Replica del 16/04/2023

Il confine che separa la commedia dalla farsa a volte è decisamente sottile e permeabile. Una regia sbagliata può trasformare la tragedia più classica e l’amore più puro in un edulcorato bibitone da chiosco balneare che nemmeno disseta.

Era tanta l’attesa per la messa in scena del capolavoro di Gluck e dal punto di vista musicale il gusto degli spettatori è stato perfettamente soddisfatto, ma da quello dei costumi, della scenografia e delle scelte registiche le speranze di tanti sono state completamente disattese.

Attesissima dal pubblico di casa soprattutto la soprano triestina Daniela Barcellona che ha confermato la propria classe e la propria presenza scenica interpretando un convincente Orfeo. L’orchestra del Verdi, diretta dal giovanissimo Enrico Pagano, ha garantito il giusto sostegno alle voci senza però dimostrare la brillantezza e l’incisività con la quale tradizionalmente si esegue la partitura di Gluck, niente di disdicevole, solo questione d’interpretazione.

Il melodramma, lo sappiamo bene, non è solo bel canto e perfetta esecuzione, è anche azione scenica, movimento, espressività, coreografie, luci, scenografie e via di seguito; l’opera a teatro non ne può proprio fare a meno altrimenti si tratta di un altro genere: concerto, lettura scenica, operetta.

Quello che si è visto al Verdi per il penultimo appuntamento della stagione lirica 2023 corrisponde proprio a quest’ultima, ha avuto i tratti leggeri, divertiti e ridanciani dello spettacolo tanto caro alla città di Trieste, ma che forse non c’entra proprio per niente con gli intenti del compositore inglese settecentesco che traguardava ben altri orizzonti.

Come dice il critico Sandro Cappelletto, Christoph Willibald Gluck (1714-1787) è passato alla storia della musica come riformatore dell’opera ancora intrisa dei cascami dell’epoca barocca e delle sue “inverosimili meraviglie” in senso neoclassico in un nuovo ordine che preannunciava i capolavori di Mozart e gli sviluppi successivi.

Con i suoi sodali, il librettista Ranieri de’Calzabigi (1714-1795), il coreografo Gasparo Angiolini (1731-1803), il compositore austriaco volle mettere in scena, nel suo Orfeo ed Euridice (1762), in modo del tutto innovativo e coerente, testi, musiche, danza, canto e recitazione; fu la prima opera che teneva conto davvero dell’esigenza di riformare il meccanismo e la poetica ormai logora che governava il funzionamento dell’opera seria. Era un portato della cultura illuministica che si faceva strada anche nel mondo dell’arte riflettendo le esigenze che di lì a due decenni si sarebbero trasformate nel “Mondo nuovo” della Grande Rivoluzione.

Il progetto di riforma di Gluck si concretizzò qualche anno dopo (1767) in una sorta di lettera manifesto che sarà pubblicata come introduzione all’opera Alceste, compimento di un percorso anche nel mito greco che inaugurò un modo radicalmente innovativo di fare teatro in musica: “Componendo l’opera mi proposi di spogliarla affatto di tutti quegli abusi che introdotti o dalla malintesa vanità dei cantanti o dalla troppa compiacenza dei maestri da tanto tempo sfigurano l’opera italiana e del più pomposo e del più bello di tutti gli spettacoli ne fanno il più ridicolo il più noioso.”

La colpa del regista Igor Pison, della scenografa Nicola Reichert e della costumista Manuela Paladin Sabanovic è stata di non tenere nel minimo conto le intenzioni del compositore infarcendo la loro reinterpretazione dell’opera proprio di tutti quegli orpelli e di quelle esagerazioni che Gluck aborriva.

Lo sconcerto degli spettatori è cominciato già a partire dall’azione scenica che commentava la deliziosa ouverture dell’opera, direttamente dall’Intrada come la definiva Gluck. Mentre l’orchestra introduceva delicatamente al mito con note liete, accoglienti e allo stesso tempo avventurose e cortigiane, sul palcoscenico ad una grande proiezione di un dipinto di Jean Baptiste Camille Corot (Orfeo guida Euridice dall’aldilà, 1861) veniva contrapposta una live action con dei paparazzi che inseguivano una coppia di pop star glitterate (Orfeo ed Euridice) fino a che lei non fuggiva via disgustata sempre con i fotografi alle calcagna.

Alla banale scenetta da avanspettacolo di quart’ordine, ne seguiva un’altra ancora meno digeribile con una platinatissima “raffaellacarra” con palloncino a cuore (Amore) che, sorridente e giuliva, si presentava al pubblico con tanto di mossette.

Il sotto-testo dello sketch da televisione nazional-popolare d’altri tempi faceva intuire che Orfeo e Euridice erano visti come una coppia di pop star degli anni ‘80, tormentate da fotografi alla ricerca di sempre nuovi scoop.

La fuga di lei faceva immaginare l’imminente tragedia sulla falsariga di quella di Lady D e del suo terribile incidente automobilistico sotto il ponte de l’Alma a Parigi. Visto che l’arte teatrale nasce anche come elaborazione del lutto, non c’è niente di male nel trasformare la vicenda da tragedia in commedia a lieto fine, proprio come del resto era nelle intenzioni di Gluck e del suo librettista, ma non è concesso come nel caso di specie ricorrere alla farsa sguaiata nei modi e dai toni sdruciti e telefonati alla Carlo Verdone.

Nel primo atto, nella casa faraonica delle due rock-star, il coro in sgargianti abiti anni ‘80 fa le condoglianze ad Orfeo abbigliato in giacca di lamè, stivali da cow boy e parrucca nera come il compianto profeta del metal Richard Benson tutto molto, molto kitsch ai limiti dello squallido e sicuramente peggio del senso che regalò al termine il grande critico triestino Gillo Dolfres: “Un’operazione apparentemente artistica che surroga una mancante forza creativa attraverso sollecitazioni della fantasia per particolari contenuti (Erotici, politici, religiosi, sentimentali)”

Insomma, una carnevalata che la musica sublime di Gluck bastava appena a far sopportare. Alle pareti della Mansion c’erano perfino dei fasulli dischi d’oro per far intuire il grande successo discografico della coppia. Due parole di riprovazione vanno spese anche per il costume di Euridice che ridicolizzava il personaggio con un cesto di treccine afro in testa e vestagline da gran discount.

Le modernizzazioni registiche e scenografiche all’opera non sono una novità e anche al Verdi se ne vedono da sempre di ottime che riescono ad arricchire la messa in scena di nuovi pregnanti significati, ma in questa occasione è accaduto decisamente il contrario.

Giusto per farsi un’idea, la scena descritta poco più sopra nel libretto si presenta prima con un meraviglioso verso dal Libro IV (465) delle Georgiche di Virgilio: “Oh dolce sposa, sulla solitaria spiaggia, eri tu quando il sole sorgeva e tu quando tramontava” (Te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, te veniente die, te decedente canebat). Sono proprio i versi nei quali Orfeo accompagnandosi con la lira canta del suo perduto amore.

Calzabigi nel libretto continua indicando precisamente il luogo nel quale si svolge la tragedia:

Ameno, ma solitario boschetto di allori e cipressi che ad arte diradato racchiude in una piccola piana la tomba di Euridice.

All’alzarsi della tenda al suono di mesta sinfonia, si vede occupata la scena da uno stuolo di Pastori e Ninfe seguaci di Orfeo che portano serti di fiori e ghirlande di mirto; e mentre una parte di loro arder fa de’ profumi incorona il marmo e sparge fiori intorno alla tomba, intuona l’altra il seguente coro, interrotto dai lamenti di Orfeo che, disteso sul davanti sopra di un sasso, va di tempo in tempo replicando appassionatamente il nome di Euridice.”

Con tutto il rispetto possibile non si vede cosa questo possa centrare con la villa di un idolo del rock contemporaneo alla Kurt Cobain o alla Amy Whinehouse con fan e fotografi in delirio.

Qualche parola va spesa anche sulla coreografia dei Solisti del corpo di ballo della Sng Opera in Balet Ljubljana coreografie di Lukas Zuschlag completamente fuori contesto rispetto alla caricaturale mascherata pop che andava in scena quasi casualmente sullo stesso palcoscenico.

I due ballerini (Goran Tatar, Georgeta Capraroiu) piuttosto affiatati hanno raccontato attraverso i loro corpi abbigliati con dei pigiami di smorto poliestere che dire brutti è un complimento, di due amanti attempati e di una loro serata in salotto tra cuscinate, abbracci, litigi e varie contorsioni. In alcuni momenti hanno interagito, si fa per dire, con i veri protagonisti della vicenda, facendo da divertiti spettatori dell’intreccio sulla scena, ma non è servito quasi a niente se non a rendere la scena ancora più caotica.

Decisamente un passo falso anche la trasformazione della straordinaria Lira di Orfeo, capace di far sradicare gli alberi e deviare il corso dei fiumi con il suo magico suono, in una chitarra elettrica per l’Hard Rock tipo quella che imbraccia Angus Young degli Ac/Dc (Gibson SG Standard 1967).

Con tutto il rispetto non è la stessa cosa, nemmeno lontanamente.

Se è possibile individuare un minimo comune denominatore tra le proposte della stagione lirica del Verdi di Trieste di quest’anno è l’amore tragico tra giovanetti ostacolati dalle famiglie. In questo caso l’operazione non è riuscita, per niente e spiace parecchio.

In ogni caso come canta il coro alla fine: “Trionfi Amore, e il mondo intiero serva all’impero della beltà”.

© Flaviano Bosco – instArt 2023

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