Dopo aver visto il film polacco “Cold War” (Guerra Fredda), non ce ne voglia nessuno, Fantozzi avrebbe sicuramente esclamato: “E’ una boiata pazzesca!” .

Gli ingredienti ci sono tutti: Varsavia 1949 sotto il tallone del regime comunista, una triste storia d’amore tra un pianista (Viktor) e una giovane cantante (Zula), che si rincorrono al di là e al di qua della cortina di ferro, un finale funereo. Mentre però la battuta di Fantozzi aveva un senso a causa dell’imposizione di certi film nei cineforum della sua città, la visione di “Cold War” non ce la ordina nessuno.

Meglio parlarne con calma e senza pregiudizi.

Appena prende forma la prima inquadratura sullo schermo, si manifesta una novità a dir poco singolare: la proiezione è in 4/3 come nei cinegiornali anni ‘60/’70 quando si girava in 16mm con il formato accademico di 1:1:33. Non solo, l’immagine è in bianco nero. Per coloro che hanno sempre visto film in widescreen con colori squillanti, è un pugno allo stomaco. Con questo espediente stilistico, però, il regista sessantenne Pawel Pawlikowski ricrea l’atmosfera incolore di certe città dell’Est durante gli anni della Guerra Fredda e i protagonisti sono come prigionieri in una sequenza di inquadrature fisse dalla cornice quasi quadrata come un dipinto. Il bianco nero molto corposo del direttore della fotografia Lukasz Zal e un dialogo scarno e diretto contribuiscono a rendere alla fine poco romantica la tormentata vicenda amorosa dei protagonisti.

Viktor, di estrazione borghese e amante del jazz proibito in patria, è inquieto nella Varsavia staliniana così come si sente fuori posto nella Parigi bohemienne degli anni 50. Ritornato in Polonia perché incaricato dal partito di riscoprire i canti popolari e mettere in piedi un complesso folcloristico, è folgorato dalla bellezza slava e dagli occhi intelligenti dell’allieva Zula, una proletaria schietta ed esuberante. 

Da questo momento il film viaggia sul crinale della metafora: Zula si identifica con la Polonia del dopoguerra, aggrappata alle proprie radici, ma ansiosa di sopravvivere alle cure sovietiche. Viktor, tormentato nella vita e nell’amore, è alla ricerca di una memoria perduta e della sua amante-patria incarnata in Zula. Un film d’autore, dunque, raffinato nella forma e soffuso di un afflato nostalgico perchè il regista si ispira alla vera storia dei suoi genitori, tra canti popolari e rock ‘n roll, in un continuo rincorrersi tra Est e Ovest sotto la cappa plumbea della Guerra Fredda.

Tuttavia la battuta fantozziana ha qualche ragione d’essere: le dissolvenze in nero tra un episodio e l’altro, l’eccessiva lunghezza delle geometriche inquadrature dei cori e dei balli folcloristici rallentano a dismisura il ritmo della pellicola, tanto che gli 85 minuti del film sembrano eterni.

Pawel Pawlikowski non è un parvenu, ma proviene da un passato documentaristico di valore e da lungometraggi come “Ida” con il quale ha vinto un oscar qualche anno fa.

I critici di mestiere lo esaltano, il pubblico anche attento si annoia: così va il mondo del cinema!

© Marcello Terranova per instArt

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