Appena finita la lunga, prestigiosa stagione di Grado Jazz e Onde mediterranee nell’isola d’oro, l’infaticabile crew di Euritmica, che può fortunatamente contare su una notevole, essenziale componente femminile, si è spostata a Marano Lagunare per organizzare e gestire le giornate in musica di Borghi Swing, una manifestazione patrocinata dal Comune, dalla Regione e dalla Fondazione Friuli, che, da alcuni anni, riempie di gioia e di jazz la splendida cittadina lagunare.
Attraverso un’antica storia è possibile collegare i due porti storici del Patriarcato di Aquileia, le donne e l’attualità.
Si racconta che, a causa di un’antica epidemia, naturalmente, molto più grave di quella che stiamo attraversando, la città di Marano si fosse quasi completamente spopolata. Erano morte tutte le donne in età da marito ed erano rimasti vivi solo diciotto uomini. Questi, per cercarsi delle spose, se ne andarono proprio a Grado. Lì ne trovarono in abbondanza. La più anziana e saggia di loro disse che erano tutte disposte a seguirli al patto però che fossero loro a comandare. I maranesi inizialmente perplessi, infine, si convinsero ad accettare. Da allora sono gli uomini più felici del mondo perché alle donne spetta il duro compito di amministrare, gestire, decidere e loro possono comodamente dedicarsi alla pesca e all’osteria. Una vera pacchia.
Chissà cosa si nasconde sotto questa vecchia favola, chissà qual è il suo significato autentico. Senza sindacare troppo, a noi basta sapere che dove comandano le donne è tutto più gradevole e a Marano senz’altro, negli scorsi giorni di festa, si respirava un’atmosfera gradevolissima fatta di sorrisi, di sguardi, di musica, di ottimo pesce e vino bianco fresco che fino ad un certo punto aiuta a combattere l’afa, dopo l’aumenta. Per tornare ad Euritmica e alle sue donne coraggiose che, insieme alla premiata ditta Vellisig & Sons, si prodigano per la riuscita di tanti spettacoli; è proprio il caso di nominarle, meritano tutte un encomio e un abbraccio. E allora Grazie a Marina, Rita, Angela, Michela, Lara, Lisa e Anna, dietro alla loro competenza e ai loro sorrisi batte forte un cuore prezioso.
OverMiles Band: Gianluca Mosole (Chitarra e tastiere) Paolo Carletto (Basso) Rob Daz (Tromba) Nick Kocks (Batteria). Nel Jazz contemporaneo non c’è niente di più riconoscibile del sound dei lavori di Miles Davis sul finire degli anni ‘80 e niente di più difficile che riprodurlo senza sembrare banali e scontati. Quando tutto era jazz-funk con il basso “slappato” di Marcus Miller e la sordina elettrificata, Mino Cinelu alle percussioni e John Scofield alla chitarra, giusto per orientarci nelle varie formazioni delle sue band del periodo.
Approssimativamente da The Man with the Horn (1980) ad Amandla (1989) il trombettista, dopo aver sconfitto definitivamente l’eroina, diede una nuova svolta alla propria carriera e alla storia del jazz. Da sempre attento ai fermenti della musica afroamericana, nella sua lunga carriera, a partire dagli anni ‘40, Davis non perse mai l’occasione di cavalcare l’onda delle più dirompenti novità ed avanguardie, se si eccettua il free che non gli piacque mai, per tutto il resto fu sempre lui, il più grande innovatore di sempre, il re incontrastato del Jazz.
Confrontarsi con un colosso del genere. Molti hanno tentato l’impresa ma molto pochi sono risultati per lo meno credibili. Mosole e Carletto ebbero il grande privilegio di aprire i concerti della Miles Davis Band nel novembre 1987 (PalaTrussardi di Milano e al PalaEur a Roma) l’anno in cui uscì l’ottimo album “Tepore” a nome del chitarrista con lo stesso Carletto ma con la straordinaria partecipazione di Miroslav Vitous, Airto Moreira, Hiram Bullock, e altri. In sintesi, Mosole non è un musicista che si rifà alla musica di quegli anni, ne fu uno dei giovani talentuosi protagonisti almeno in Italia assieme al suo sodale Carletto.
In tutti questi anni ne è passata d’acqua sotto i ponti ma quel sogno davisiano non si è mai spento e, infatti, giustamente Mosole, sempre troppo raramente, continua a riproporre il suo progetto musicale (non cover-band come tiene a sottolineare) sul trombettista di Alton, Illinois.
Mosole ha capito una cosa essenziale: per essere credibili in un’impresa del genere non basta puntare sulle parti di tromba quanto più vicine all’originale (l’ottimo Rob Daz ci riesce piuttosto bene) ma bisogna cercare di ricreare il contesto sonoro dal quale quel meraviglioso sound si generava. L’ultimo Davis, in realtà, suonava in modo molto essenziale con linee melodiche chiare e orecchiabili. Come aveva sempre fatto, però, si attorniava di giovani eccezionali musicisti che gli fornivano ottimi spunti ed un accompagnamento non solo “ornamentale” e passivo ma fremente e carico di energia. Davis voleva far ballare il suo pubblico, faceva di tutto perché il jazz ritornasse ad essere una musica popolare tra i giovani afroamericani che, in generale, la ritenevano e spesso ritengono, cerebrale e da “anziani”.
Proprio per questo, durante l’esibizione, davvero ottimo è stato il lavoro d’improvvisazione alla chitarra e tastiere di Mosole e di Carletto al Basso Fender American Professional 5 corde. E questo nonostante uno spiacevole inconveniente tecnico che ha “cotto” la pedaliera della chitarra subito sostituita.
Anche il giovane, promettente batterista Nick Kocks non ha demeritato e il suo compito era piuttosto arduo.
Complessivamente quello del Miles Funky-Pop è uno stile che è stato molto banalizzato nel corso degli ultimi decenni, forse perché qualcuno lo ritiene troppo commerciale e radiofonico, è vero che il jazz nel frattempo ha cercato in altre direzioni, ma non è per niente escluso che presto o tardi si rivaluti questo percorso che, in realtà, ha ancora tanto da dire. Aspettiamo fiduciosi.
Nella piazza Vittorio Emanuele II, tra le centinaia di persone festose all’esterno dei bar e gli spettatori certificati per il concerto rinchiusi dalle discutibili norme anti covid in una specie di recinto, si aggirava uno streaker nostrano che, probabilmente per il troppo vino, ogni tanto si metteva in mutande tra la gente per ballare forsennato blaterando qualcosa sulla P.F.M. Un vero spettacolo nello spettacolo. Comunque molti ballavano fra il pubblico ancora una volta al ritmo del grande trombettista. We Want Miles!
Francesco Bearzatti plays Led Zeppelin. Francesco Bearzatti (SaxTenore) Alessandro Turchet (Basso) Marco D’Orlando (Batteria). Il sassofonista di Pordenone non è nuovo alle contaminazioni tra rock e jazz, si ricorda il suo divertente Monk’n’Roll con il Tinissima 4et in cui si intersecavano gli standard immortali di Thelonious Monk con altrettanto classici del rock da Shine on You Crazy Diamond dei Pink Floyd a Back in Black degli AC/DC, giusto per fare due esempi tra i tanti. Il poliedrico sassofonista ha partecipato anche alle sessions dedicate alla musica del gruppo del Dirigibile della Multikulti Orkestra e altro ancora. E’ proprio la sua cifra stilistica quella di spaziare tra i generi e in questi ultimi mesi abbiamo avuto la fortuna di vederlo molto spesso sui palcoscenici della regione coinvolto nei più diversi progetti musicali.
Quello di Borghi Swing è sembrato qualcosa di ancora diverso anche se la situazione un po’ strapaesana della piazza con centinaia di persone vocianti nei bar non era l’ideale per un ascolto filologico ed attento. Ma va bene così, la musica non è solo sala da concerto e Accademia, anche la festa paesana si merita della buona musica e non solo le cover band scalcagnate o le fisarmoniche bolse di certo liscio.
Un power trio con un sound alla Morphine ci sta proprio bene e l’energia che sono riusciti a sviluppare è stata davvero apprezzata anche dal pubblico più interessato agli spritz e alle scollature che alla pedaliera del basso elettrico. A questo proposito va sottolineata la prestazione del ben noto contrabbassista Alessandro Turchet, per l’occasione al basso elettrico, che aveva suoni davvero metallici e da fabbro ferraio, il suo strumento letteralmente sferragliava e faceva pensare alle leggendarie insostenibili esibizioni di Bill Laswell.
D’Orlando alla batteria è una certezza, il suo drumming divertente, sofisticato, multiforme e sempre raffinato costituisce un sicuro baricentro ritmico di riferimento. Ha davvero la stoffa del leader dietro le pelli che nel jazz vuol dire moltissimo. Un suo lungo assolo ha spazzato via ogni dubbio, incantevoli i suoi delicati passaggi latini al Jam Block e il suo parco, meditato utilizzo della grancassa.
Kashmir, Immigrant song, Whole lotta Love e gli altri classici dei Led Zeppelin, non c’è bisogno di dirlo hanno un gran tiro. Il sax di Bearzatti “effettato” e distorto sembra la chitarra elettrica di Jimmy Page in acido, è tutto dire. Gli arrangiamenti duri e concepiti per gli alti volumi hanno funzionato benissimo nel contesto informale della sagra paesana e promettono di divertire ancora.
Molto intimo e sentito, nonostante il luogo, il ricordo dell’artista Claudia Grimaz recentemente scomparsa, cui la band ha dedicato, nel vociare della piazza e dei bar, nel felice chiacchiericcio del fritto misto, una lunga improvvisazione sul tema di Stairway to Heaven. Molto contenuti, struggenti e romantici nella prima parte, i tre sono “esplosi” nella chiusa energica del brano ai versi: “And if you listen very hard. The tune will come to you at last, when all is one and one is all, that’s what it is, to be a rock and not to roll, oh yeah.” Lei che sta salendo quella scala ha di certo gradito.
Il ballerino in mutande, dalle coreografie selvagge e improvvisate, alla fine della serata era sfinito ma contento; nella sua follia di etilista credeva di aver assistito ad un concerto di Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, miracoli del vino e del Delirium tremens, non c’era motivo di disilluderlo. Anzi, per solidarietà, anche se non c’entra niente, gridiamo anche noi: Evviva la Premiata Forneria Marconi! E poi Evviva Borghi Swing!
Flaviano Bosco © instArt