Pordenone, 31/10/2021 – Sala Capitol – SLOU – Estensioni Jazz Club Diffuso – Maistah Aphrica – Gabriele Cancelli : tromba, ukulele, flauti, percussioni – Mirko Cisilino: trombone, tromba, percussioni – Clarissa Durizzotto: sax contralto, percussioni – Giorgio Pacorig : organo elettrico, Korg MS 20 – Andrea Gulli: sintetizzatori, effetti, sovraincisioni – Enrico Giletti: basso elettrico – Marco D’Orlando: congas, timbales, percussioni – Alessandro Mansutti : batteria – Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2021

Nella fredda notte di Halloween, a 41 anni esatti dall’omicidio di Pier Paolo Pasolini, in uno dei più bei locali della regione che sta diventando sempre di più un vero e proprio tempio della musica “suonata” il Capitol di Pordenone, si è tenuto un infuocato concerto dei Maistah Aphrica che ha scaldato i cuori e le viscere di quanti hanno voluto festeggiarli. Non c’era in realtà niente di particolare da celebrare, se non la loro grande carica di energia e il fatto che quando suonano è sempre festa grande.

Con due album alle spalle (Maistah Aphrica 2017, Meow 2019), salutati in modo entusiastico dalla critica e dal pubblico che assiste alle loro funamboliche esibizioni, gli otto musicisti sono avviati ad una solida e premiante carriera piena di traguardi con una creatività che non appare sporadica o episodica ma che concerto dopo concerto cresce; è certo che i Maistah Aphrica non sono solo un meraviglioso fuoco d’artificio che illumina per un attimo il buio del cielo, sono un cannone caricato a mitraglia che ha ancora tante munizioni da sparare e sicuramente non a salve.

E’ un’Africa tutta immaginaria e immaginata con la musica quella del gruppo afro-friulano. Un universo di suoni sognati e trascesi da una volontà straordinaria di conoscere e di esplorare i mondi del possibile in musica.

Come tutti sanno l’Africa non esiste se non come meravigliosa idea dentro i nostri cuori e nelle nostre viscere. E’ una realtà seducente e sensuale fatta di racconti, immagini sonore e ombre. E’ un luogo che vorremmo raggiungere e sempre ci sfugge; un miraggio sulla linea dell’orizzonte in una luce abbacinante. Pier Paolo Pasolini nell’explicit di un suo componimento piuttosto dolente scrive: “E ora…ah, il deserto assordato dal vento, lo stupendo e immondo sole dell’Africa che illumina il mondo. Africa! Unica mia alternativa!”

Niente di drammatico nella musica dell’ottetto ma al contrario tanta gioia da esprimere con le labbra, con la punta delle dita e a forza di braccia.

L’Africa è un fuoco che brucia dentro, è una nuvola di fumo denso buttata giù nei polmoni ed espirata attraverso gli occhi e le orecchie. L’Africa è un bambino che ci sorride sull’autobus o una musica lontana in levare. E’ le curve pericolose di una donna scura ma anche i bicipiti scolpiti di un omone; è un gusto piccante berbero che brucia la lingua; è il sudore di un torpedone stracarico che attraversa un nulla fatto di sabbia, arbusti, preghiere e speranze; è la gioia di una danza a piedi nudi. Anche per chi ci vive, l’Africa è solo il sogno di qualcun altro, un enorme fiume con le sorgenti che si perdono nel cielo.

Ad essere corretti bisognerebbe sempre parlare di Afriche e di culture sopra e sotto il Sahara e poi dei paesi stretti tra il golfo di Guinea e il Mar Rosso e poi, perché no, fino al golfo persico. Ci sono poi le diaspore africane fuori e dentro il continente; le culture creole del Nord e del Sud America e poi ancora quelle caraibiche. Ce ne sarebbe tanto da dire in musica, dalle work songs fino al Samba e poi di ritorno verso l’Afrobeat e poi ancora la cultura Hip hop. Non si finirebbe più in un girovagare piacevolissimo e continuo da un continente all’altro, tra le gioie e il dolore di una terra sterminata sempre in marcia. Maistah Aphrica ci aiuta ad immaginare luoghi e distanze con i suoni e con i ritmi con i quali le culture dell’Africa hanno cresciuto il nostro immaginario e lo fa in modo assolutamente divertente, ironico e creativo con un groove davvero intrigante, un sound ricco coinvolgente che appassiona e attira immediatamente con le sue good vibes. Non ci sono intellettualismi o accademismi che, è vero, a volte sono necessari ma che spesso fanno perdere di vista il senso profondo di fare musica in questo contesto.

Potremmo riassumere l’atteggiamento dei musicisti friulo-africani nei concetti etno-musicologici di tribalismo e tropicalismo che nella loro accezione più estesa riguardano trasversalmente tutte le culture sopra e sotto l’equatore. In musica si definisce tribale la musica ritmata in modo ossessivo e ripetitivo che ci ricorda il pulsare e l’energia della natura e ci fa sentire parte di un gruppo più o meno esteso e ci fa identificare in esso, ci fa sentire parte di una comunità, “una tribù che balla”.

L’idea di tropicalismo rimanda immediatamente al movimento culturale scaturito dalla fantasia di Caetano Veloso nel Brasile della fine degli anni ‘60 ma ormai indica anche una serie di tendenze musicali che mescolano avanguardia musicale, afro-beat e ritmi creoli e caraibici d’ogni sorta, è un carnevale in musica che nessuno può più orientare tanto è libero, parafrasando una vecchia canzone proprio di Veloso. Se a tutto questo aggiungiamo la filosofia cosmica e afrofuturista di Sun Ra e della sua Arkestra e un pizzico di follia alla Frank Zappa abbiamo quadrato il cerchio.

I Maistah Aphrica come ensemble riassumono in se il meglio che il nostro territorio sa offrire anche perché ognuno dei musicisti a propria volta ha contemporaneamente molte collaborazioni all’attivo. Otto musicisti otto che ne fanno per un’intera orchestra, da alcuni anni sono ai vertici della musica italiana che val davvero la pena di essere ascoltata. Il primo impatto lo da la sezione fiati composto da Clarissa Durizzotto (alto sax e percussioni), Mirko Cisilino (trombone, tromba, corno francese, percussioni) e Gabriele Cancelli (cornetta, duduk bass, ukulele, flauti, percussioni) scatenati, incisivi, visionari.

Non meno interessante è la sezione ritmica di Marco D’Orlando (Congas e percussioni), Enrico Giletti (basso elettrico) e Alessandro Mansutti (Batteria) che pulsa, ondeggia, scandisce i beat sistolici ed extra. La parte psichedelica del trip è garantita dalle fantastiche tastiere dello sciamano elettrico Giorgio Pacorig (piano, electric organ, Korg Ms 20) e dal suo lisergico sodale Andrea Gulli (sintetizzatori, dub).

Appena partono i primi accordi di una lunga suite introduttiva ci si accorge subito di trovarsi davanti ad un’esperienza musicale fuori del comune tra ritmi tribali ed elettronica che a tratti sfiora il krautrock con un impatto sonoro di grandissimo effetto. Già dopo le prime efficacissime battute ci si scorda di tutti i riferimenti, le ispirazioni e le elucubrazioni da vecchi criticoni e ci si fa travolgere dall’energia pura che fanno scaturire dai loro strumenti; è un sound del tutto originale, fresco, vitale e rigenerante anzi “amarikante”. Come si diceva una volta: “Suonano a palla di cannone”in una “mista” stupefacente. Veloci, spiritati, senza un attimo di tregua, fino all’ultimo respiro, brano dopo brano in una teoria di suoni ed emozioni che si tengono per mano nello spazio di un sorriso. Rifacendosi anche a sonorità tipiche del polizziottesco cinematografico anni ’70, alcune loro interpretazioni sembrano un forsennato inseguimento automobilistico per le vie della città, sembra quasi di vederlo “l’alfettone” della polizia a sirene spiegate filare dietro lo “scassone” dei delinquenti.

Quando concedono l’ultimo bis e suonano gli ultimi accordi ci si ritrova completamente ebbri di musica, si ritorna con i piedi sulla terra ma con la testa ancora tra le nuvole e la netta impressione di aver assistito a qualcosa di unico e di aurorale come una luce all’orizzonte che ci fa sentire vivi ancora una volta.

Mai Stati in Africa – Mai Stata Africa – Maesta’ Africa!

Questo appuntamento è stato organizzato per la bella rassegna Estensioni Jazz Club Diffuso (della Slou Società Cooperativa), che da questa estate ci ha abituati ad interessanti proposte musicali tra la Lombardia, l’Emilia, il Veneto ed il nostro Friuli Venezia Giulia.

Flaviano Bosco © instArt

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