Eccezionale cine-concerto della Zerorchestra sui fotogrammi di Show People di King Vidor (Maschere di celluloide, Usa 1928), nella sala grande di Cinemazero a Pordenone gremita di pubblico, naturalmente, secondo gli stringenti parametri della normativa anti-covid.

La pellicola è uno degli ultimi grandi successi dell’epoca del muto, quasi un saluto nostalgico e dolcissimo ad un modo di fare cinema che era davvero su quel viale del tramonto cui ripenserà tanti anni dopo anche Billy Wilder (Sunset Boulevard, 1951).

La partitura eseguita dalla Zerorchestra è di Guenter Buchwald, un compositore che collabora da lunghi anni con Le Giornate del Muto di Pordenone ed è basata su grandi standard della musica a stelle e strisce. A farla da padrone, soprattutto nella prima parte, una riscrittura di America da West Side Story di Leonard Berstein che è sempre un gran sentire. E poi ci sono Tango, Ragtimes, Jazz, Blues e molto altro. Come sempre, l’ensemble diretto da Juri Dal Dan ha fatto uno splendido lavoro tra accompagnamento, rumoristica, fiati romantici e sonore percussioni. Però, a dire la verità, le composizioni originali del Maestro Dal Dan, eseguite in altre occasioni dall’orchestra, risultano molto più raffinate ed evocative di quella di Buckwald che, a volte, sembra limitarsi alla pura didascalia.

La Zerorchestra ha capacità immaginative e interpretative molto più profonde e interessanti anche perché composta di musicisti d’altissimo livello, ognuno capace di virtuosismi ben più smaglianti. Basta ricordare il sax di Francesco Bearzatti tra i più versatili e spericolati del panorama del jazz non solo italiano, in questo caso piuttosto sotto utilizzato e quasi costretto a fornire più che altro una musica d’accompagnamento. Naturalmente, tutto molto godibile, divertente ed elegante; dai fiati (Didier Ortolan, Francesco Bearzatti, Gaspare Pasini) alla ritmica e le percussioni (Luigi Vitale, Luca Grizzo, Romano Todesco), quello che si è potuto ascoltare aveva dinamiche deliziose che si intersecavano con i fotogrammi alla perfezione (fin troppo); a suscitare qualche perplessità è stata proprio la partitura che a tratti, forse volutamente, è apparsa insistere eccessivamente sui toni caricaturali e auto-parodistici.

Nello stesso anno in cui si girava Show People faceva furore nei cinema di tutto il mondo una pellicola del tutto rivoluzionaria: Il Cantante di Jazz di Al Johnson, il primo film sonoro della storia del cinema e nulla fu come prima. Tutto il mondo che vediamo nel film di King Vidor stava per trasformarsi radicalmente fino a scomparire, l’industria cinematografica non sarebbe mai più stata la stessa.

La trama di Show People è la medesima su cui Hollywood, da quando esiste, ha costruito migliaia di film di successo, trasversalmente ai generi. Peggy Pepper è una graziosa ragazza della Georgia con il grande sogno di diventare una star del cinema. Come dice la didascalia iniziale: “Per migliaia di speranzosi, c’è un punto dorato che si chiama Hollywood”; Peggy si fa portare nella città del cinema in cerca di fortuna dal proprio padre, il Generale Marmaduke Oldfish Pepper. Entrambi hanno una mentalità e usi provinciali che si scontrano con quelli del rutilante mondo dello spettacolo che davvero non riescono a capire e che non li capisce.

Ne consegue un florilegio di momenti comici e situazioni divertenti che conquistano immediatamente lo spettatore soprattutto per la grande verve comica della protagonista interpretata da una vulcanica Marion Davies. Abbacinata dallo splendore dello star sistem, Peggy gira per i set, incontra attori famosi, registi, dive del momento, approfittatori, produttori, giornaliste di gossip ecc. Riesce, nel modo più imprevedibile, a diventare una grande attrice partendo da un’occasionale particina in una Slapstick Commedy, le cosiddette comiche con torte in faccia, inseguimenti con buffi poliziotti, capitomboli e bastonate. In una sequenza, l’inseguimento si trasforma nella surreale sarabanda di una teoria di pazzi e pagliacci che si rincorrono su una strada di campagna, pura avanguardia, si vede perfino un pazzo dentro una piccola botte a rotelle trainata da un oca starnazzante.

Peggy, prima si dispera, mai avrebbe voluto cominciare da così in basso, per lei i film melodrammatici e strappalacrime sono vera arte come i film di King Vidor cui assiste in un cinema. Il film comico però piace al pubblico e le spalanca le porte del successo fino a trasformarla in una star snob e sofisticata. Naturalmente il regista trasforma tutto in caricatura con una gran dose di umorismo, satira feroce e perfino autocritica. Lui stesso si rappresenta al lavoro in modo piuttosto ridicolo.

Naturalmente, non poteva mancare la storia d’amore, la protagonista s’innamora di uno scalcagnato attore comico, una specie di clown tuttofare, dal quale si separa per seguire la propria luminosa carriera, pentendosene amaramente quando riesce a raggiungere la celebrità. Dice al suo aristocratico compagno del momento: “Guardati, guardami, siamo solo dei pagliacci. Lui era l’unica persona autentica e l’ho perso” e pensare che faceva davvero il pagliaccio di mestiere. Lo ritrova e si ricongiunge a lui proprio grazie al film che il vero King Vidor, che interpreta se stesso, sta girando (o fa finta), con dissolvenza sul bacio finale, The End e vissero tutti felici e contenti.

Il vero cuore della pellicola sono però il susseguirsi inesauribile delle divertite comparsate dei divi dell’epoca, molti dei quali sono ormai stati risucchiati dal tempo e dall’oblio e sono riconoscibili solo ai veri grandi appassionati del cinema muto. Altri invece hanno mantenuto la loro caratura di Star come Charlie Chaplin che vediamo mentre chiede molto umilmente un autografo alla protagonista che molto altezzosa quasi glielo nega, Ma chi è quel piccoletto? – dice.

Bellissima anche la sequenza che vede gli attempati Duglas Fairbanks e William S. Hart seduti ad un’allegra e spensierata tavolata d’amici attori mentre scherzano tra loro in una situazione fintamente familiare e quotidiana; il primo finge di ingoiare una posata come se fosse la spada di un fachiro e il secondo impugna due salini come se fossero le sue colt da pistolero. Entrambi fanno il verso a se stessi e al personaggio avventuroso e spericolato che hanno sempre interpretato, vogliono dare l’impressione di essere solo delle persone comuni che potrebbero benissimo star sedute a fianco del più umile degli spettatori.

Come è facile capire è uno stratagemma narrativo, un’amicizia fasulla e illusoria che ha solo lo scopo di mettere a proprio agio lo spettatore pagante facendolo sentire parte della grande famiglia del cinema. E’ un modo di attraversare lo schermo e simbolicamente stringere la mano a chi sta guardando ma, lo sappiamo bene, è una realtà che esiste solo nei sogni. Questo non vuol dire che non sia importante, tutt’altro, è una dimensione del nostro immaginario che può dirci moltissimo su noi stessi, sulla nostra vita intrapsichica, relazionale e sul modo in cui percepiamo e ci rappresentiamo il nostro mondo.

La magnifica illusione del cinema ha una profonda radice psicoanalitica che è analizzabile e riassumibile a partire dal famoso concetto di Doppelgänger cui Otto Rank, allievo prediletto di Sigmund Freud, dedicò un testo capitale: Il Doppio, il significato del sosia nella letteratura e nel folklore che ha come punto di partenza l’analisi del film “Lo studente di Praga” di Sellan Rye (1913) che individua così la vera essenza della settima arte.

L’intuizione del doppio viandante, del sosia, dell’alter ego come essenziale strumento dell’identificazione di sè nella narrazione sarà in seguito alla base del concetto di Perturbante freudiano (Unheimlich).

In sintesi, per fare fronte alle nostre angosce, proiettiamo fuori di noi un mondo immaginario che siamo in grado di controllare perché dipende dai nostri desideri e dalle nostre fantasie. E’ facile riconoscere in questo uno dei meccanismi di base della produzione artistica.

L’immagine speculare, però, ricorda all’io che i desideri che voleva realizzare e di cui insieme si voleva sbarazzare e che ora vede proiettate nel comportamento del sosia, sono pur sempre aspetti che appartengono all’io stesso. Siamo allora di fronte a un fallimento della rimozione, a un ritorno del rimosso. In seguito a ciò il soggetto si ritrova in una situazione che va dal turbamento fino al raccapriccio più tormentoso. La scissione psichica, quindi crea il Doppio; a sua volta il Doppio rappresenta una proiezione del conflitto interiore, la cui creazione porta con se una liberazione interiore, un alleggerimento, a prezzo però della paura dell’incontro col Doppio”.i

Ci figuriamo protagonisti (attori) di un’illusione rassicurante o perturbante che non abbia le caratteristiche d’assoluta irrazionalità, fino all’assurdo, della realtà nella quale siamo gettati, e questo ci intriga, disorienta ma allo stesso tempo ci attrae irresistibilmente.

Show People da questo punto di vista è esemplare. Peggy, interpretata dall’esplosiva Marion Davies, vive il suo sogno fatto di star cinematografiche, di forti passioni, di bella vita da rotocalco tra ville e pellicce incontrando i personaggi che ha desiderato e ammirato sul grande schermo anelando ad essere una di loro, a far parte del Jet Set e del firmamento di stelle di Hollywood. Il film ci mostra chiaramente che è tutto un sogno ma lo fa attraverso un altro sogno che diventa il nostro di spettatori che ci identifichiamo nella protagonista: un sogno, dentro ad un sogno, dentro ad un sogno.

Peggy, che nel film ricorda il personaggio interpretato da Bette Davis in Che fine ha fatto Baby Jane? (What ever Happened to Baby Jane? Di R. Aldrich, 1962) come doveva essere da giovane, ad un certo punto incrocia anche una ragazza, piuttosto antipatica e noncurante, non la riconosce e chiede: Ma chi è quella li? Le rispondono “Ma è Marion Davies, la famosa attrice” ossia l’attrice che interpreta la stessa Peggy. Ricapitoliamo: Peggy sogna di fare il cinema ed è interpretata da una famosa attrice di nome Marion Davies che nel film però interpreta anche se stessa mentre incontra il personaggio che sta impersonando. Se non è un tema psicoanalitico questo possiamo benissimo cancellare tutto il teatro d’occidente da Shakespeare a Pirandello. Ma, a complicare la questione, già piuttosto intricata, c’è ancora un particolare da sottolineare. Marion Davies, in quel periodo era l’amante, più o meno stabile, del gigante dell’editoria William Randolph Hearst contro il quale si scagliò Orson Welles con il suo Quarto Potere (Citizen Kane, 1941).

Show People s’inventa ancora una volta una Hollywood zuccherosa e caramellata a cui tutti vogliono credere con tutte le loro forze ben sapendo trattarsi di una finzione. Basta leggere anche distrattamente Hollywood Babilonia di Kenneth Anger o soffermarsi sulle traversie artistiche ed esistenziali di Roscoe Conklin Arbuckle detto Fatty o ancora ricordare gli scandali a sfondo sessuale che perseguitarono Charlie Chaplin, per rendersi conto che non doveva certo trattarsi di un paradiso per fanciulle in fiore.

Accolto da un applauso interminabile alle Giornate del Muto di qualche anno fa alla sua prima proiezione con le musiche dal vivo della Zerorchestra, Show People è un classico intramontabile, frizzante e arguto. E’ stato riproposto ancora lo scorso anno quando tutti i cinefili avevano ancora negli occhi l’ultimo lungometraggio di Quentin Tarantino, C’era una volta a Hollywood. Due fatti e due film che a tutta prima appaiono come abissalmente distanti, separati per altro, da più di novant’anni. Eppure i punti di contatto ci sono, eccome e val proprio la pena di sottolinearne alcuni.

Ne va della comprensione stessa della macchina cinematografica che, oltre ad essere proiezione dei nostri desideri, è anche rimemorazione di un passato che non c’è nemmeno mai stato, pura e semplice invenzione della nostalgia.

Quest’ultima è un’ arma potente che il mondo dello spettacolo ha sempre saputo sfruttare a fondo.

Entrambi i film rimandano ad un’ipotetica età dell’oro del cinema che è ormai al tramonto. Il film di King Vidor rimpiange gli anni eroici dei pionieri del cinema muto tra cui lui stesso, quello di Tarantino ripensa e rimodella a proprio uso e consumo i meravigliosi sogni cinematografici degli anni ‘60 che si infransero per mano di Charles Manson e delle sue Bambole assassine come racconta la vulgata. Entrambi dal punto di vista storico sono assolutamente fasulli e pretendono di piegare i fatti ai loro desideri e all’immaginario del pubblico, in qualche caso, finendo per riuscirci. Senza entrare troppo nel dettaglio è singolare la somiglianza del personaggio di Peggy Pepper con quello di Sharon Tate, interpretato dalla melata Margot Robbie. Ad un certo punto per convincere Peggy a recitare una parte che non vorrebbe, le si dice: “Pensa soltanto al primo grande brivido quando ti rivedrai in un cinema” in una sequenza successiva la vediamo in sala mentre si guarda sullo schermo, mentre gli spettatori ridono entusiasti, lei si dispera perché le sembra di fare la figura della scemotta (Dummy).

Al personaggio di Sharon Tate nel film di Tarantino succede, praticamente, la stessa cosa; in una sequenza diventata ormai celeberrima la vediamo presentarsi al botteghino di un cinema per acquistare un biglietto per la proiezione della pellicola comica in cui, dice: “Faccio la parte della scemotta (Dummy)”.

Certo, è solo una coincidenza, è molto più probabile che Tarantino si sia ispirato alla Nanà (Anna Karina) di Vivre sa vie di Godard, omaggiata tra gli altri anche da Abbas Kiarostami (Where is my Romeo? 2007). Rimane singolare il medesimo modo di intendere il linguaggio cinematografico e le sue seduzioni.

Il metacinema è per definizione il cinema che mostra e parla di se stesso, rivelando meccanismi che lo fanno funzionare. In “Analisi del film” Francesco Casetti e Federico Di Chio insistono col dire che quello che la comunicazione meta-cinematografica “intende mostrare o vedere, non è tanto il modo ma piuttosto il fatto stesso del mostrare e del vedere”.

In sostanza, secondo questa interpretazione, esisterebbero almeno due tipi di cinema: quello che rappresenta la realtà fino a pretendere di confondersi in essa e quello che si impegna a smontare l’inganno e l’apparenza svelando i trucchi illusionistici attraverso i quali il racconto ci persuade.

In realtà, si perdoni il gioco di parole, sono false entrambe le prospettive. Il cinema è di per sè un metalinguaggio, un mezzo di comunicazione che non fa altro che ripensarsi, rimuginare e reinventarsi programmaticamente.

Quando si citano esempi di metacinema si tirano sempre in ballo pellicole come 8 e ½ di Fellini, Effetto notte di Truffaut o Passion di Godard che sarebbero state concepite per smontare la macchina cinematografica, mettendone in luce ingranaggi, funzionamento e varie miserie quotidiane. Niente di più falso, il film che fa vedere come si fanno i film non è assimilabile ad uno strumento d’indagine scientifica, freddo e preciso che fotografa ciò che accade (ammesso che sia un discorso plausibile anche questo), è solo un altro film che per essere goduto dagli spettatori deve attenersi alle medesime regole dei film di finzione.

In Show People vediamo molto spesso un regista ed una troupe impegnati nelle riprese; si vedono gli operatori alle cineprese a manovella, i differenti set, i truccatori, gli attrezzisti, gli studios, gli attori famosi alle prese con le mansioni quotidiane; l’impressione che ne ha lo spettatore è quella di aggirarsi “fisicamente” in quei luoghi e di “vedere” con i propri occhi quelle situazioni fino a credere di farne parte, di esserne partecipe, attore della propria vita. La magia del cinema riesce a farci dimenticare che se stiamo vedendo degli operatori che girano un film è perché ce ne sono degli altri che quelle scene hanno girato e che perciò quello che stiamo vedendo è solo frutto dell’ennesima finzione. E’ il grande fascino del cinema che in questo somiglia moltissimo alla filosofia e perfino alla vita.

In un meraviglioso cortometraggio animato del 1973, The Cave, a parable told by Orson Welles il grande genio americano illustra il mito della caverna del Libro VIII de La Repubblica di Platone con il suo gioco di ombre, luci, vero, falso, verità e menzogna e lo fa paradossalmente utilizzando un medium linguistico che non fa che rappresentare quello che già in partenza è, in gran parte, menzogna, cioè la nostra stessa esistenza, con un’illusione, proprio un gioco di ombre e di luci su di uno schermo com’è il cinema.

Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei propri compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?ii

iManuela Agostini, OttoRank e la simbologia del Doppio: analisi del film “Lo studente di Praga” in www.stateofmind.it

iiPlatone, La Repubblica, 515a.

© Flaviano Bosco per instArt

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