Estensioni Jazz club diffuso è un progetto che già da alcuni anni ha cominciato a pensare di estendere i generi in un percorso a partire dal jazz nel senso più aperto possibile per condurre i suoni nei luoghi più interessanti e inconsueti con lo scopo di liberare la musica e l’immaginazione. Il concerto del Montreâl Gypsy Project è stato un caleidoscopio di tutte queste suggestioni che proveremo a raccontare partendo da molto lontano per ritrovarci infine vicinissimi.
L’antico mulino Braida (Mulin di Tilio) tra macine e tramogge inserito in un biotopo unico e raro di acque di risorgiva e piante secolari sembrerebbe il meno adatto per la musica jazz che uno stereotipo vuole urbana e notturna fatta di fumosi club malfamati e donne fatali. Niente di più sbagliato. Il jazz è di per se una musica sempre fuori contesto e al di sopra di esso, che sa aderire all’ambiente dal quale scaturisce e trasformarlo a colpi di note in qualcosa di completamente nuovo. Il jazz è in grado letteralmente di “scolpire” il paesaggio, crea luoghi, emozioni, situazioni, porta la luce dove si credeva dominasse solo la tenebra.
Avvicinarsi al mulino nella densa oscurità di una serata che si prepara all’autunno percorrendo un sentiero sterrato tra grandi alberi con solo la luce di una fotoelettrica faceva già un bell’effetto di straniamento in un’atmosfera sospesa, incantata; davvero si aveva la sensazione di essere in mezzo ad un magnifico “niente” fatto d’acqua “bulicante”. Nelle stanze dell’antico mulino ora trovano spazio ricostruzioni dell’antica attività agricola, mostre fotografiche naturalistiche e convegni di approfondimento sul biotopo delle Risorgive.
In questo contesto, ha preso posto la mostra macro-fotografica “Piardisi tai detais” (Perdersi nei dettagli) con fantastiche immagini degli insetti dei nostri prati a cui non prestiamo mai troppa attenzione. Il loro “mondo piccolo”, se ben guardato, si rivela pieno di sorprese e di straordinarie emozioni. Sulla corteccia di un albero, perfettamente mimetizzata, possiamo allora scorgere una piccola falena (Rhoptria asperaria); del tutto invisibile ad un primo sguardo, un famelico ragno-granchio che un insetto non è (Philodromus margaritatus) tra le pieghe di un albero ghermisce una mosca; in una serie di scatti si vede una libellula “sorgere” liberandosi della propria esuvia.
Tutto questo ci dimostra che attraverso la rassegna Estensioni non si gode ”solamente” di magnifica musica jazz di grandi interpreti ma è possibile approfittare delle occasioni che ci mette a disposizione per affinare il nostro sguardo sul territorio che abitiamo a volte in modo distratto e insofferente; con la musica del Jazz club diffuso di Luca A. d’Agostino e della sua Slou società cooperativa possiamo imparare ad “ascoltare” il nostro paesaggio e a “vedere” i suoni e le voci che ci circondano.
Nel 1931, in piena Grande Depressione, la follia geniale di un liutaio e musicista italiano, Mario Maccaferri da Cento, e la lungimiranza di un grande imprenditore, Henry Selmer, produssero la prima chitarra davvero moderna che anticipava, nella sostanza, la futura amplificazione elettrica, con accorgimenti costruttivi del tutto acustici che le regalavano un suono potente e al contempo malinconico e secco. Era lo strumento giusto per le sale da ballo e per i locali dove c’era bisogno di farsi sentire dalle persone che erano lì per divertirsi.
Lo capì subito il grande Django Reinhardt che si esibiva con la sua orchestra regolarmente con il Banjo che permetteva sonorità molto acute ma che non aveva l’estensione armonica della chitarra classica. Il suono di quella nuova chitarra che adottò corrisponde al jazz europeo, non una semplice appendice di quello nord americano ma sviluppo su nuove basi culturali; per Reinhardt voleva dire far incontrare la musica tradizionale dei Sinti Manouche cui apparteneva con lo swing americano più indiavolato attingendo anche alla moda dei valzer musette tipicamente parigina in un mix del tutto particolare tra la vena sanguigna flamenca, la gitana e quella più riflessiva e nostalgica degli chansonniers.
Maccaferri ebbe una vita lunga e avventurosa che lo portò ad inventarsi tra l’altro le ance di plastica per sassofoni e deliziose “chitarrine” in bachelite per bambini ma non incontrò mai il musicista che fece entrare nella leggenda del jazz lo strumento che porta il suo nome.
In realtà, almeno simbolicamente, i due si incontrano ogni volta che la musica del gitano più famoso del jazz viene suonata su una chitarra di quel modello ed è ogni volta una festa, proprio come è successo al Mulino Braida di Flambro.
Il trio di All Stars, Mattia Sgobino (chitarra), Alessandro Turchet (contrabbasso), Romano Todesco (fisarmonica), è riuscito nell’impresa di creare un’atmosfera in grado di avvincere gli spettatori e trasportarli in una dimensione temporale sospesa e affascinante.
Chissà quante chitarre e fisarmoniche hanno suonato sull’aia del mulino Braida nel corso del tempo, quanta gente ha ballato sul tavolato del vecchio fienile, Estensioni jazz club diffuso, anche con questo concerto, continua a riappropriarsi di luoghi e tempi trasformandone i silenzi in musica e gioia.
Proprio negli anni in cui Django Reinhardt faceva impazzire tutta Parigi con il suo swing zingaro, nelle nostre campagne la gioventù ballava sulle aie o appena fuori dal paese, lontano dallo sguardo inquisitore del prete, su tavolati predisposti a bella posta, i “Breârs”. Certo gli ambienti erano del tutto diversi e anche la condizione economica ma la felicità e il divertimento erano i medesimi così come gli strumenti con solo il Liròn (Bidofono) al posto del contrabbasso.
Con il primo brano, “Troublant Bolero”, la musica del trio si fa subito travolgente e languida, romantica, esotica e misteriosa. E’ una musica che sa rapirti immediatamente, non serve essere esperti, la presa è immediata. Nel celeberrimo “I’ can’t give you anything but love” che segue, Sgobino si impone anche per la sua voce profonda e virile da cantante confidenziale, vero e proprio crooner di pianura.
Mentre canta la sua chitarra ha un suono molto particolare, soprattutto nelle parti di sola ritmica, sembra quasi senza profondità e sordo. Naturalmente è un effetto sonoro voluto che nelle intenzioni vuole sostituirsi o almeno ricordare le spazzole di un’ipotetica batteria. Suoni curiosi e interessanti che fanno vagare la mente ed è un attimo arrivare con la fantasia dal Mulino Braida alla Senna e poi giù a capofitto fino alle suggestioni di Paolo Conte che dello spirito di Reinhardt è stato ed è magnifico interprete.
Sgobino, tra un brano e l’altro, affabile e ciarliero, racconta le storie di jazz che abbiamo raccontato fino ad ora, intrattenendo piacevolmente il pubblico che si lascia rapire dagli aneddoti e dalla magia della musica come in un piccolo valzer swing che li cattura e ammansisce. Altra ottima interprete dello “zingaro con la chitarra” è Christine Tassan, canadese di Montreâl ma con solide origini e salde radici friulane a Marsure di Aviano ed è proprio dalla sua frequentazione che il trio trae ispirazione e nome.
In grande evidenza il contrabbasso di Turchet, soprattutto nel brano “After you’ve gone” che regala grandi emozioni. Con “Don’t get around anymore” si è ricordato il felice incontro di Django con l’imperatore Duke Ellington, cominciato, dice la leggenda, con una jam alcolica del tutto estemporanea in un locale di Parigi e finita nei grandi teatri Newyorkesi.
Il ricco repertorio ha riguardato non solo strettamente la carriera di Reinhard ma anche dei suoi interpreti successivi e degli innovatori del genere da lui creato. Tra questi di certo Stochelo Rosemberg che da buon olandese ha rilanciato il jazz Manouche contaminando ancor di più i “Sueños Gitanos” sulle strade sudate del sud America, veloce incanto caraibico.
Il suono dello strumento di Romano Todesco si è magnificato nell’omaggio a Tony Murena, il fisarmonicista che ha segnato un’epoca intera con il suo timbro squillante. Più nostalgico e perfino triste il suo suono in Django Castle (Manoir de mes rêves) ed è una vera magia guardare i movimenti della sua mano sinistra per ottenere il vibrato dal movimento del mantice del suo strumento.
Le ultime note riconsegnano gli spettatori la notte dalla quale erano venuti ma con un pizzico di felicità in più (finché dura).
Flaviano Bosco © instArt