Giovanni Nistri, Ho servito lo Stato (Neri Pozza – I Colibrì)

Tra disciplina e senso del limite, il generale che ha guidato l’Arma dei Carabinieri e restituito vita a Pompei racconta il comando come forma di pensiero e la cultura come bussola morale. (Recensione di Marina Tuni)

In tempi in cui la parola Stato sembra appartenere più al linguaggio dell’amministrazione che a quello della coscienza, “Ho servito lo Stato” Una vita nell’Arma di Giovanni Nistri (Neri Pozza) restituisce a quel termine il suo significato originario: una visione della comunità come patto morale, dove l’obbedienza si fa discernimento e l’autorità diventa servizio.

Più che un’autobiografia, è una meditazione sulla responsabilità e sul tempo, su ciò che resta quando l’esercizio del comando si spoglia del suo ruolo.

Non il racconto di un uomo di potere, ma il cammino interiore di chi ha attraversato la storia recente dell’Italia con discrezione, rigore e una profonda consapevolezza dei limiti.

Già alla guida del Comando Tutela Patrimonio Culturale, poi del Grande Progetto Pompei e infine Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, anche durante i giorni bui della pandemia, Nistri racconta la propria esperienza come un lungo apprendistato alla responsabilità.

Sin dalle prime pagine emerge la sua visione: comandare significa misurarsi con l’equilibrio fragile tra la norma e la coscienza.

Nistri non separa mai il pensiero dall’azione, la biografia dal contesto civile: scrive come comanda, e comanda come pensa, con equilibrio e senza mai cedere al linguaggio dell’autocelebrazione.

Così la sua prosa assume un ritmo inusuale per un’autobiografia militare: tersa, disciplinata, ma attraversata da una vibrazione intima, un senso di comprensione profonda che accompagna ogni ricordo.

Pompei, nella sua esperienza, non è soltanto un capitolo amministrativo o un risultato di gestione: è un simbolo, una metafora del tempo e della responsabilità.

Non un luogo da restaurare, ma un dialogo con la fragilità e la durata, con l’idea stessa di ciò che sopravvive.

Nistri racconta il lavoro al Grande Progetto Pompei con la consapevolezza della finitudine che accompagna ogni impresa umana: tra le rovine riconosce il volto del tempo, la misura della sua durata. Pompei, in questa visione, non è un restauro ma un esercizio di consapevolezza: il tentativo di dare continuità all’effimero, senso al transitorio. È il simbolo di un’Italia che sa rinascere, come la città sepolta, dalle proprie ceneri e dal proprio silenzio.

È il punto in cui l’esperienza del militare si fonde con quella dell’uomo di cultura: la disciplina dell’uno si intreccia con la sensibilità dell’altro.

Accanto alle vicende istituzionali, affiora il volto umano dell’uomo che scrive, il marito, il padre, il nonno, che dedica idealmente queste pagine alla nipotina Emma, perché un giorno sappia chi era suo nonno, nelle parole che lui stesso ha voluto lasciarle.

Nel libro convivono il pensiero e il quotidiano, il privato e il pubblico, in un dialogo costante che restituisce alla vita militare la sua dimensione morale e non retorica.

Ci sono episodi di comando e di crisi, ma anche piccoli frammenti domestici: gli scatoloni accatastati nei tanti alloggi, la nostalgia dei luoghi, la fatica dei ritorni.

Il tono non cambia: anche nelle pagine più intime, Nistri conserva quella sua serenità austera, la disciplina dello sguardo che diventa forma di rispetto per il lettore.

Uno dei capitoli più spiazzanti per finezza e ironia, “Tra favole e verità”, si apre con la celebre favola di Fedro del lupo e dell’agnello.

Un incipit che basta a dichiarare il metodo: leggere il potere attraverso l’allegoria, come facevano gli antichi moralisti.

Le favole — osserva il Generale — sono da sempre un modo per smascherare i costumi umani, e anche nel mondo “carabinieresco” non mancano dinamiche che meriterebbero una morale.

Così, con sottile arguzia, racconta due brevi apologhi che ritraggono l’assurdo burocratico e l’eterna dialettica tra chi comanda e chi obbedisce, piccole parabole di una leggerezza calviniana, mai corrosiva, che disvelano i paradossi del potere e quanto esso, se privo di autoironia, rischi di perdere contatto con la realtà.

Ma dietro il sorriso affiora la riflessione più amara: che la storia è un teatro dove cambiano gli attori, non la scena. Le gerarchie, come i miti, sopravvivono a chi le interpreta.

Non si tratta di disillusione, ma di lucidità storica, che si condensa in una frase emblematica: «Cambiano i Baroni, forse, ma le Baronie rimangono».

Parole che preludono alla citazione orwelliana con cui si chiude il capitolo, lo sguardo disincantato di chi sa che il potere, mutando volto, tende sempre a riprodurre sé stesso. E proprio qui Nistri chiude il cerchio affidandosi a George Orwell.

Riprende la conclusione della “Fattoria degli Animali”, il momento in cui uomini e maiali diventano indistinguibili: «Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale […] ma già era loro impossibile distinguere fra i due».

Così, tra il sorriso e la riflessione, Nistri ricorda che la vera difesa contro l’arbitrio non è la rigidità delle norme, ma la capacità di riconoscersi sempre nel limite umano che accomuna chi comanda e chi obbedisce.

Come in Fedro o in Orwell, la sua scrittura è un esercizio di disincanto che disarma il potere, svelandone la trama umana e le sue contraddizioni.

Il tono cambia in “Traslochi e dintorni”, dove il generale racconta i quattordici traslochi che hanno scandito la sua vita: un tema apparentemente domestico, ma attraversato da una sottile universalità.

Tra le pieghe del racconto, affiora la consapevolezza che ogni trasloco è anche una prova di resistenza, una forma di adattamento che misura la tenuta di un nucleo familiare. In quelle pagine il tono si fa affettuoso e narrativo: non più il comandante, ma l’uomo che ringrazia la moglie e i figli per aver condiviso l’instabilità del dovere, trasformandola in quotidiana normalità.

La vita, sembra dire Nistri, è un continuo riallestimento degli spazi e dei ruoli; l’importante è non smarrire il senso di casa che si porta dentro.

Questo intreccio tra il pubblico e il privato, tra la Storia e la vita minuta, è forse il segreto della forza del libro.

L’autore non divide i piani, ma li tiene insieme in una tensione armonica.

Il militare e l’intellettuale, l’uomo di comando e il lettore di poesia, il custode delle regole e l’interprete della loro umanità convivono senza contraddizione.

Ne nasce un’opera che è al tempo stesso testimonianza e riflessione, diario e saggio, bilancio e confessione.

La letteratura, la musica e l’arte non sono per Nistri un lusso dello spirito, ma una riserva di senso, da cui attingere nei momenti in cui il dovere chiede anche di comprendere. Sono la materia viva che lo accompagna e lo forma, la grammatica interiore di un uomo che ha cercato nella cultura il senso del potere e la sua trasfigurazione in consapevolezza critica.

È in questa tensione tra disciplina e pensiero, tra norma e umanità, che il libro trova la sua verità più profonda.

Sono molti i capitoli che meriterebbero di essere citati — “Uomini e donne, carabinieri”, “Coloro che sono andati avanti”, “Momenti di crisi”, “Polvere di stelle” — ma Nistri stesso, con il suo consueto tono ironico, si rivolge al suo “mono-lettore”. Meglio allora lasciare a quell’ipotetico e unico lettore reale la curiosità di scoprirli da sé.…

“Ho servito lo Stato”, nel panorama delle autobiografie pubbliche, spesso piegate all’enfasi o all’autoassoluzione, rivela una limpidezza interiore che disarma ogni retorica. È il racconto di un uomo che appartiene alla stirpe dei grandi umanisti civili, per i quali il dovere è una forma di conoscenza e la conoscenza un atto di cura.

Sottotraccia, si avverte anche un tono di bilancio e di congedo.

Ma è un congedo senza rimpianti, animato da una pacata consapevolezza: quella di aver servito, non da solo, ma insieme a una comunità di uomini e di valori.

In più passaggi, Nistri torna a quel “noi” che dà senso al comando, ricordando che ogni vertice è frutto di un cammino condiviso.

Sic et simpliciter: un’etica che non si proclama, ma si pratica.

Come scriveva Antoine de Saint-Exupéry in “Terre des Hommes” (Terra degli uomini, 1939): «essere uomo significa appunto essere responsabile. Significa provare vergogna in presenza d’una miseria che pur non sembra dipendere da noi. Esser fieri d’una vittoria conseguita dai compagni. Sentire che, posando la propria pietra, si contribuisce a costruire il mondo».

Giovanni Nistri sembra aver vissuto così: ponendo la sua pietra con discrezione, nel silenzio operoso di chi crede che servire significhi, prima di tutto, costruire.

Tutti i proventi spettanti all’autore saranno devoluti all’Opera Nazionale di Assistenza per gli Orfani dei Militari dell’Arma dei Carabinieri www.onaomac.it  con un contributo destinato anche a “Fuori dal nido”, Associazione di Volontariato pro disabili di Urbino www.fuoridalnido.it .