Scrive Wole Soyinka, scrittore e resistente nigeriano, premio nobel per la letteratura 1986 e parente della famiglia Kuti:
“…Supponiamo di cominciare a rendere conto di ogni potere arbitrario – cioè di tutte le forme di dittatura-di potenziale oscenità altrettanto innata: allora, naturalmente, il linguaggio deve comunicare l’illegittimità di questo con lingua vigorosa, intransigente del rifiuto, sforzandosi sempre di renderlo ridicolo e spregevole, sgonfiando le sue pretese dal profondo. Un tale linguaggio non ha la pretesa di smantellare quella struttura di potere, cosa che in tutti i casi deve essere uno sforzo collettivo; tuttavia esso contribuisce alla ricostruzione psicologica dell’atteggiamento pubblico verso le forme di oppressione. Il linguaggio deve essere parte di una terapia di resistenza”. (L’uomo è morto, pag.15)
Questa è la lingua in musica che parla Seun Kuti, figlio più giovane del grande Fela non solo padre celebrato dell’Afrobeat ma combattente per i diritti del suo popolo brutalizzato dal colonialismo e dai maligni effetti della corruzione e dell’inesauribile, luciferina volontà predatoria dell’occidente.
Senza comprendere questo essenziale presupposto e cioè che da decenni il figlio continua a combattere la giusta battaglia di tanto padre, è proprio inutile ed ozioso accostarsi alla sua musica e alle esibizioni di questa breve intensa tournée italiana che lo ha visto planare al Teatro Zancanaro di Sacile per Il Volo del Jazz.
Seun “combatte una battaglia che lo porta per le strade della gente che sa amare” e capire che la musica non è solo intrattenimento o piacere ludico che si esaurisce in una bella “seratina” dai ritmi esotici da commentare tra amici a pancia piena in birreria. La musica può essere molto di più ed ha un senso se invigila le nostre coscienze civili, avvertendoci, magari in modo piacevole, che le nostre omissioni e la nostra indifferenza sono la vera origine dei mali della nostra società. Se crediamo che basti andare a vedere degli artisti di colore, africani o quant’altro, per assolverci del crimine della xenofobia e dalla protervia della nostra bianchitudine (Whiteness) ci sbagliamo di grosso. Spesso riusciamo ad accettare solo gli africani che danzano e ballano i loro strani numeri da circo, nello sport, nel cinema, nella musica, li insultiamo, incensiamo, assolviamo a nostro piacimento beandoci della nostra prodigalità.
Non appena qualcuno alza la testa rivendicando la propria essenza di persona e non di fenomeno da baraccone o di sottomesso grato per l’elemosina che gli è stata concessa ci indigniamo definendo la sua presunta ingratitudine attraverso la nostra squallida ipocrisia, non serve fare degli esempi, le cronache quotidiane ne sono piene.
Questo splendido concerto che ha concluso un’edizione de Il Volo del Jazz da incorniciare, per qualità e presenze, era organizzato in collaborazione con la rassegna cinema e cultura Africana, Gli occhi dell’Africa di Cinemazero di Pordenone che già aveva garantito l’esibizione di K.O.G & The Zongo Brigade e che lo scorso anno aveva portato allo Zancanaro la fantastica Fatoumata Diawara.
Nella sua breve prolusione al concerto di Kuti, il responsabile del progetto, non ha fatto mancare una certa, legittima nota di amarezza, facendo notare che, dopo XIII edizioni dedicate ad esplorare le culture del continente africano, la manifestazione e la sala del teatro vede la presenza quasi esclusivamente di bianchi. Le numerose comunità sparse sul territorio restano comunque escluse da questi eventi preferendo non partecipare; preferiscono vivere quasi nascoste, molto spesso per paura di perdere o dover necessariamente rinunciare alla propria identità in seguito alla pelosa integrazione che gli viene proposta. Dovrebbe farci riflettere questa situazione molto simile a tante altre. Spesso ci sentiamo inclusivi e accoglienti solamente perché tra noi ce ne convinciamo. La nostra presunta buona volontà e apertura verso il prossimo, altro non è che l’antico pusillanime, fariseismo.
Dopo tanti preamboli, s’abbassano le luci in sala e chiamati dal percussionista i membri della band uno alla volta salgono sul palco sono davvero tanti. Citiamoli tutti che se lo meritano: Adebowale Osunnibu (sax), Ojo Samuel David (sax) Adedoyin Adefolarin (tromba) Oladimeji Akinyele (tromba) Joy Opara (voce, danza) Iyabo Adeniran (voce, danza) David Obanyedo (chitarra) Oluwagbemiga Alade (chitarra) Kunle Justice (basso) Shina Niran Abiodun (batteria) Kola Onasanya (conga gigante) W”ale Toriola (percussioni) Okon Iyamba (shekere).
Dopo un primo brano interlocutorio e introduttivo tutto sommato inutile in cui l’orchestra ha preso le misure del pubblico, della strumentazione e dei suoni lo speaker ha annunciato: “And now it’s time for the big party. Are you ready for this?” Domanda di rito ma assolutamente retorica. Tutti erano più che pronti e l’hype era al massimo e quando Seun è apparso da dietro le quinte con un abito sgargiante, bello come un dio, fiero, dai muscoli scolpiti il boato è stato generale e unanime.
E’ partito subito il primo brano dedicato naturalmente al padre: Unknown Solider, nuova versione di uno dei suoi momenti più ispirati. L’impatto è notevole, i volumi sono regolati quasi da rendere gli strumenti indistinguibili l’uno dall’altro in un sound compatto dai tempi dilatati ed espansi. E’ una musica corale, d’insieme. L’orchestra schierata ha la forza di una falange, forse in alcuni momenti dispersiva ed eccessiva ma assolutamente vitale e germinativa.
In alcuni lunghi istanti, sembrava distendere la ripetitività dei propri ossessivi ritmi fino all’infinito come un orizzonte, da una parte all’altra, oltre il nereggiare cupo della linea degli alberi di un’immensa foresta che laggiù sembra muoversi a vendetta.
Proprio come Macbeth nella tragedia shakespeariana, ce ne stiamo asserragliati nella nostra fortezza di privilegio e benessere mentre il mondo intero soffre a causa della nostra cupidigia e della nostra pusillanimità. Unknow solider racconta di tutti quei soldati che eseguono gli ordini di un potere feroce e cieco e ne diventano i complici più stolidi e servili. Il gioco non può durare ancora a lungo: “Non devi temere fintanto che non vedrai avanzare la foresta verso il tuo castello…ed ora una foresta si muove veramente”.
I popoli del mondo verranno, presto o tardi, a richiedere il giusto risarcimento per quanto abbiamo loro strappato con inaudita violenza e allora la nostra vita avrà il solo significato di un’ombra che cammina.
Dopo il doveroso omaggio al padre, la musica si è fatta più urbana e stradaiola , il secondo brano sembrava parlarci di una delle enormi e brulicanti megalopoli africane che stanno crescendo a ritmi vertiginosi e impensabili come Lagos in Nigeria, intasata di traffico veicolare e trabordante di vita.
Istrionico e guascone, esplosivo e gigione, Seun Kuti come uno sciamano invasato, anzi come uno stregone indemoniato canta, danza e suona il suo sax in modo forse non eccelso tecnicamente ma generoso, pulsante e divertente, spingendo la sua orchestra a improvvisi cambi di tempo ed accelerazioni con una semplicità e naturalezza da lasciare sbalorditi.
La band ondeggia e si prostra, rispondendo al proprio leader, padrone incontrastato come un solo organismo, un insieme di elementi coesi che hanno come collante un ritmo forsennato e un rigore assoluto. Incantevoli le due instancabili coriste con la loro danza all’unisono tra ancheggiamenti, autentico tellurico twerking e canti in risposta alle esortazioni del leader.
Venuto il turno del sarcastico “African Dreams”, attacco diretto al consumismo e a favore di quello che ognuno di noi è in grado di fare di costruttivo e positivo per la propria comunità, Seun Kuti non risparmia al suo pubblico uno dei sermoni politici per i quali è universalmente conosciuto. Il discorso verte soprattutto sulle ricche élites dell’Africa occidentale (West Africa) che si sono lasciate convincere che lo scopo della loro vita è consumare i prodotti europei più esclusivi, sprecare le risorse e vivere nel lusso più sfrenato mentre i propri fratelli delle perifierie soffrono la fame e l’ingiuria delle malattie nelle baraccopoli senza speranza. E non basta nemmeno il paternalismo di chi crede di andare in Africa a fare dell’elemosina a buon mercato. Quante volte abbiamo sentito la patetica locuzione: “Aiutiamoli a casa loro”. Ancora più dannosa è quella che si può chiamare la sindrome del colono salvatore e civilizzatore che, con la scusa di sollevare gli africani dalle sofferenze, finisce per condannarli ad un’economia di mercato altrettanto spaventosa. Le parole di Seun Kuti non sono state esattamente queste ma il senso lo era. Un’ottima scrittrice italiana, afrodiscendente che si occupa di queste tematiche, afferma: “Bisognerebbe decolonizzare il concetto stesso di universalità e sperare nella costruzione di società post-razziali, dopo che avremo ucciso il colonizzatore che è in ognuno di noi”.
Madido e vulcanico il sassofonista nigeriano continua a sparare bordate micidiali contro il capitalismo e il fascismo. Il suono del suo strumento a volte si fa sgraziato e perfino stridulo, in un incalzare di ritmi che si sommano a ritmi suadenti, inesorabili e impertinenti in un amalgama sonoro ipnotico e trascinante di grandissima efficacia.
L’unico serio appunto all’esibizione è che in questa formula di concerto, tutto sommato tradizionale, con i suoi tempi e modi dettati dal contesto teatrale, le potenzialità della band sono state sacrificate allo scopo di dare maggiore compattezza allo show e alle conseguenti esigenze del suo leader. La straordinaria sezione fiati e le chitarre avrebbero meritato maggiori attenzioni e libertà. Tanto vale anche per la sezione ritmica. Alcuni fortunati nel 2018 a Udin&Jazz ebbero la possibilità di ascoltare la spina dorsale del ritmo della band dei tempi di Fela Kuti, in un travolgente concerto di Tony Allen che ormai, per raggiunti limiti d’età, non può più sostenere impegni così gravosi.
E’ vero che si è trattato di un concerto straordinario e convincente ma non si trattava certo di di una di quelle torride esibizioni al The New Afrika Shrine, il centro culturale di Lagos, gestito dalla famiglia Kuti, che ricrea le atmosfere del locale fondato da Fela nel 1977 e poi distrutto dal regime. Per quelle esperienze e per capire davvero la bellezza di quella cultura vale la pena di farsi un bel viaggio in Nigeria magari, contemporaneamente, prestando maggiore attenzione ai fratelli che vivono insieme a noi nelle nostre grasse, insensibili città.
Seun Kuti ha concluso il suo concerto alzando entrambi i pugni al cielo proprio come faceva suo padre. A chi volesse saperne di più non resta che ascoltarne la magnifica musica e dare un’occhiata al documentario Finding Fela di Alex Gibney (2014)
Flaviano Bosco © instArt
Ringraziamo per le immagini Luca A. d’Agostino © Phocus Agency, che ha seguito il concerto de Il Volo del Jazz 2019 a Sacile e Luca Valenta © Phocus Agency per noi al Teatro Miela di Trieste! Uno splendido sold out in entrambe le occasioni!