Replica del 05/03/2023

Convincente messa in scena del capolavoro di Bellini in un teatro rapito dalla bellezza del canto e da una resa scenografica particolarmente riuscita.

Alla rappresentazione, in platea, nei palchi e fin su nel loggione, si facevano notare moltissimi ragazzi delle scuole, un grande segno di salute per il teatro e un modo per smentire tutti quei maldicenti che pontificano sui destini della gioventù moderna tacciandola di analfabetismo funzionale e di ogni nefandezza possibile.

I ragazzi del Verdi non sono di sicuro diversi dagli altri per spensieratezza e gioia com’è giusto che sia; sanno essere rumorosi e giocosi negli intervalli tra gli atti e anche questo è sacrosanto, sanno però anche essere molto attenti e silenziosi quando si alza il sipario e si abbassano le luci perché sono stati educati fin da piccoli a frequentare i teatri che sono per loro un luogo familiare dove trarre piacere dalla musica e dall’azione scenica.

In giro per la città, i primi raggi del sole primaverile facevano fiorire le ragazze di tutte le età. Gioventù, bellezza, amore, fanciulle in fiore sono elementi essenziali del dramma che il Bardo ambientò tra le famiglie in lotta fratricida nella Verona medievale.

Legioni di filologi e letterati si sono accapigliati per secoli sulla “vera” origine dei due sfortunati amanti appartenenti alle reciproche famiglie mortalmente avversarie che finiscono per soccombere agli intrighi. Naturalmente, ognuno ne rivendica la primogenitura adducendo prove inoppugnabili asseverate dai documenti storici più autentici.

Anche la nostra Regione, non ultima, offre sul mercato l’incontestabile “veridico” modello dal quale Shakespeare avrebbe tratto il proprio dramma con la triste storia della nobile friulana Licina Savorgnan Del Monte e del capitano di cavalleria vicentino Luigi Da Porto che ne trasse una novella ambientandola a Verona e che in seguito gli inglesi tradussero; altri filologi propendono per una qualche derivazione dalla letteratura araba e ancora persiana, indiana, del Sol Levante.

E’ un gran bel passatempo quello di seguire i fili delle storie che ci guidano in giro per il mondo e sembrano provenire da matasse sempre diverse e ingarbugliate; è proprio così che funziona, quando si cercano le affinità non è difficile trovarle, in fondo, gli uomini si raccontano sempre le stesse storie da quando se ne stavano impauriti nel fondo delle grotte fino ai social network contemporanei. Per questo, come diceva un distinto signore americano: “Niente è vero tutto è possibile”.

Nello specifico, il laborioso libretto di Felice Romani che Bellini musicò meravigliosamente in poco più di un mese, si ispirò alla novella di Matteo Bandello “La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti…” che davvero può essere associata a Shakespeare. Romani la riscrisse in chiave patriottica servendosene come metafora per condannare la guerra civile strisciante che dilaniava le città italiane da secoli e le rendeva succubi al dominio straniero. Il dissidio tra Guelfi, fedeli al Papa, e Ghibellini, filo imperiali, risale alla lotta per le investiture e non ha bisogno di essere ricordata in queste righe, è così universalmente nota da costituire, che ci piaccia o meno, una pietra angolare dell’edificio della nostra cultura e carattere nazionale e “il Ghibellin fuggiasco” ne sapeva qualcosa.

In ogni caso, era proprio questo che Bellini voleva mettere in scena, tanto è vero che la sua opera, ricordata e riconosciuta principalmente per il suo bel canto, è in realtà e prima di tutto, un’opera politica, patriottica e di carattere eminentemente proto-risorgimentale sostenuta da quel sentimento nazionale che portò al doloroso ed eroico processo di unificazione del nostro paese.

Giulietta e Romeo diventano così metafora dello spreco di risorse umane e della laboriosa, spesso improduttiva, conflittualità interna che da inimicizia si trasforma sovente in odio fratricida che miete le sue vittime tra le persone più innocenti e in fondo ingenue come Giulietta che, per aggirare il divieto del proprio padre, con un filtro si finge morta finendo in un incubo ancora peggiore: svegliandosi dalla morte apparente per scoprire che tutto è perduto.

Sembra un gioco maligno del destino, è questo il senso del dramma Shakespeariano che, sul confine tra sogno e morte, ha costruito la propria poetica, ma non è quello di Bellini/Romani. Nel caso del compositore catanese, non è il destino che fa la rovina dei singoli, ma la cattiva volontà dei potenti che guastano, con la loro protervia e la loro mancanza di visione del futuro, la vita della comunità tutta.

Davvero felicissima l’idea del regista Arnaud Bernard di ambientare l’opera all’interno di un moderno grande museo in allestimento nel quale, appena gli operai se ne vanno, i grandi quadri si animano in varie scene che ricalcano e raccontano la vicenda.

Come diceva Giuseppe Verdi: “Il teatro non deve rappresentare il vero, lo deve inventare”. Le scene di Alessandro Camera, basandosi su questo assunto, hanno creato spazi immaginari che diventano perfino iperreali sfondando la quarta parete del teatro non tanto per far uscire i personaggi dal palcoscenico ma per inglobarvi gli spettatori.

In questa messa in scena, a partire dalla breve sinfonia d’ouverture, gli spettatori si trovano all’interno di una specie di cantiere museale nel quale si staccano i quadri dai muri per creare nuovi spazi espositivi, poco prima che inizi il primo dei due atti si vedono perfino le signore delle pulizie intente a risistemare, rassettare e spolverare.

Il coro prende nel frattempo posizione statica come in un gran dipinto celebrativo con i costumi che virano al rosso. Non appena gli operai se ne vanno con le ultime note del prologo il coro inizia a presentare la vicenda. L’effetto scenografico dice che la vicenda riguarda ognuno di noi e che non è per niente “roba da museo”.

A riunirsi a coorte sono i partigiani di Capellio, capo della famiglia Capuleti, padre di Giulietta di fede Guelfa, che tramano tremenda vendetta contro Romeo che, invece, è il capo della famiglia ghibellina dei Montecchi che ha ucciso in battaglia l’altro figlio di Capellio.

Romeo cerca la pace, ma nessuna riconciliazione è possibile. “Il personale diventa politico”, le motivazioni personali d’odio prendono il sopravvento sul bene comune trasformandosi in tragedia collettiva e la città di Verona viene messa a ferro e fuoco dalle fazioni rivali.

Quella dei dipinti che prendono vita non è certo un’idea nuovissima, nella storia dell’arte dagli antichi velari agli ologrammi è tutto un farsi di immagini che escono dalla loro dimensione astratta per diventare contingenti, ma sul palcoscenico di un teatro dell’opera fa sempre un gran bell’effetto, veri e propri “Tableaux vivants”.

I costumi di Carla Ricotti e le luci di Paolo Mazzon hanno cercato di marcare la differenza tra le pose statiche della pittura e la libertà d’azione dei personaggi “reali” senza che il passaggio sia sembrato posticcio.

Al contrario, l’ambientazione museale ha giovato molto al risultato finale e a quel tanto di sospensione dell’incredulità richiesto agli spettatori. Si potrebbe ragionare molto anche sulle questioni meta-teatrali e immaginative ma non è il caso di approfondire troppo per non rischiare di deragliare nell’accademismo.

La storia dei due infelici amanti, in fondo, è molto semplice e lineare: il conflitto “amore vs morte” ha sempre funzionato a livello narrativo e nell’opera di Bellini costituisce la struttura diegetica dell’intreccio senza però esaurirne i significati. Accanto ai temi proto-risorgimentali, senza alcuna intenzione da parte degli autori, ne emerge almeno uno che allora, forse, risultava imprevedibile e nemmeno pertinente.

La partitura prevede che Romeo sia interpretato da un mezzo soprano per quel gusto per le vocalità “femminili” degli evirati cantori che, nei primi decenni dell’Ottocento, seppur decisamente al tramonto e anacronistico, doveva essere ancora vivo.

Sia ben chiaro, la scelta di Bellini fu eminentemente dettata dalle esigenze del bel canto che restava l’obiettivo principale delle sue composizioni ed è questo il vero motivo per cui le parti dei due amanti sono sempre state interpretate da due donne.

Un particolare che allora veniva considerato semplicemente un’esigenza di scena, ma che oggi assume tutt’altro valore e significato in tempi nei quali alcuni scriteriati si ostinano a negare l’universalità del sentimento amoroso.

Così la parte di Giulietta è stata data all’ottima Caterina Sala che si è distinta per una presenza scenica delicata e allo stesso tempo ardente ed efficace, dai primi spasimi di desiderio fino agli ultimi mormorii della morte dovuta al pugnale.

Un po’ troppo sopra le righe il Romeo di Laura Verrecchia, non tanto per la vocalità che è stata assolutamente all’altezza della situazione ma per la recitazione dai gesti sempre magniloquenti ed eccessivi che hanno reso il personaggio en travestì piuttosto caricaturale. Si è fatto notare anche Paolo Battagli nei panni dello spietato Capellio, sempre scuro e cattivo come un demone che non si piega nemmeno davanti alla figlia morente.

Quando cala il sipario sembra non vi sia più speranza per nessuno, l’amore è morto con i due amanti, l’ottusità e l’oscurità sono calati sul mondo rendendolo tenebra inestinguibile. Il miracolo lo compie l’arte sublime di Bellini e la sua musica che sanno farci scoprire la bellezza anche nel buio più nero.

“Oh! Quante volte, oh quante

ti chiedo al ciel piangendo!

Con quale ardor t’attendo.

E inganno il mio desir!

Raggio del tuo sembiante,

ah! Parmi il brillar del giorno:

l’aura che spira intorno

mi sembra un tuo sospir.”

© Flaviano Bosco – instArt 2023

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