effemminato che si ritrova una strana acconciatura con tanti nastrini. Molte gag sono prese di peso (rubate) da precedenti lavori di Chaplin, altre invece addirittura ne anticipano le future, segno evidente che a volte l’originale prendeva spunto dalla copia, in un paradossale corto circuito che è una precisa caratteristica della nostra condizione di post-moderni.
A little bit of Fluff di Jeff Robbins e Wheeler Dryden (GB 1928, 83′) Anche nella stessa famiglia Chaplin si approfittava del successo di Charles per la gloria del grande schermo e lo si faceva con un certo talento. Lo dimostra questo divertente film nel quale il fratello Syd interpreta un giovane marito pasticcione, che assomiglia a Peppino De Filippo, alle prese con le donnine di un locale da ballo, una madre castrante e una mogliettina adorante e tenera. Dopo la classica notte brava deve giustificare la scappatella in un vortice di doppi sensi, contraddizioni e scene irresistibili. Il film è un pretesto per far vedere le coreografie del locale con le donnine scosciate, tra inseguimenti, finte scazzottate e scene da camerino con le ballerine poco vestite, lustrini e paillettes. In una irresistibile sequenza, l’ingenuo Syd si trova al tavolo a fianco di una donna nana che lui crede una bambina, perciò le fa giochetti adatti all’età che presume avere. Davvero incantevole la danza delle forchette e dei panini rubata e riadattata dal film del fratello “La febbre dell’Oro”.
4 film di Louis Feuiellade “La vie telle qu’elle est”
Naturalmente si trattava di una mera velleità, però l’intento era lodevole, il patriarca del cinema francese si intestardiva in questa serie di rulli a raccontare e a mostrare la vita così com’è. Noi che siamo i suoi posteri post-moderni sappiamo benissimo che nel cinema tutto è finzione, rappresentazione, tutto è burla, tranne l’emozione degli spettatori. Se la realtà fisica, materiale non fa che respingerci, restando sempre in fondo inattingibile; quella che creiamo attravero la macchina da presa è alla nostra portata, ha il senso che vogliamo dargli, è un sogno che dura da più di 150 anni e dal quale non vogliamo assolutamente svegliarci. Ai tempi di Feuiellade comunque si poteva ancora ragionevolmente desiderare che la macchina da presa riuscisse a cogliere almeno qualche frammento d’esistenza. Era ancora possibile credere nell’immagine, oggi non è possibile nemmeno pensare il contrario con la cosiddetta intelligenza artificiale e le immagini generative.
Le Nain (FR 1912)
Per la nostra sensibilità odierna è un cortometraggio del tutto non-politically correct nel quale si dileggia una persona affetta da nanismo prima sfruttato per la sua creatività e intelligenza. Una stupenda attrice di teatro deve la sua recente fama all’interpretazione di un dramma d’autore che mantiene l’assoluto anonimato. Lui è un nano che vive con la madre; l’ammira da lontano e ne è innamorato. Un giorno si decide a scrivere un messaggio e ad avviare con lei una segretissima relazione telefonica. Per l’epoca doveva sembrare qualcosa di assurdo e inumano ma molto “moderno” così come per noi risultano incomprensibili e prive d’autenticità certe relazioni via social. Ma a lei non basta una voce all’apparecchio che incanta anche le centraliniste in una sequenza che allora di sicuro era davvero inaudita e degenerata. L’attrice scopre l’indirizzo del suo amato telefonico e lo va a trovare. Quando scopre la sua deformità lo deride e si prende gioco di lui pesantemente. Come in una delle famigerate app d’incontri dei nostri giorni nelle quali quasi mai le foto dei profili corrispondono alle persone reali per i miracoli di photoshop.
Les vipères (FR 1911) In un piccolo paese di campagna la moglie del guardiacaccia è molto malata, ad aiutarla c’è solo una povera vedova. Le malelingue del paese però non tardano a sparlare sulla strana convivenza e rendono la vita impossibile alla disgraziata famiglia. La vicenda mette in luce tutte le piccole e grandi umiliazioni che la maldicenza è capace di infliggere. Le immagini raccontano di una condizione di miseria e diffamazione in un’atmosfera cupa e scura. Naturalmente vi è anche un modo di rappresentare la vita di campagna stereotipata e ingenerosa che avrà molto seguito nella storia del cinema a seguire. La pellicola è decisamente triste e senza speranza, proprio come sono certe situazioni nella vita reale. Infine, la vedova senza alcun sostentamento e senza nulla pretendere, nottetempo se ne va.
Le coeur et l’argent (FR 1912) La figlia di una semplice locandiera viene data in sposa ad un ricco e volgare possidente terriero. Lei in realtà è da sempre innamorata di un povero pescatore che la corrisponde e che ha cercato di opporsi inutilmente al matrimonio. Da moglie infelice lei si trasforma presto in ricca vedova grazie ad un provvido incidente ferroviario. Anche se il testamento del suo perfido marito lega l’eredità alla condizione che non contragga mai più matrimonio, lei cerca subito di tornare dall’amato pescatore che però la rifiuta bruciato dalla gelosia verso il suo defunto marito. Lei sconvolta si annega nel fiume in una sequenza che ricorda il dipinto preraffaellita Ofelia di John Everett Millais (1851-1852). Dalla pellicola traspare un’idea della donna ancora tardoromantica e ottocentesca. Sembra però anche di riconoscere la necessità di un cambiamento nella considerazione della condizione femminile, se non altro perchè le figure maschili in questa pellicola sono davvero miserabili. Non sono solo la cupidigia e il denaro a rovinare i sentimenti, ma anche la stupidità di chi non vuole credere nella possibilità di un cambiamento.
L’Erreur Tragique (FR 1912) Ottima pionieristica riflessione metacinematografica. L’ambientazione è sfarzosa, mette in scena la bella vita dei nobili di campagna tra arte, ricchezze ostentate e begli abiti. Il conte se ne va di tanto in tanto in città e per sollazzarsi, com’era la moda del tempo, se ne va al cinema. In una sequenza di “Onesime Vagabond” crede di vedere la propria moglie con l’amante. Bruciando dalla gelosia vuole vendicarsi uccidendola. Tornato in campagna sabota la carrozza della moglie in modo che si schianti. Quasi riesce nel suo intento ma lei ferita e in stato di semincoscenza viene salvata da alcuni contadini. Il conte scopre fortunosamente che l’uomo della pellicola accanto a sua moglie è semplicemente il fratello. Nel finale strappalacrime il marito, nonostante il tentato omicidio, si riconcilia con la moglie. L’errore tragico visto con gli occhi di oggi è la mancanza di fiducia nei confronti della moglie e la “leggerezza” e la crudeltà con la quale decide di sbarazzarsene.
Retrospettiva Cinema Ucraino per ragazzi
Di straordinario interesse è stata la breve rassegna che racconta dei Gamins (ragazzi di strada) dei primi anni dell’Unione Sovietica. Come si dice nell’approfondimento del Catalogo della Mostra a cura di Ivan Kozlenko, nei primi anni ’20, si potevano contare almeno due milioni e mezzo di minorenni per le strade della grande Unione Sovietica che rappresentavano un vero problema di sicurezza pubblica e una minaccia per il futuro della federazione. La soluzione da una parte fu la creazione del corpo giovanile dei “Pionieri che appaiono come l’incarnazione di un nuovo ordine sociale e i portatori di una nuova etica”; dall’altra “Il cinema doveva assolvere una funzione fondamentale promuovendone la socializzazione e l’indottrinamento nell’ideologia comunista e proponendo ai ragazzi nuovi modelli di ruolo”.
Tutta l’arte socialista ha significato morale e pedagogico, la sua funzione primaria è quella di educare e solo in modo residuale celebrare la gloria della grande Rivoluzione o del Partito. Il cinema per l’infanzia e per i ragazzi ha caratteristiche proprie delle quali fa parte programmaticamente anche una certa dose di intrattenimento e spensieratezza ludica che, in questo caso, non interferisce mai con i valori e i significati dell’opera.
Sam Sobi Robinzon (Robinson per conto suo) di Lazar Frenkel (UKRSSR 1929)
Per insegnare ai piccoli ucraini il valore della fratellanza e della solidarietà il racconto comincia da un ragazzino un po’ diverso dagli altri completamente immerso nella lettura di Robinson Crusoe di Daniel Defoe. Fa parte di una famiglia che appare piccolo borghese sempre immersa nella lettura e con la testa tra le nuvole. E’ un modo bonario di indicare quali sono i veri nemici dello stato socialista, coloro che si isolano e partecipano solo svogliatamente alla vita comunitaria. Il piccolo Robinson non affronta mai la realtà della vita, non interagisce con i propri compagni e sembra non essere mai felice. Sono stupende le sequenze della vita di strada, miserabile e sporca, girate praticamente dal vero senza ricostruzioni scenografiche. La svolta narrativa è nel viaggio d’istruzione che la sua classe di bambini fa con il maestro poco lontano dalla città nella tundra alle volte di un magnifico fiume luccicante.
Naturalmente il nostro Robinson non partecipa però si tiene nascosto e segue il gruppo da lontano vivendo le loro stesse avventure, però in solitaria e con il doppio di fatica e difficoltà. Alla fine dopo aver sofferto le pene dell’inferno, simboleggiate da un tremendo temporale, il piccolo si convince a condividere le forze con il gruppo e i suoi compagni lo accolgono con gioia.
Straordinarie le immagini del film che rispondono alle caratteristiche delle avanguardie
Pryhody Poltynnyka (Le avventure di una moneta da mezzo rublo) di Axel Lundin (UKRSSR, 1929, 83′)
Alcuni bambini poveri scatenati giocano felici nella neve, a dividerli da un percorso di pattinaggio, dove si allenano ed esibiscono ricchi borghesi, c’è solo una staccionata. Vi si arrampicano per vedere meglio la velocissima gara di pattinaggio ritmata anche dalla banda paesana. I borghesi vogliono cacciare i piccoli intrusi ed arrivano fino a malmenarli. Inizia una furibonda battaglia di palle di neve che ricorda quella celeberrima del Napoleon vu par Abel Gance. La pellicola del resto si avvale di molti accorgimenti tecnico-cinematografi delle avanguardie (soggettive, montaggio analogico, split screen, ecc.). Il protagonista del film è uno dei ragazzini scatenati e, nella colluttazione, perde uno dei suoi preziosi stivali. Rientra in casa e viene pesantemente redarguito dalla mamma alle prese con le pulizie di casa. Il padre, più tollerante e bonario, gli regala una moneta da mezzo rublo che a lui sembra il tesoro dei pirati. Inizia proprio da qui la rocambolesca avventura di una moneta da sogno.
Le particolari riprese in esterna, l’energico montaggio, i luminosi volti dei bambini, la bellezza della natura alla periferia di Kyiv oggi tragicamente alla ribalta della cronaca, le battaglie tra bande di ragazzini rendono la visione divertente, ritmata e dinamica.
(Continua)
Flaviano Bosco / instArt 2025